28.6.08

Il karaoke del libro

Il Gruppo Espresso-Repubblica, invadendo il campo dei tanti editori di vanità che sopravvivevano di piccole furbizie e modesti raggiri, lancia l'iniziativa Il mio libro - se l'hai scritto va stampato - dove propone la possibilità di pubblicare il proprio manoscritto (saggio, romanzo, antologia ecc.) in forma di volume nella tiratura desiderata. Fatta una prova on line (romanzo, 600 pagine, rilegatura morbida, 10 copie) ne ho ottenuto un preventivo di 157,63 euro, cioé 15,76 euro di costo copia. Accettabile, tutto sommato. Apparentemente non esiste modo per ottenere un ISBN e quindi di poter accedere alle librerie on line ma, in compenso, è possibile mettere in vendita la propria «creatura» direttamente sul sito entrando nella «community» degli autori autoconvocati. Il sito si propone anche come luogo di incontro e discussione tra autori anche se i toni sono forzatamente un po' surreali e necessariamente autoreferenziali. Da nessuna parte, comunque, è scritto che la pubblicazione potrà essere un viatico al successo, anche se sempre su «La Repubblica» di questi giorni mi è capitato di vedere un sottotitolo all'inevitabile articolo di presentazione dell'iniziativa che strizzava l'occhio ai clienti-autori con un «... e tra gli editori qualcuno se n'è accorto». Un dire e non dire che... dice tutto.
Per il momento la cosa ha ancora i connotati di un karaoke del libro, verrebbe voglia di dire, anche se rischia di risultare una definizione un po' crudele.
Ci sono comunque alcune osservazioni che merita fare prima di azzardare un commento o un giudizio.

- In più occasioni mi è capitato di scrivere che un libro è, entro certi limiti, un'opera collettiva. Accanto all'autore siedono virtualmente altre figure professionali - l'editor, il correttore, il grafico. Il loro contributo può essere vitale per fare di un romanzo comunque valido un unicum.
L'autopubblicazione, eliminando la necessità della consulenza e del contatto e della discussione preventiva alla pubblicazione, «congela» il testo nella sua prima forma cancellando la possibilità di sviluppi e riflessi che un confronto professionale avrebbe potuto suscitare. E non sto parlando del consiglio dello zio che insegna italiano al liceo. Dire «siamo tutti autori», capaci e autosufficienti, è un po' come dire che, in ultima analisi, nessuno lo è. Ovvero che tutti lo sono ma in forma potenziale e parzialmente inespressa. E parlando di consulenza non mi riferisco al bieco «trattamento» commerciale di un romanzo vivace e anticonvenzionale in modo da estrarne un thriller normalizzato. Questo genere di trattamenti non sono poi così frequenti come si pensa e il più delle volte rientrano nella categoria delle leggende metropolitane.

- Lo scrivente che diventa autore avendo travasato il suo file nel sito del Gruppo Espresso non ha verosimilmente fatto il suo ingresso nel dorato mondo della Grande Letteratura. Dispone ora di un oggetto più razionale e trattabile di un fascio di fogli rilegati con la spirale e della possibilità di autopresentarsi a un pubblico. Ma a un pubblico di individui convenuti sul sito con il medesimo fine di essere finalmente compresi e apprezzati e quindi forse non così finemente sintonizzati sull'ascolto delle opere altrui. Meglio che niente, comunque? Sì, meglio di niente.

- Il libro, comunque sia, non potrà essere commercializzato a livello professionale. Triste ma vero. È teoricamente possibile dotarsi (pagando un prezzo ragionevole) di un ISBN e di un EAN ma, a parte le librerie on line, per vedere la propria opera in libreria si dovrà provvedere personalmente «Buongiorno. Io sono l'autore del romanzo Morto di giovedì e mi chiedevo se questa libreria... Non trattate questo genere?... Ma mi era parso... È un noir, il mio, come Lucarelli o Ellroy... non vendete noir?... Ma se li avete dappertutto...» No, meglio lasciar perdere.

- Ci sono troppi libri e troppi pochi lettori. Non è uno scherzo. I forti lettori (coloro che leggono più di dodici libri all'anno) in Italia sono tra i tre e i quattro milioni di persone. Curiose, certo, ma anche scafatissime ed esigentissime. Virtualmente impossibile smuoverle dai propri personali percorsi di lettura a vantaggio di un autore sconosciuto che si è stampato il suo libro da sé. Questo anche ammesso che l'autore possa contare su qualche recensione o articolo. «Proporre» un nuovo autore è un lavoraccio, vi direbbero Mondadori, Rizzoli o Feltrinelli. Creare interesse verso di lui in un pubblico di lettori tutto sommato ristretto e obbligato dalla fase economica a non spendere denaro in titoli dubbi assomiglia sempre di più al raccogliere acqua col setaccio.

- Se l'hai scritto va stampato è un ottimo slogan.
Per uno stampatore.
Pessimo per chi scrive.
Tutti hanno il diritto, pagando, di dare una forma gradevole al prodotto del loro ingegno, ci mancherebbe. E hanno il diritto di farne omaggio o venderlo ad amici e parenti. Ma dichiararsi giardinieri perché si possiede un'azalea in vaso è quantomeno disonesto. Verso se stessi, in primo luogo.

- Tutti hanno il romanzo italiano del XXI secolo in fondo a un cassetto.
E tutti ambiscono a dire la loro sul mondo, la vita, l'amore, il destino, la morte e la sofferenza. Tutti, se potessero, esprimerebbero la loro opinione in TV. O sui giornali.
Ma quasi nessuno sarebbe in grado di farlo in modo da suscitare e mantenere l'interesse altrui.
La comunicazione professionale è una competenza che si acquisisce con lavoro e fatica.
Io so fare il libraio e mi viene riconosciuta una certa competenza.
NON SO, invece, fare rammendi invisibili.
Disegnare ritratti.
Intrattenere un gruppo di bimbi.
Comandare una portarei o una petroliera.
Probabilmente potrei imparare a fare ognuna di queste cose, ma dovrei sbattermi parecchio per giungere a farlo decentemente.
Chissà perchè, invece, sono in molti a credere che per condurre un'attività di comunicazione e intrattenimento - compreso scrivere romanzi - sia sufficiente aver vissuto un certo numero di anni, impiegati, in genere, a fare tutt'altro.
Forse perchè siamo ormai abituati a vedere format televisivi dove poveri imbecilli fanno, per l'appunto, gli imbecilli per un po' di soldi e un quarto d'ora di notorietà.
Ho il forte timore che l'iniziativa del Gruppo Espresso-Repubblica abbia, in fondo, più punti di contatto con il Grande Fratello che con la storia della Letteratura Italiana.
Va bene, sono odioso. Nessuna difficoltà ad ammetterlo.
D'altro canto Doris Lessing dice che scrivere non è un dovere.
Ancora meno l'essere letti, si suppone.

