24.7.12

Morire in Africa


Morire in Africa è un racconto importante. Per me. 
L'ho pubblicato sotto pseudonimo su Fata Morgana 4, dicembre 2001, ed è nato da un ricordo personale. Un amico di mio padre, partito per l'Africa, sopravvissuto rocambolescamente alla guerra civile in Congo e ammalatosi di silicosi. Ritornato a morire in Italia e a lungo sopravvissuto, senza più desideri né speranze. Alto, abbronzato, gentile e generoso, gli occhi protetti o nascosti da occhiali da sole a specchio, un fazzoletto bianco dove tossiva fino a sfinirsi. Aveva scelto di morire in Africa. Il suo nome non era né Luigi né Amerigo, me lo ricordo. La sua morte, troppo a lungo attesa, è alla fine giunta. Ma tardi, troppo tardi. 




TAC

È da almeno due giorni, quarantotto ore mal contate, che non sente più nulla.
Non ha quasi mai dormito, a meno di non voler chiamare dormire un torpore tormentoso, nel quale gli oggetti della piccola stanza non riescono a scomparire completamente.
Fuori è divenuto impossibile guardare: lo sa dopo l’ultima volta che ha scostato gli scuri ed ha visto. Il sole immobile nel cielo, le nubi ferme come una guarnigione dimenticata, in attesa di un ultimo assalto che non verrà mai.

L’aria sa di caffè riscaldato, di un bucato che non ha terminato di asciugarsi, di polvere, di un residuo di odore di cottura rimasto a stagnare nell’aria anche dopo che, quasi tre giorni prima, ha chiuso la porta della cucina.
Il silenzio svuota gli odori, li frantuma e ricombina in combinazioni nauseanti o sorprendenti. Seduto ritto alla poltrona ha cessato di ricevere segnali dalla periferia del corpo. Vede la forma delle gambe coperte dal plaid a motivi gialli e azzurri (sempre che ci si possa fidare dello spettro dei colori di quel sole inchiodato sull’alba) ma non vede né sente i piedi, i polpacci, le caviglie. Qualcosa o qualcuno potrebbe avergli tagliato le gambe appena sotto le ginocchia e se ne accorgerebbe soltanto alzandosi.

Ma per andare dove? Per attraversare il lungo corridoio - ci sono cumuli di polvere grigia negli angoli, un disegno di stucco in alto, a incorniciare il soffitto - con le sette finestre dagli scuri aperti che guardano all’altra metà del cielo? Alle nubi d’amianto che pesano sull’aria? Alle lontane colline vuote, del colore del mattoni umidi?
Non si alzerà, per il momento. Starà seduto ad attendere. Attendere. Attendere ancora.
Con la punta delle dita accarezza senza sosta una piccola scultura d’avorio. L’oggetto si lascia scorrere, attraversare senza rivelare il proprio disegno. Sospeso tra il liquido ed il solido, tiepido e fresco non esaurisce mai la capacità dei suoi polpastrelli di percepirlo. La scultura raffigura un negro - adesso bisogna dire nero ma una volta non era così - labbra fortemente rilevate, una cresta di capelli sottilmente incisi, una forma appuntita rilevata sulla parte superiore della coscia: un lungo coltello o una specie di daga. Tiene le braccia incrociate sul petto e ha gli occhi socchiusi, obliqui con la punta superiore che si confonde con le leggere incisioni che rappresentano i capelli.
Una scultura comune, un ricordo per turisti acquistato in aeroporto. Per poter dimostrare ai genitori e agli amici che si è effettivamente stati in Africa. A trovare un vecchio amico che non tornerà mai indietro, un vecchio amico sorpreso di vederlo, imbarazzato della sua casa umida e trascurata.
Come si chiamava? Amerigo? Luigi? E il cognome? Branda? Branca?
Un diaframma lo separa da quei ricordi. Può articolare le parole per dirli, riferirli, ma non sente forme né luci. Neppure il viso ricorda. Ha qualcosa in comune con il negro d’avorio. I capelli fini, pettinati all’indietro, tagliati corti. L’ha conosciuto da bambino e lui (Amerigo? Luigi?) era già grande. È rimasto sempre uguale, si è solo rattrappito, ridotto. La pelle gli è diventata grigia, i gesti più raccolti, appena accennati, che non riuscivano a oltrepassare la propria ombra.