26.6.08

Aria pesa e tetra


A richiamare la mia attenzione è stata, questa volta, un'osservazione di un collega, Federico Madaro della Libreria Mangetsu di Torino, specializzata in culture dell'Estremo Oriente.
Ci eravamo visti di sfuggita qualche sera prima per una riunione dei librai torinesi, convocata per organizzare i prossimi «Portici di Carta». Normalmente nelle riunioni di librai c'è sempre una leggera tensione, dovuta a qualche vecchio litigio, a «storiche» divergenze nella visione del mondo editoriale, ad antipatie personali antiche e recenti o a incomprensioni divenute col tempo diffidenze o intolleranze. In più c'è da aggiungere la convinzione che ogni libraio nutre in fondo al suo cuoricino di essere l'unico, in fondo, a capirne qualcosa del suo mestiere mentre tutti gli altri son semplici praticanti, arruffoni casinisti preoccupati soltanto del vile soldo.
Un clima comunque non troppo diverso da quello che si respira in qualsiasi assemblea di soggetti che condividono lo stesso lavoro e in gran parte la stessa passione.
Normalmente le ruggini emergono nel corso di una discussione, qualunque sia l'argomento discusso. Sa A dice «nero» per B sarà certamente «giallo» o «rosso» o anche «freddo» o «troppo lungo». La coerenza, infatti, presuppone accordo sull'oggetto trattato, ma se non esiste nemmeno un accordo minimo ci vuole un amen per andare fuori tema e rispondere tipicamente a pera.
«Le altre volte il corriere è arrivato tardi!»
«Può darsi, comunque non mi va che si dia tanto rilievo alla produzione dell'editore Zamarra!»
L'editore Zamarra che io sappia non esiste, ma una discussione tanto scentrata esiste o quantomeno è esistita. Ed esisterà ancora.
...
«Hai visto l'altra sera?» Mi ha detto stamattina Federico, dopo i convenevoli di rito.
«Che cosa, in particolare?»
«Com'era moscia la riunione»
Ci ho pensato per un istante. Non era il tipo di riunione che potesse scatenare istinti belluini, ma effettivamente qualcosa di strano c'era. Nessun litigio. Nemmeno un darsi sulla voce o uno scazzo un po' pretestuoso. Al massimo qualche battuta un po' fiacca, qualche occhiata pungente o qualche respiro a dire: «effigurati se eri buono a tacere». Una desolazione, a pensarci bene. Un Thedayafter del litigio bibliocommerciale.
«Effettivamente non ci sono stati litigi».
«Peggio. Erano tutti troppo depressi per averne voglia».
Federico ha moltissimi pregi. È un uomo serio, appassionato, competente. In più sa il cinese e lo immagino per nulla digiuno di coreano e giapponese. Apprezza il nostro lavoro di editori quanto noi apprezziamo il suo di libraio, ma... come tutti ha qualche difetto. Il suo è quello di essere un ciclotimico con sfumature paranoidi.
Lo capisco perfettamente, presentando io stesso qualche sintomo della stesso genere.
Probabilmente una predisposizione che sta sullo stesso segmento di cromosoma che ospita la passione smodata e irrazionale per la carta stampata.
Però questa volta il tono del suo commento aveva qualcosa di più drammatico del solito. In più trattava di una stranezza assoluta: la mancanza di battibecchi a una riunione di librai torinesi.
Mi è venuta in mente una piccola cosa, una cifra letta sul riassunto dell'ultimo rapporto ISTAT. Una cifra preceduta da un ( - ).
Che riguardava il consumo di prodotti culturali in Italia nel mese di aprile 2008.
Un - 3,9% di vendite per spettacoli, cinema, teatro, musica e libri.
Che, tenendo conto che il prezzo dei libri è in crescita, fa anche qualcosa di più di un 4%.
Un 4% non è affatto poco come sembra, per imprese che vivono da sempre sul limite ristrettissimo che separa la sopravvivenza dal baratro. E, in presenza di una stretta creditizia dovuta tanto alla catastrofe dei mutui statunitensi quanto alle geniali iniziative del nostro Robin Hood Tremonti, rischia di essere la spintarella che manda definitivamente fuori strada imprese già piuttosto esauste.
Sicuramente quelli dell'ISTAT sono una banda di minchioni, sicuramente le loro rilevazioni sono aria fritta, sicuramente... ma altrettanto sicuramente c'è un sacco di gente che ultimamente ha deciso di rileggere i libri che ha già.
O di fotocopiare quelli che deve comprare per forza.
Non sarebbe il caso, forse, di stringere i rubinetti della superproduzione?
Fare meno titoli e farne di migliori?
Se la gente ci pensa su due o tre volte più del solito prima di spendere, non sarebbe il caso di non
seppellirla sotto un eccesso di offerta di cloni? Con il rischio di stancarla ancor prima che abbia messo mano al portafoglio?
C'era una volta uno scrittore di sf - Mark Reynolds, americano, iscritto al partito socialista - che scrisse, tra gli altri, un romanzo di fantascienza dal titolo italiano di Effetto valanga. L'aspetto curioso e interessante del libro era quello «fantaeconomico».
L'aspettativa di una crisi la genera, diceva il buon Reynolds, americano socialista.
Se i consumatori rinunciano a consumare, ritardano un acquisto o lo rimandano... che cosa succede?
Penso, come Federico, che lo vedremo presto.
E forse non è tardi cominciare a pensare, ciascuno nel proprio settore, che cosa fare.

23.6.08

La fine del progresso

Certo.
Con il lavoro - i tre o quattro lavori - che faccio dovrei evitare di affrontare il discorso.
Mediamente lavoro per un cinquanta / sessanta ore settimanali. Se sono in chiusura di un numero di LN, di uno dei libri di CS_libri o di un (mio) testo - romanzo o racconto - arrivo facilmente a settanta / ottanta. Non mi considero uno sfruttato. Al massimo un autosfruttatore. Nessuno mi impone nulla, soltanto so che se non viaggiamo a questi ritmi non rispettiamo i tempi promessi ai nostri sedici lettori e per editori delle nostra dimensioni farsi la fama di gente che riposa sugli allori non aiuta per nulla.
Ma se nel mio caso si tratta di un lavoro poco o pochissimo redditizio ma di grande soddisfazione umana e intellettuale, non altrettanto penso si possa dire per tutti coloro che lavorano molto di più di quanto è previsto dal contratto e dal buon senso, soltanto per non arretrare nella gerarchia sociale. Fare straordinari è ormai divenuto addirittura un dovere civico verso la Nostra Patria (la povera patria cantata da Battiato), una dimostrazione che il lombardo/veneto way-of-life è l'unico possibile per stare nel mondo globalizzato.
I cinesi lavorano venti ore al giorno. Gli indiani lo stesso.
Persino i brasiliani lavorano venti ore al giorno.
Il mondo è pieno di gente che superlavora e se non fai lo stesso resti indietro... indietro... ... indietro.
Tutti lavorano letteralmente come pazzi trascurando allegramente la famiglia, i propri interessi, la propria cultura, se stessi. Una maledizione che letteralmente si respira e che rende chiunque sia un po' meno invasato un fanegottone indegno di considerazione.
Ma come ci siamo arrivati?
Com'è possibile che non solo si sia digerita l'etica capitalista del superlavoro ma che la si difenda , striduli e paonazzi, ululando istericamente contro tutti «quei là» che vanno a prendersi il caffé a metà mattina.
Gli statali.
Ah, gli statali.
Che orrore, gli statali.
Son quasi come i pedofili.
Son PEGGIO dei pedofili.
Sono dei vampiri, gli statali.
Non si sa di che cosa si parla, ma si parla lo stesso.
Ovunque, a tutte le ore.
«Qui si chiacchiera, non si lavora».
Le vittime del superlavoro non cercano giustizia, ma cercano altre vittime.
Idioti.
Chi ha detto che dare il sangue all'impresa - che in genere ricambia precarizzando e delocalizzando - sia giusto e bello?
Com'è successo che non si pensi più, nemmeno per sbaglio, che «lavorare tutti, lavorare meno» possa essere persino giusto?
Sono cresciuto in anni nei quali si potevano leggere buffe previsioni in genere scritte da non meglio definiti «scienziati americani» che profetizzavano: «Nel 2000 lavoreremo non più di due ore al giorno. Ci saranno i robot, ci sarà questo, ci sarà quello e potremo dedicarci agli affetti, alla musica, alla cultura. Diventare persone migliori, avere un eloquio affascinante, dedicarci ai nostri interessi e a far del bene agli svantaggiati.»
Che cos'è che non ha funzionato?
Com'è che invece lavoriamo dieci ore al giorno- sabato compreso - litighiamo con tutti, abbiamo un vocabolario fatto di 500 parole (per metà insulti o sinonimi di «pene» e «vagina»), disprezziamo i libri, la cultura e i poveracci, troviamo che il coniuge sia un cretino rompiballe e i figli degli insopportabili scassacazzi, ascoltiamo un musica che non è mediamente più complessa del ritmo di voga a bordo di una galea e una volta giunti a casa non sappiamo più bene che cosa fare oltre che accendere la TV?
E com'è che i robot non sono non solo non ci hanno sostituito, ma sono diventati complici della proprietà nel dettare ritmi di lavoro insostenibili?
Com'è che c'è un sacco di gente che crepa al lavoro invece che invecchiare felicemente?
Perché ci siamo abituati a pensare che il nostro passaggio in questo mondo debba per forza essere frettoloso e isterico?
Nasci, lavora e crepa.
Non riesco a capirlo, sinceramente. E non riesco a capire bene che cosa sia accaduto. Potrei usare la parola «capitalismo», a questo punto. Ma non sono Tremonti e potrei persino passare per comunista.
I comunisti son quella gente che parla di sfruttamento a bordo di uno yacht, con in mano l'ennesimo Martini.
Sono astemio e non ho amici con lo yacht. Quindi a rigore non posso essere comunista.
E poi lavoro parecchio.
Quindi devo essere matto.
E anche un po' cretino, visto che lavoro molto ma non mi faccio i soldi.
Dalla politica alla psicopatologia.
È già successo in URSS di transitare da una categoria all'altra.
Il manicomio lì lo pagava lo stato, se non altro.
Qui rischi di finire in una clinica convenzionata con la Regione Lombardia.

20.6.08

ALIA Sol Levante


Questa è la copertina di Suemi Jun.
La traduzione dal giapponese è stata di Massimo Soumaré.
La curatela di Silvia Treves e mia.
Sono 11 racconti, sinceramente notevoli.
Per ulteriori info continuate fino al blog ALIA Evolution.
Ne vale la pena.