Il polpastrello del pollice scivola dondolando sulla scultura. Se non la osserva non sa quale parte sta toccando. Va bene così. Va bene così.
Dalle cantine non viene nessun rumore. Addormentato e morto. Da nessuna parte vengono rumori. Niente canto d’uccelli, nessuna motocicletta lontana ad attraversare all’orizzonte il grande semicerchio rossastro del sole nascente. Neppure il rumore inaudibile degli alberi che crescono, dell’erba che sospira.
Amerigo o Luigi (nessuno dei due è il nome giusto, lo sa benissimo) era fatto per l’aria aperta, per il sole che batte sulla fronte.
Per anni hanno lavorato insieme - lui e Luigi o Amerigo - nel cubo grigio degli uffici. Vestiti di scuro, a due scrivanie di distanza. Con la lunga striscia di carta espulsa dalla calcolatrice che si allungava fino al verde del linoleum. Guardavano dalla finestra della piccola stanza dov’era la macchina dei caffè. Il cortile di un grigio più scuro dove passavano i carrelli gialli e dal quale, nella bella stagione, provenivano frammenti di canti o schegge di urla.
No. Amerigo o Luigi è stato lì per pochi mesi. Non sopportava di restare chiuso.
Io non voglio fare la tua vita, i giorni vestiti di grigio, la cravatta a righe sottili o a piccoli disegni. Ha lasciato il posto sicuro per un’avventura da geometra in Africa. Gli ha mandato cartoline e lunghe lettere. Le foto di bambine mulatte e della moglie di colore. Più alta di lui, che guardava nell’obiettivo con un’aria di sfida che forse nascondeva paura. La macchina fotografica che ruba l’anima. No, lei era una ragazza di buona famiglia. Aveva studiato in Inghilterra. Ma forse qualcosa della sua anima tribale. Non glielo aveva mai scritto ma si erano lasciati, avevano divorziato pochi anni dopo il matrimonio. Infedeltà. Anni dopo nella sua casa di separato aveva trovato mutande da donna sporche di mestruo sotto il letto, lenzuola grigie, tazze non lavate. Luigi o Amerigo scherzava e beveva il pessimo whisky che facevano lì. Aveva preso una malattia, una malattia inconfessabile.

Luigi o Amerigo che era invecchiato improvvisamente. Con le foto di un’Africa che non avrebbe mai visto, con i documentari proibiti, quelli in bianco e nero con negre che agitavano il culo e le tette. Aveva un amico in RAI che glieli aveva duplicati. L’Africa, il posto dove finalmente avrebbe potuto essere se stesso.
Silenzio. Ci sono silenzi diversi. Uno è fatto di possibilità, un altro di attesa, un altro ancora di delusione, umiliazione, stanchezza. Questo è fatto di vuoto. Batte le mani. Il rumore si gonfia per un istante e scompare subito inghiottito dall’aria. Non si sarebbe stupito di vedere le proprie mani incrinarsi e sgretolarsi come quelle di una statua di gesso. L’immagine è vivissima per un istante, tanto intensa che si guarda, si tocca, risale con le dita lungo il braccio incredulo. Per il momento non è accaduto.

TAC

La vibrazione questa volta non lo coglie di sorpresa. Sale da pavimento, fa ondeggiare i muri, gli attraversa il corpo. È piacevole, come la carezza di un vibratore sulla schiena.
Parte dalle cantine dove lui attende senza riposare, paralizzato nel tempo.
Luigi o Amerigo gli ha telefonato una settimana prima. Sono morto, ma non riesco a
Cosa intendi dire. L’altro parla staccando le parole dal palato una ad una con lunghissime strisce grigie tra una parola e l’altra.
N o n r i e s c o a
N o n r i e s c o a
Dove sei
In Africa. A casa mia. Non ci sono più donne. Sono morto / quasi del tutto / quasi
Vengo
La porta è aperta. Mi trovi sicuramente.

L’ha trovato. Più magro, sorrideva ancora, distrutto da un tumore ai polmoni. Ha lavorato nelle miniere. Per anni, mentre lui riavvolgeva i nastri di carta della calcolatrice per riutilizzarli dal lato ancora bianco.

Vedi ho smesso di respirare ma non sono morto. Ho smesso di mangiare, di bere e non sono morto. Sto qui, il tempo mi ha dimenticato.
Non dorme, non chiude neppure gli occhi. Avessero ancora la macchina del caffè, i piccoli bicchieri di carta con il cucchiaino di plastica bianca. Due parole sul tempo che non migliora, sul calcio che da anni non li interessa più, sulla politica che è tutto un teatro, sulla loro amicizia divenuta troppo ingombrante per essere accantonata.
Gli scriveva: la mia moglie mi fa paura. La lego con corde bianche per amarla, mi morde le spalle fino al sangue. Dopo non ci parliamo per giorni, invisibili uno all’altra.
Gli scriveva: qui il giorno e la notte hanno la stessa lunghezza, gli africani mi fanno paura quando parlano ma ancora di più quando tacciono. Quando tacciono e si allontanano mi sembra che con loro se ne vada via il tempo e la realtà. Mi sento incerto, indefinito, come un disegno mal fatto su un foglio.
Gli scriveva: non mi piacciono le mie figlie. Hanno occhi da cane e mani troppo grandi. Ridono quando parlo e si nascondono.
Gli scriveva: se penso di dover morire mi sento meglio, se penso che finirà, respiro
Gli scriveva: alle volte penso che il sole non tornerà o che non verrà mai sera. Alle volte penso che il tempo debba smettere di rotolare.