19.6.08

Scrivere Fantasy al presente

«Le macchine volanti, fatte della stessa stoffa della quale sono tessuti i mantelli degli Oscuri riposano sotto una gigantesca tenda. Sono tre enormi palloni, lunghi, leggeri e carenati come navi, trattenuti a terra da corde coperte di Maurr. Al loro ventre sono assicurate grandi ceste. Un Oscuro prende posto in un abitacolo di legno posto a prua della nave e gli altri prendono posto nelle ceste. Li imitano, troppo storditi dal rumore e dallo spettacolo per aver voglia di discutere. Sicuramente non esiste altro modo per valicare l'abisso delle Acque del Centro. Si alzano in volo silenziosamente, mossi dal vento circolare che agita gli alberi affacciati sull'immane gorgo. Klog si ritrova nella cesta con Basso Okme e un paio di arcieri Oscuri. Nessuno proferisce parola, ben conscio che comunque nel fragore delle acque che precipitano nell'abisso qualsiasi altro suono sarebbe inafferrabile.
La nave costeggia i bordi dentellati delle terre che si affacciano sulle acque del centro e si solleva verso le grandi nubi che danzano appese all'altissimo soffitto di roccia della caverna.»
...
Più o meno mi sono fermato qui, dopo aver scritto circa 900.000 caratteri. A occhio per chiudere la vicenda dovrei scriverne più o meno ancora la metà, da 400.000 a 500.000.
Un giorno o l'altro troverò il tempo per finirlo. Naturalmente accadrà quando del fantasy non fregherà più niente a nessuno e mi risulterà impossibile «piazzarlo».
Nemesi.
Il problema di romanzi tanto lunghi è che si giunge a un punto nel quale bisogna rileggere tutto in un lasso di tempo ragionevole e stabilire dove andrà a finire Caio, quale sarà il destino di Sempronio e che cosa ne sarà della terra di XYZ.
Il lasso di tempo ragionevole lo puoi avere soltanto se di lavoro fai lo scrittore, ovvero qualcuno paga per leggerti. Se questa preziosa precondizione non si verifica puoi pensare seriamente di concludere opere tra i 500.000 e i 700.000 caratteri, ma non di andare oltre il milione (di caratteri). Sembra un po' arida questa classificazione per numero di caratteri, ma corrisponde a morfologie «romanzesche» ben precise. «Il Mare obliquo», ossia questo fantasy incompleto, è un romanzo picaresco, ossia nel quale i protagonisti si muovono - devono salvare il mondo, un classico per questo genere di letteratura - superano mari e terre, incontrano creature anche più strane e curiose di loro (N.B.: nessuno dei protagonisti e dei deuteragonisti del libro è un appartenente alla specie homo sapiens, mentre gli umani abbondano tra gli antagonisti), affrontano pericoli e prove mortali e lottano contro nemici via via più minacciosi e terribili. Per raccontare tutto ciò vi servono, ovviamente, molte, moltissime parole. Se ambientate un romanzo nelle periferie della vostra città (tranquilli, ho fatto anche questo) di parole ve ne bastano molte meno, prima di tutto perché potete risparmiarvi descrizioni e chiarimenti. L'ambiente è noto o facilmente immaginabile praticamente per chiunque e, a meno vogliate inserire elementi di fantastico, potete dare per scontata la cornice e concentrarvi sulla vicenda e sulla psicologia dei personaggi. Piccolo inciso: mai dare troppo per scontata e ovvia la cornice, comunque. Un certo H.P.Lovecraft è riuscito a scrivere più di una storia assolutamente aliena senza allontanarsi da un qualsiasi Farm del Rhode Island. Fine dell'inciso. Se invece scrivete fantasy o sf non potete letteralmente dare nulla per scontato e ovvio. Una delle cose che mi mandano su tutte le furie in romanzo di sf, per dire, è il personaggio che nel 2250 riceve una telefonata, esce abbottonandosi il giubbotto jeans, appena salito in auto infila un CD nel lettore prende per la Route Sixty-six. Trascuratezze non poi così rare come parrebbe e che denunciano scarsa attenzione da parte di autore ed editor.
Un'altra domanda che immagino qualcuno mi farebbe se mi avesse davanti - prima di arrivare al vero tema di questo post: «Perché scrivere un fantasy?»
Sembra una domanda da niente... Ma, anche senza voler entrare troppo nel merito, perché il fantasy si presta particolarmente a essere una letteratura che, attraverso un percorso «fisico» narra un percorso mentale. Crescita, cambiamento, maturità. Il protagonista alla fine della storia si ritrova profondamente diverso da come era. Una perfetta allegoria del nostro passaggio sulla superficie di questo pianeta.
«Si presta» ovviamente non significa che tutti coloro che ne scrivono lo utilizzino a questo scopo.
Anzi.
A me è saltato il ticchio di scrivere un fantasy perché prima a mia moglie e poi anche a mia figlia piaceva sentirsi raccontare una storia avventurosa alla sera della domenica. E così Il Mare Obliquo è nato e si è via via ampliato.
Fin qui tutto normale.
Quasi commovente.
Un filino melenso, magari.
Senonché io sono un bastian contrario e dò molto peso alla forma narrativa. Non nel senso che scelgo i vocaboli meno usati del dizionario allo scopo di ben figurare con i laureati in lettere, ma nel senso che penso che entro certi limiti nelle narrazioni la forma determina la sostanza.
Che cosa significa?
Adesso lo spiego.
Anni e anni fa ho contribuito a creare una scuola di scrittura creativa gratuita e autogestita alla quale parteciparono una dozzina di amici autori con i quali capitava di parlare di narrativa incontrandosi nei locali della libreria. La «scuola» aveva persino un nome: «Il Koro». Dopo un paio d'anni di attività ha chiuso i battenti dopo aver partorito il progetto Fata Morgana, progetto che continua tuttora. Ricevetti, all'epoca, il compito di preparare una «lezione» sui tempi in narrativa, «tempi» intesi nel senso di passato, imperfetto, futuro, trapassato ecc. La preparai scrivendo un breve brano prima al passato remoto, tempo narrativo per eccellenza, poi al presente, all'imperfetto, al condizionale e al futuro anteriore.
Il futuro anteriore, in particolare, rivelò qualità narrative considerevoli per brani brevi.
Fate una prova, se non ci credete.
Fu comunque un'esperienza preziosa perché ebbi l'occasione per comprendere che la scelta di un tempo della narrazione non ha nulla di ovvio né di scontato. Che la forma-tempo determina a cascata una serie di scelte narrative.
Scrivere: Egli abbandonò la casa e corse a rintanarsi nel suo rifugio segreto, suona necessariamente diverso da Egli abbandona la casa e corre a rintanarsi nel suo rifugio segreto. Diverso perché il passato remoto è un tempo tollerante che permette e comprende molti diversi passati al suo interno mentre il presente è crudelmente preciso. Quindi nella traslazione dal passato remoto al presente sarete probabilmente costretti a riscrivere la stessa frase in maniera diversa: Egli abbandona la casa e corre fino a raggiungere il suo rifugio segreto. Dovete «spezzare» il continuum le due azioni perché non sono contemporanee. Ma non si tratta di un gesto innocuo. Involontariamente avete sottolineato il senso di protezione e autodifesa che «il rifugio segreto» crea nel protagonista. Il suo non è più un gesto «remoto» dai contorni vagamente comici («a rintanarsi») ma un gesto rabbioso che - il presente è esigente - prelude probabilmente a qualcosa di drammatico.
Ci siamo.
Il presente è un tempo drammatizzante.
Un tempo che accorcia la distanza tra il protagonista e il lettore.
Non ho mai letto un romanzo fantasy scritto al presente.
Il Mare Obliquo, invece, è un romanzo fantasy scritto al presente.
Controllate pure, basta schiacciare pageUp una volta.
Un «mostro», credo.
L'ho fatto per vedere se era possibile e ragionevole e anche perché scrivere un fantasy tutto al passato remoto mi sembrava ovvio e noioso come una domenica pomeriggio passata a giocare a carte.
È possibile e ragionevole.
Che sia «bello», ossia godibile, divertente ecc. non è un parere che possa dare io, anche perché ciò che ho per le mani è una semplice premessa a un romanzo.
Bello magari no, ma probabilmente un interessante esperimento.
Anche per altre scelte narrative, delle quali parlerò in un'altra occasione.
...
P.S.: per chi avesse sentito un brivido di curiosità nel leggere il breve brano riportato: Basso Okme è un corvo di legno parlante dal corpo a forma di contrabbasso, gli Oscuri sono creature ipogee simili a tartarughe senza guscio e deambulanti sulle due zampe posteriori e Klog è un boldhovin, ovvero il frutto dell'accoppiamento tra una «fata» (le mie fate sono strane, comunque) e un Erbano, ovvero un fauno.

17.6.08

Da dove arrivano i libri? Parte 2

Ho chiuso il post precedente sullo stesso tema con un interrogativo: «Sì. ma come arrivano i libri in libreria?».
Beh, fisicamente attraverso i corrieri generici o editoriali.
Ma ovviamente la domanda vera non è questa. La domanda vera è: «Chi li sceglie, perché li sceglie, perché alcuni titoli sì e altri no e chi si preoccupa di preavvisare il libraio - o il buyer per conto della GDO - della loro uscita?»
Al preavviso, ovvero alla prenotazione, pensano i promotori editoriali (anche detti rappresentanti) per conto delle società di promozione. Le società di promozione possono essere di proprietà dei distributori (Messaggerie Promozione, PDE Promozione) o essere società autonome che fanno riferimento a singoli editori o a gruppi di editori (Pro.Me.Di., VivaLibri ecc.). Dei promotori editoriali ho già parlato in un'altra sede, ma può essere utile ricordare qui il peso che questi personaggi avevano un tempo nel determinare il successo o l'eclissi di un libro. Gli editori - quelli di un tempo - avevano ben chiare le potenzialità dei promotori. In qualche caso questi erano dipendenti diretti della casa editrice e partecipavano alla sua vita sociale e culturale, risultandone così un sensibilissimo anello di collegamento tra le esigenze commerciali e quelle culturali. Il loro lavoro era in molte occasioni determinante per definire le dimensioni delle tirature ed era essenziale per stimolare la curiosità nel libraio.
Attualmente i promotori dipendenti della casa editrice sono diventati rari come i redattori non esternalizzati e il loro parere è spesso sottovalutato o tenuto in non cale. Il motivo è molto semplice: per le mani dei promotori passa ormai quasi esclusivamente la quota di fatturato relativa alla rete delle librerie indipendenti o di quelle in franchising mentre sono escluse le quote prodotte dalle grandi catene librarie (in primis Feltrinelli e FNAC) e dalla GDO.
Insomma, la figura del rappresentante interlocutore del libraio nel discutere del nuovo Calvino e dell'ultimo Moravia è ormai pura oleografia e solo come tale capace di creare rimpianti e nostalgie. Il rappresentante attuale vive oppresso dagli obiettivi da raggiungere e da una quantità grottesca di titoli da presentare. Non ha tempo per antonomasia e per pura sopravvivenza è spesso indotto a trascurare i piccoli punti vendita.
Il rapporto libraio/rappresentante, ormai esclusivamente basato sulle quantità di copie da prenotare e sul duello tra il budget previsto dalla libreria e gli obiettivi previsti per il promotore - semanticamente declassato a «venditore» -, è diventato molto più conflittuale, tanto che l'arrivo di un «venditore» provoca ormai malessere nel libraio. Si parla ormai pochissimo di libri. Piuttosto di fatturati e assorbimento, se non si arriva direttamente alla preghiera («ehm, questo ha una tiratura altissima. Ho bisogno di una mano nel piazzarli») o alla larvata minaccia («puoi ordinarne pochi adesso, certo, ma tieni conto che una ristampa arriverà soltanto un mese dopo la prima uscita»).
Collaterale alla battaglia per la prenotazione delle copie c'è quella per il sovrasconto, ovvero una quota ulteriore di sconto per ordini ragguardevoli, e quella per i tempi di pagamento.
Naturalmente i venditori più generosi sono anche quelli che hanno gli editori con titoli meno immediatamente appetibili.
Siamo nel territorio del rapporto puramente commerciale, qui. Niente old fashion letteraria e niente retoriche artistiche. Solo la scabra, mefitica realtà, al massimo addolcita dall'esistenza di un minimo di rapporto personale tra venditore e libraio. Un rapporto personale spesso curiosamente basato proprio su comuni passioni letterarie. Perché nonostante tutto i venditori sono spesso anche forti lettori e se opportunamente stimolati lasciano intravedere i propri personali giudizi e le proprie convinzioni in materia. Non bisogna approfittarne, naturalmente, né volgere le loro affermazioni contro loro stessi. Al massimo farvi sottilmente riferimento nel motivare una prenotazione più bassa di quanto previsto dalla società di promozione.
Da notare, comunque, che non appena un editore ha centrato il best-seller e l'autore capace di produrne, tutta l'attenzione fino a quel momento prestata al parere dei librai scompare. E insieme a essa scompaiono le condizioni commerciali più vantaggiose. E il libraio che ha sempre avuto un'elevata considerazione del «progetto culturale» dell'editore si trova da un giorno all'altro retrocesso al rango di un paria che non riesce a «smaltire» un numero sufficiente di pezzi.
Vita vissuta, anche se , proprio perché nonostante tutto ho stima e considerazione del «progetto culturale», mi terrò per me il nome dell'editore in oggetto.
Al prossimo post le considerazioni relative ai tempi e ai modi di pagamento, uno degli elementi fondamentali per comprendere il motivo della scarsa permanenza dei libri in libreria. E parlerò delle rese, ovvero il meccanismo che permette - anzi determina - l'inflazione di nuovi titoli.
Parleremo, infine, di quali sono i possibili criteri di scelta dei nuovi titoli. Quasi sempre spannometrici e comunque fallaci.

13.6.08

Il 70% dei torinesi non ha paura!

Una notizia che nessun TGR e nessun quotidiano ha dato.
Anche perché è difficile immaginarne una:
1 - Più inutile
2 - Più cretina
3 - Meno «notizia» in senso proprio.
Ma se affermare che 7 torinesi (o romani o newyorkesi) su 10 non hanno paura [ma di cosa?] non è a tutti gli effetti una notizia, perché può risultarlo scrivere: «Il 30% degli torinesi ha paura!» (titolo a caratteri da scatola di «Torino Cronaca» del 12/6/08)?
Perché è un fatto «in positivo», si può credere. A una negazione: «Tizio non disprezza gli eschimesi» si deve - in senso giornalistico - preferire sempre un'affermazione: «Tizio/a ama gli eschimesi e se ne farebbe volentieri qualcuna/o».
Già.
Ma di che cosa hanno paura 30 torinesi su 100?
Degli UFO?
Della guerra?
Dell'effetto serra?
Di una nuova era glaciale?
Di soffocarsi mangiando un gianduiotto o un raviolo al plìn?
No.
30 torinesi su 100 hanno paura della delinquenza e dell'immigrazione incontrollata.
Stupisce, seriamente, che ben 70 torinesi su 100 non ne abbiano paura.
Chi non ha paura della delinquenza?
Giusto Chuck Norris e Hulk.
E per l'immigrazione incontrollata, anche la prospettiva di trovare un giorno seduti al tavolo della propria cucina un cinese, un indiano, un africano, uno slavo e un sudamericano che stanno banchettando con il contenuto del vostro frigorifero non mette nessuno di buon umore.
Resta il fatto che, comunque la si giri, la «notizia» di Torino Cronaca non ha senso e non aggiunge nulla a ciò che sappiamo e pensiamo tutti. Questo anche senza mettere nel conto i metodi utilizzati per realizzare (perpetrare?) un «sondaggio» probabilmente condotto in modo affrettato e tendenzioso - basta infatti organizzare le domande in modo opportuno per avere le risposte desiderate - o addirittura mai davvero condotto.
«Torino ha paura» diventa così la premessa all'inevitabile «e la polizia non fa nulla», a sua volta prodromo a «ci vorrebbe l'esercito, ci vorrebbe! E la pena di morte».
Nulla di nuovo, si dirà.
Il consueto rimestare nel torbido dei soliti furboni che giocano sullo smarrimento dell'«uomo della strada».
Ma proviamo ad allargare il campo.
«Torino Cronaca» è un foglio quotidiano semi-scandalistico in vendita a 20 eurocent, acquistato - in base alle mie “rilevazioni” presso il mio edicolante di fiducia - prevalentemente da donne in età avanzata e a bassa scolarità. Il tipo di quotidiano che spara come notizia in prima: «Insegnante all'asilo violentava le figlie della convivente omosessuale».
Merda pura - perdonate la metafora, dirà qualcuno.
Ma merda vischiosa e tenace. Che, soprattutto, conferma pienamente i pregiudizi - infrangibili e tetragoni - di persone che hanno difficilmente accesso a fonti di informazione meno corrive. La combinazione sesso-violenza-paura-morte è penetrante come un proiettile all'uranio impoverito ed è assolutamente devastante Questo perché sesso ecc. sono da sempre il cuore della narrativa di ogni tipo e di ogni paese. L'Iliade è anche una storia di sesso, violenza, terrore e morte.
A ben vedere ciò che in definitiva producono quotidiani e notiziari televisivi è (cattiva) narrativa. Più o meno raffinata per palati con diverse esigenze. L'infinito «Dinasty» berlusconiano visto da destra e visto da sinistra, la «Guerra dei mondi» con i feroci immigrati che sbarcano dall'Africa carichi di cattive intenzioni, i «Cento colpi di spazzola» delle minorenni disponibili a tutto o i mille serial di trafficanti di droga vs. la polizia più o meno corrotta.
Viviamo in un metaverso ultramediale fatto di storie mediocri basate su schemi narrativi miseri e ripetitivi. Siamo ostaggi di pessimi cantastorie che solo episodicamente presentano l'episodio a sorpresa («Clandestino muore tentando di salvare il compagno di lavoro») tanto per donare credibilità a tutto il resto.
In realtà abbiamo disperatamente bisogno di buone storie, più critiche, più attente, più articolate. Abbiamo bisogno di nuovi narratori per uscire dal nostro metaverso di rapine e stupri spesso immaginari, asili trasfomati in atelier self-service per pedofili e madri angeliche assassine e abbiamo bisogno di storie originali e sorprendenti per smascherare la povertà di quelle che ci raccontano.
E soprattutto per imparare a diffidare.