Due scrivanie davanti. Sposta i fogli da una vaschetta blu ad una vaschetta rossa. Amerigo o Luigi che accende una sigaretta e la dimentica nel portacenere. Nel terzo cassetto in basso della scrivania - quello con la chiave - tiene le riviste. Solo donne dalla pelle nera legate con lunghe corde bianche, decine, centinaia, per pagine e pagine. Gliele ha mostrate: lo annoiano.
L’Africa è il tempo fermo, un cielo traforato di nuvole, un sole troppo grande e rosso, donne nere come bambine con le quali giocare. Delle quali ha terrore.
Amerigo o Luigi adorava fischiare e lo sapeva fare alla perfezione. Sapeva imitare l’uccellino del segnale radio RAI. Ore tredici e trenta, o diciotto o undici, aspettavi di udire dopo. Adesso non può più, deve decidere quanta aria far entrare attraverso la bocca, esattamente come se bevesse. Aria che non serve a nulla, che non lo può modificare.

Il sole tagliato a metà dall’orizzonte, rosicchiato dal profilo degli alberi lontani. L’ingresso delle miniere, le maestranze di colore, l’ingegnere che viene dal Lussemburgo ma parla solo tedesco, l’operaio anziano, nero come legno scurito dal fuoco, che evita di guardarlo in faccia. Aria piena dell’odore di uomini, di fatica, di sudore, di paura.
È tutto vero, tutto scritto: gli ha detto Amerigo o Luigi.
È vero di mia moglie, delle puttane nere, della casa con il patio, del pappagallo malato, dell’erba grassa e lucida bagnata di pioggia.

Morire in Africa, quella che solo loro conoscono.
Attende, attende ancora. Fino a quando non si spegnerà anche l’ultima scintilla e Amerigo o Luigi finalmente riceverà la morte. Lo aspetta come l’ha aspettato tutta la vita, quando l’ha incontrato da bambino e poi da adulto ed ora da vecchio. Lui che forse non ha davvero un nome ma che lo ha sempre accompagnato, il vero amico, l’uomo che rompeva e si ribellava, che fuggiva e non si abituava, che sognava questo mezzo sole e le nuvole di zinco che avvolgono la pioggia.

TAC

6 commenti:

Romina Tamerici ha detto...

C'è qualcosa in questo racconto che mi sfugge. Mi è piaciuto molto il tuo modo di usare le parole in alcuni punti, però c'è qualcosa di non detto, secondo me, che può anche essere una tua precisa scelta. Sembra quasi che non si possa capire tutto... e non è detto che sia una cosa negativa!

Massimo Citi ha detto...

@Romina Tamerici: grazie per la lettura, innanzitutto. Poi, per quanto riguarda ciò che non dico, probabilmente si tratta di qualcosa a cui nemmeno io arrivo. Come può essere, molto più banalmente, incapacità di raccontare. Tendo a scrivere così e molto spesso vengo rimproverato per lo stesso motivo. Mi fa molto piacere, e parlo sul serio, che possa nascere il dubbio che volutamente non tutto sia spiegato. Per giastizia facciamo fifty-fifty tra incapacità e volontà, : )

S_3ves ha detto...

Uno dei racconti più "tuoi". Storia di un irriducibile che non riesce a vivere una vita quotidiana, ordinaria e si rifugia nel luogo più altro che riesce a immaginare. Un luogo troppo diverso per amarlo, troppo diverso per odiarlo. Sembra che una persona così non riesca a concedersi nemmeno alla morte.

Massimo Citi ha detto...

@S_3ves: in un certo senso è vero ed è così. Non so quanto lo fosse la persona dalla quale ho ricavato il personaggio, ma l'esito narrativo è questo. Mi affascina pensare che, come in una commedia, lo sfondo sia fisso, immobile, come lo è il protagonista che l'io narrante serve come un maggiordomo.

Romina Tamerici ha detto...

Secondo me tu non sei affatto incapace! Ci sono cose a cui io non sono arrivata, ma ciò non pregiudica la qualità del racconto. A volte è il non detto a parlare, è il vago a creare fascino. Certe cose si fanno "volontariamente" anche quando non ci si pensa.

Massimo Citi ha detto...

@Romina Tamerici. scusa per il ritardo nella risposta, ma hai toccato un punto davvero importante e meritava riflettere un pochino prima di rispondere. Il "non detto" credo sia essenziale, nella scrittura. Non parlo di questo racconto, ovviamente, ma del narrare in generale. Non spiegare fino in fondo, non rendere del tutto esplicito ciò che ti spinge a scrivere in una direzione o nell'altra può, assurdamente, regalare profondità al brano, lasciare intuire qualcosa della realtà. Non credo possa essere un elemento davvero scelto, ma una buffa e inattesa conseguenza del provare a misurare fino in fondo la profondità del narrare. Oltre al mistero dello scrivere, in sostanza, è possibile sia necessario evocare una profondità ulteriore, quella che noi scriventi cerchiamo inutilmente di raggiungere e descrivere. D'altro canto siamo soltanto esseri umani e oltre un certo limite il nostro cervello, probabilmente, non riesce ad arrivare. Le parole "sospese" di questo come di altri racconti, è possibile che non descrivino altro che la mia personale impossibilità. In questo senso questo racconto mi è particolarmente caro, proprio perché non sono riuscito - né riesco adesso - a raccontare completamente ciò che vi accade. Grazie del commento.