12.6.08

I mondi della Corrente

Non so se ho già detto che scrivo fantascienza...
Temo di sì, però. Pazienza, lo ridico.
Ne scrivo all'incirca da una trentina d'anni. Poco meno del tempo dedicato a leggerne.
È stato ed è un rapporto complicato, il nostro. Fatto di passione e desiderio ma anche di litigi, riconciliazioni, momenti di freddezza, incomprensioni, distacchi e noia.
Molti tendono a credere che per un appassionato di qualcosa, qualsiasi cosa faccia parte di quel «qualcosa» sia sempre e comunque bello, entusiasmante e perfetto. Naturalmente non è così. Esattamente come il desiderio e l'attrazione sessuale, la passione letteraria ha i suoi bersagli, le sue fissazioni e i suoi bollori. Si dovrebbe quindi dire più correttamente di essere appassionati di questo o quell'autore o quel tale sottogenere. Ma affermare che si è appassionati di Ucronia o di cyberpunk o di sf di speculazione religiosa o ancora di fantascienza catastrofica e di Space Opera ma soltanto se scritta da Tizio o Caio e via specificando risulta, oltre che inutile, anche piuttosto scemo.
Quindi mi attengo all'affermazione iniziale e mi dichiaro appassionato di sf.
Un genere ormai in via di estinzione, viene da dire. Perlomeno in Italia, dove la pubblicazione di novità nel campo della fantascienza è pratica sostanzialmente scomparsa. A presidiare il campo è rimasta l'immarcescibile «Urania» e Delosbooks - che pubblica in pratica soltanto racconti lunghi, oltre alla revenant rivista «Robot» - e poco più.
Tempo fa, nella primavera del 2003 vinsi un premio nazionale sostenuto da Amnesty International e dedicato a «Fantascienza e diritti umani». Nel 2002 tale premio era stato vinto da una certa Silvia Treves, non del tutto casualmente mia moglie.
Lo vinsi con un racconto lungo che in seguito pubblicai anche sul primo degli ALIA, titolo «Il perdono a dio» (il minuscolo non è un errore di battitura). Il racconto compare anche nelle pagine di Fantascienza.com. Volendo è anche stampabile. C'è soltanto un problema: forse per mia inettitudine informatica non sono mai riuscito ad andare - e temo non ci riescano nemmeno altri eventuali lettori - oltre pagina 18... con un «perch» sospeso nel nulla.
Quindi...
No, calma. Cercherò di andare in ordine.
«Il perdono a dio» non è un racconto isolato. Fa parte, infatti, di un più ampio «ciclo» di storie ambientate nello stesso universo, ovvero legate a una linea temporale cronologica coerente e a un paesaggio politico e sociale ben definito. Il ciclo (attenzione: faccio come gli scrittori di sf) si chiama «Ciclo dei Mondi della Corrente» e comprende, finora, oltre al racconto lungo già citato, un altro racconto lungo inedito («Luna lontana»), quattro racconti brevi (pubblicati in ALIA 2, 3, ALIA Italia 2007 e Fata Morgana 10) e due romanzi inediti. Uno dei due partecipa al premio Urania edizione 2008 - ed è quello più breve.
Per essere uno che nella vita deve lavorare per vivere e che scrive occasionalmente anche altro non è nemmeno poco.
Tutte le storie si svolgono sulla superficie di remoti corpi celesti (che Space Opera sarebbe, altrimenti?) e nessuna di esse sulla superficie del nostro pianeta.
In ordine strettamente cronologico «Il perdono a dio» è il primo (anche se l'ho scritto nel 2002) e il fluviale romanzo che non ho spedito al premio Urania è per il momento l'utimo (anche se l'ho finito di scrivere nel 1991).
A questo punto qualcuno potrebbe aspettarsi perlomeno una descrizione delle storie o dell'intero ciclo. Ipotesi di partenza, idee, intenzioni ecc. Ma presentarsi da soli è come mettersi in smoking per andare a letto, ovvero un'operazione che sta tra il patetico e l'assurdo.
Meglio, molto meglio offrire agli eventuali interessati la possibilità di leggere direttamente almeno alcune delle storie. A cominciare da «Il perdono a dio» che risulta amputato nelle pagine di Delos e non è più recuperabile in forma stampata visto che ALIA 1 è gloriosamente esaurito.
Penso sia una buona storia e sono molto affezionato alla protagonista, Verena, perché è una che si sbatte ma conserva il rispetto per se stessa. Come Liza la semiumana di «Un rifugio a Baba Yaga». O come l'OGM corvide RavenDivu di «Castelli sulla nube». O, infine, come il piccolo e cocciuto H-A di «Cieloverde».
Curioso che, a parte Verena, nessuno dei miei protagonisti sia completamente umano.
Penso significhi qualcosa su me stesso. Ma è meglio che non faccia ipotesi.
...
Per chi ha già scaricato qualcuna delle mie storie il percorso è sempre lo stesso. Andare sul link riportato in basso a dx nella pagina (http://mio.discoremoto.alice.it/altre_visioni) e aprire la cartella «Mondi Corrente». Vi troverà quatto file in .pdf contrassegnati, oltre che dal titolo, da un numero progressivo che indica la loro cronologia all'interno del ciclo.
Chi non ha mai scaricato nulla di mio, deve soltanto cercare sulla colonna a dx il titolo «Quante storie!». Subito sotto troverà il link.
Da dove proviene «Il perdono a dio» l'ho già detto. «Castelli sulla nube» proviene invece da ALIA 2. Chi volesse eventualmente leggere anche il resto dell'antologia si affretti a ordinarla presso il sito di ALIA: ne restano in tutto una dozzina di copie. «Un rifugio a Baba Yaga» arriva invece da ALIA 3, mentre «Cieloverde» è tratto da Fata Morgana 10,«Colori».
Nel caso di enorme successo e di lettori come se piovesse non escludo di pubblicare presto qui anche «Ola e Olb», il racconto pubblicato in ALIA Italia 2007.
Come nelle precedenti occasioni commenti, giudizi e critiche possono essere postati qui o inviati all'indirizzo di posta elettronica massimo.citi@virgilio.it.
A questo punto mi resta soltanto da augurarvi un «Buona lettura!»

10.6.08

Jam-session letteraria

In attesa di vedere in carta e pagine il nuovo ALIA Sol Levante, in questo momento in tipografia e disponibile a partire dal 18/6 (se il diavolo non ci mette la coda), ci stiamo trastullando con le bozze del numero di giugno di LN-LibriNuovi, il 46.
Probabile - anzi sicuro - che mi ripeta, ma la nascita di un numero di LN ha sempre qualcosa di avventurosamente miracoloso. Siccome LN non è una rivista «seria» dove si prefissano rigorosissimamente gli spazi, quando manca una settimana al termine fissato per la consegna degli articoli abbiamo ancora un'idea abbastanza vaga di che cosa pubblicheremo. Nel senso che abbiamo - io e Silvia Treves, i due coordinatori di un'impresa assai scoordinata - una serie di titoli di libri recensiti e qualche proposta di articolo ma non possiamo essere troppo sicuri che poi i materiali saranno effettivamenti quelli e neppure se poi arriveranno davvero. LN è una roulette, da questo punto di vista. Ma una roulette truccata, dove il banco - ossia i coordinatori - incredibilmente vince quasi sempre.
È un modello di pubblicazione curioso, LN, su questo non c'è dubbio. Anzi, a rigore non lo si può nemmeno definire un modello. Si lavora insieme perché ognuno di noi trova interessante e stimolante ciò che scrivono gli altri e perché probabilmente siamo noi per primi - coordinatori e redattori - a divertirci e istruirci leggendo ciò che pubblichiamo. E questa è una molla formidabile a continuare.
Dice: «già, il solito gruppo di amici che se la canta e se la suona».
No. La cosa è un un po' diversa.
Non siamo cresciuti insieme a scuola o all'università.
Non ci siamo passati le stesse ragazze e gli stessi ragazzi.
Non ci possiamo ricordare di memorabili sbornie né di quella volta che Franco si travestì da bidello o di quella che Raffaella fece un mezzo strip sul pianale del pick-up.
La realtà è che ci siamo incontrati perché esiste LN e scrivendo e leggendo comunichiamo. Abbiamo evidentemente qualche idea comune su come funzionano le cose e qualche altra idea su come dovrebbero funzionare ma non siamo un coro né il comitato centrale del PCUS.
Direi piuttosto un gruppo di solisti che organizzano jam-session.
Ogni tre mesi ci ritroviamo, improvvisiamo e produciamo un disco live.
Quindi diciamo che nel disco live in uscita a giugno potrete tra l'altro trovare :
- Un articolo di Mario Prisco sulla Napoli raccontata da Valeria Parrella che potete leggere subito prima o subito dopo la recensione di Mistero napoletano di Ermanno Rea scritta da Piero Fabbri.
- Una recensione di Consolata Lanza a La femmina della specie, di Joyce Carol Oates autrice e recensione che curiosamente «risuonano» con quella di Francesca Ortenzio al libro di Ilaria Bernardini, La fine dell'amore.
- La recensione di Enzo Baranelli a uno dei libri più «duri» della produzione di Percival Everett, La cura dell'acqua. Evidente il riferimento di Everett ad Abu Ghraib e alla guerra in Iraq, quindi merita leggere la recensione di Enzo al seguito o prima de «La Sentinella» di questo numero curata da Silvia Treves e interamente dedicata al libro di William Langewiesche: Regole d'ingaggio.
- Una monografia sul pianeta Marte letterario curata da Davide Mana. Da H. G. Wells, Leigh Brackett, Edgar Rice Burroughs e C.S.Lewis («quello di Narnia», come scrive Davide) fino al ciclo del pianeta rosso (mutilato nell'edizione italiana) di Kim Stanley Robinson.
- La recensione di Enrico Barbero alla Preghiera darwiniana di Michele Luzzatto. Una boccata di ossigeno per chi trova tossica l'aria da sagrestia che ultimamente di respira in questo paese e che è consigliabile accostare alla recensione di In fuga dall'Opus Dei di Hobelix pubblicata nella rubrica storica «Dai confini dell'Impero».
- L'incursione nel mondo dell'editoria inglese compiuta da Davide Mana, che costituisce un prezioso controcanto alla mole di interventi scritti dal sottoscritto sulla situazione dell'editoria italiana.
- Il delirante racconto di Massimo Soumaré dal titolo L'uomo casa editrice, una surreale parodia delle smanie di pubblicazione e autopubblicazione che rovinano la vita di un sacco di gente.
E questa è letteralmente soltanto la punta dell'iceberg...

6.6.08

Il libro che non c'era

Certamente avrete cercato un libro senza trovarlo. Probabilmente l'avrete richiesto al libraio e questi avrà promesso di procurarvelo. Trascorso un mese, non è affatto escluso che non siate riusciti a entrare in possesso del libro e che, in compenso, abbiate anche litigato con il vostro (a questo punto ex-) libraio di fiducia.
Capita piuttosto spesso, purtroppo.
Purtroppo per il lettore, ma anche per il libraio.
Il libro che manca, che non c'è, che non è arrivato, che «non è più in stampa», che «non è possibile non sia uscito ché il mio amico ce l'ha, l'ho visto», che «ho letto la recensione, com'è possibile che non ci sia?».
Ma esistono molti motivi a questa defaillance del sistema e le responsabilità, come vedremo, possono essere molte e ben distribuite.
Una volta questo genere di problemi si risolvevano (si tentavano di risolvere, via) telefonicamente. I magazzini dei distributori editoriali erano in città e spesso al telefono c'era una vecchia conoscenza.
«Ciao. Come va? Sta bene la bambina? E la moglie? Senti una cosa: ma Il viaggio di Paraponzi, di Ugo Ponzipò è uscito?»
«Ciao. Sì grazie, tutti bene. È solo mio figlio, quello che fa il tecnico che non ha voglia di fare un bip e così non so, forse gli cambieremo scuola. No, Il viaggio di Paraponzi non è… aspetta. Davvero? Scusa, mi dicono che è effettivamente uscito ma… Ma dai, ma cosa ne hanno stampate, sei copie? Scusa, dicevo: è uscito ma è esaurito. Tipo la prossima settimana arriverà di nuovo. Aspettiamo un camion.»
Impreciso, certo ma verosimile e verificabile.
Il lettore appassionato delle opere di Ugo Ponzipò se ne va senza il libro ma si è comunque fatto un'idea di che cos'è accaduto e di che cosa accadrà. Se proprio la sua fame ponziponzesca è insaziabile farà un giro per il centro e probabilmente riuscirà a trovare almeno una delle famose sei copie.
Cambio di inquadratura.
Passaggio dal B/N al colore.
New economy, distribuzione razionalizzata, post-editoria.
Stesso locale ma diversi i libri e più vecchi libraio e lettore.
«Avete La vendetta di Paraponzi di Ugo Ponzipò, edizioni L'allegro Grumo?»
«Un momento, verifico».
Si controlla il computer. Niente. «Bisogna ordinarlo!»
Il lettore, tranquillo: «Va bene».
Si cerca on line. Le edizioni L'allegro Grumo indicano nel loro sito web la distribuzione per mezzo di «Fratelli Bengodi distribuzioni editoriali, Rimini».
Si chiede tempo al lettore. Si cerca il s... No, si telefona a Rimini per sapere se per caso i Fratelli Bengodi hanno un magazzino a Torino. Ce l'hanno. Pulvis & Colo, Via degli Affanni 15, Sestimo. Altra telefonata. «No, non siamo noi. Adesso L'allegro Grumo è distribuito dalle Aralderie del Libro».
Le Aralderie del Libro hanno un sito internet lento e poderoso. Si logga, si passworda e si accede. «Servizi per il libraio => Trova e ordina => Inserisci parola chiave / autore / codice EAN»
«Autore=Ugo Ponzipò»
Nessun titolo trovato
Il browser non riconosce i caratteri speciali accentati.
Quando si è cercata l'opera omnia di Dürrenmatt si è tirata notte, per dire.
«Autore=Ugo p»
Trovati 426 titoli.
...azz, no.
«Titolo= La vendetta di Papaponzi»
Nessun titolo trovato
«Titolo= Paraponzi»
Nessun titolo trovato
«Titolo= ponzi»
Trovati 915 titoli
Panico.
Ultimo tentativo: «Autore=Ponzip»
Trovati tre titoli
«Ufo Ponzipo'-Il viaggio di P. / Uggo Ponzipo'-Sconfitta di Papap. / Ugo Ponzipo'-Vendetta di P.»
Bastardi.
E mettere a caricare i titoli qualcuno che non sia uno straniero con un contratto trimestrale?
Non è razzismo o xenofobia. L'editoria è uno dei pochissimi settori nei quali al personale dovrebbe essere davvero richiesta una buona conoscenza della lingua italiana.
Si clicca sul terzo titolo.
Compare l'icona di un libro spaccato da un fulmine.
Legenda: «Titolo momentaneamente scarsamente disponibile, rifornito max 8 gg.»
Scarsamente disponibile?
Che cosa vuol dire «scarsamente disponibile»?
Niente cenetta insieme e successiva parentesi erotica?
E «rifornito max 8 gg.»?
Rifornito da chi?
Dall'editore che lo spedisce al magazzino del distributore? Dal distributore che lo richiede all'editore? E gli 8 gg. indicano la data di arrivo del libro al distributore o il lasso di tempo richiesto dalla data dell'ordine o a quando il libro verrà imballato e spedito o...?
Comunque sia si clicca sul carrellino posto a fianco del titolo e si ordina.
«Attenzione! L'ordine minimo è di 100 euro!» Segue lunga pappardella che avvisa che se non si raggiunge tale traguardo, adesso o in un prossimo futuro, il libro non verrà cercato, trovato, imballato e spedito. Si cerca una dicitura «Lo so, non rompere» da cliccare, ma non c'è.
«Proposta d'ordine». Altro ambiente. Ricompare «La vendetta di Paraponzi» con a fianco l'icona di un matitino e un bloc-notes incrociati. Si clicca da quelle parti per prenotare.
«Il sistema conserverà memoria della prenotazione per 30 giorni!».
«Il cliente riceverà conferma della prenotazione a mezzo e-mail!»
E sull'e-mail: «Il sistema ha ricevuto la prenotazione di... volume non disponibile che è stato PRENOTATO».
Si esce dall'Odissea nel Cyberspazio rassicurati da tanta sollecitudine, ma la faticosa sicurezza si sgretola miseramente non appena ricompare il cliente:
«Sì, ma quando arriva?»
«È stato ordinato, entro 30 giorni potrebbe arrivare...»
«Devo passare tra un mese, allora?» il cliente non è contento. No, non lo è: «ma non potrei andare io dal distributore?»
«Il distributore è nell'hinterland milanese, in un posto che ha un nome come Unghiate o Strabuzzate. Sei ettari di magazzino dove possono entrare soltanto robot o trimestrali pakistani».
«Beh, allora aspetto».
Ma il lettore pensa che stiate barando.
Che gli stiate raccontando un sacco di balle.
Che basti andare in centro, suonare a un campanello ben lucidato (Edizioni L'allegro Grumo - agente territoriale) perché una signorina in minigonna vi porti il capolavoro Ponziponzesco avvolto in carta velina («Sono quindici euro di copertina ma per voi librai sono soltanto 2,50 che mi darà alla morte del babbo. A proposito, che cosa fa stanotte?).
Solo che - oberati di denaro come siete - non avete voglia di farlo.
No, non è così.
Le economie di scala sono entrate anche nel settore commerciale librario.
Niente magazzini locali, niente signorine in minigonna (o giovanotti baffuti ). Magazzini, signorine e giovanotti costano.
E il bravo libraio deve fare in modo di pilotare il cliente: «Perché invece di Ponzipò non si compra una copia de Il cacciatore di aquiloni?»
Sipario.

3.6.08

Proprietari



Nel 1975 è uscito un romanzo di James G. Ballard dal titolo High-rise, tradotto in italiano nel 1976 nella prima edizione in Urania con il titolo Condominium e copertina di Karel Thole. La vicenda in sé è solo relativamente originale, basata com'è su uno dei filoni distopici tipici della letteratura inglese al quale appartiene in primo luogo Il signore delle mosche di William Golding, pubblicato nel 1954. La discesa agli inferi e la completa regressione umana e sociale non avviene però su un'isola ma in un modernissimo condominio, un altro genere di «isola» perfettamente tecnologica destinata a un'élite di imprenditori e professionisti. Abilmente Ballard fa naufragare la situazione proprio a partire da una serie di problemi tecnologici che lasciano graduamente emergere l'aggressività e l'intolleranza dei proprietari immobiliari. L'efficacia del romanzo, recentemente ristampato da Feltrinelli, è notevole e la sensazione lasciata nel lettore è che la barbarie sia, letteralmente, a un passo e che qualsiasi problema condominiale sufficientemente grave e prolungato sia sufficiente a innescarla senza alcuna possibilità di remissione spontanea.
Si sorride, perlomeno all'inizio, constatando che le liti del grandioso Condominium ballardiano non hanno nulla di qualitativamente diverso da quelle tra un qualunque signor Pinti del 4° piano e una qualsiasi signora Guzzoni del 5°. Piccole miserie morali, gelosie, inconfessabili invidie, cristallizzate e rese atrocemente inconciliabili per una bicicletta parcheggiata in cortile o un vaso di fiori trascurato sul pianerottolo.
La casa, la propria casa, esattamente come la propria auto, diventano il confine estremo e definitivo del proprio io.
Ma in Condominium c'è qualcosa di più del semplice e agghiacciante terrore letterario della regressione alla condizione animale, peraltro apparso già nel Wells de La macchina del tempo. Ballard introduce, infatti, il concetto di esclusività di massa.
Che sia possibile, cioé, che una condizione di élite - con i suoi corollari di privilegio, selezione e autosegragazione - possa costituire la condizione umana normale.
La casa rigorosamente di proprietà dove vive (sopravvive? si trincera?) la famiglia modello definitivo - anche se dai contorni secolari. «Fuori» il nemico. Delinquente per semplice contrasto, per differenza (uomo – casa = bandito).
Un modello che si è diffuso a macchia d'olio negli anni della globalizzazione rampante innescando una rincorsa speculativa della quale l'intera economia mondiale pagherà le conseguenze.
Siamo il paese europeo con la più alta percentuale di proprietari immobiliari. La casa di proprietà è un miraggio ma anche una schiavitù definitiva. Mutui di 40 anni e più. La metà di una vita, dall'adolescenza all'età anziana. La casa di proprietà che decide di etica e politica. Siamo proprietari, quindi terrorizzati dalla criminalità e soprattutto dalla violazione del nostro spazio.
Specularmente ciò che non proprietà di qualcuno è nulla, res nullius da disprezzare e danneggiare.
Il giro d'affari creato dalla disperata ansia di diventare proprietari alimenta un sottomondo di immobiliaristi-speculatori e sostiene manovre finanziarie di ogni genere.
Si diventa di destra fatalmente, necessariamente. Intolleranti, razzisti, reattivi e sprezzanti ma schiavi di un mutuo interminabile.
L'esclusività di massa diventa così il nostro purgatorio definitivo, l'impossibilità che condanna le nostre vite e, consumando risorse, sacrifica il pianeta.
Non è più un problema di Berlusconi o no.
Un paese di proprietari-schiavi vive in un presente eternamente congelato tra le pareti del proprio appartamento non ancora finito di pagare, sotto un cielo basso e pesante.
Un paese di proprietari-schiavi non ha speranze per il futuro e non ha, probabilmente, un futuro.