25.12.07

Odiare il Natale?


Nonostante l'immagine non odio il Natale. Anche perché, essendo libraio, mi dà da mangiare e sputare nel piatto eccetera non solo non è di buon gusto ma non è nemmeno intelligente.
La mia amica Francesca diceva che il Natale ha di buono la famiglia e, negli incontri di famiglia, il tentativo che più o meno fanno tutti di comportarsi amabilmente. È abbastanza vero, anche se debbo dire che alcuni dei litigi familiari più epici che ricordo sono avvenuti in occasione delle festività. Già, perché a volte è proprio la lontananza a tenere sotto la cenere certi fuochi.
Natale è una delusione.
Leopardiamente parlando ha di bello ciò che lo procede: l'attesa e la preparazione. Il «viaggio» e non la destinazione. Di per sé il 25 dicembre è un giorno nel quale si finisce per mangiare comunque troppo - per noia o per albagìa - si è obnubilati fin dalle prime ore del pomeriggio e si tira sera con una vaga nausea - fisica ed esistenziale. Il giorno di Natale ha qualcosa di malinconicamente definitivo, è una metafora o, meglio, un'immagine della nostra condizione. È la delusione perfetta, socialmente accettata e tollerata.
E tutta la kermesse ultraconsumista che lo precede? Non sarà responsabile in qualche modo di questa condizione? Come qualsiasi cosa troppo desiderata che si rivela in definitiva una delusione?
Certo, certo. Come no.
Posso essere d'accordo per pigrizia mentale, ma in realtà non sono un francescano di ritorno né un teodem. Penso che un essere umano medio in condizioni standard faccia ciò che è in suo potere per vivere meglio possibile, divertendosi e viziandosi e cercando di garantire le stesse condizioni ai suoi eredi. Il guaio è che il pianeta non può offrire questa ricchezza a tutti, ai sei miliardi e passa di bipedi che lo abitano. L'abbiamo capito da poco e ho timore che i prossimi decenni avranno qualcosa di sinistramente simile all'ultima mezz'ora del film «Titanic» (quello di Negolescu, con Barbara Stanwyck e Robert Wagner, che avendo visto da bambino ricordo molto meglio) ossia un affannarsi a cercare di trovare un posto sulle scialuppe di salvataggio. Ovvero a cercare di salvare il proprio allegro angoletto in un mondo dove le risorse diminuiscono troppo rapidamente.
Nulla di più facile che le strippate natalizie - con rincorse a regali e soldi sprecati - tra un paio di decenni siano soltanto un ricordo disperato, di quelli che si raccontano a bimbi increduli.
Quindi godiamoci in santa pace la nostra malinconia da post-coitum, prendiamo nota da subito che quei tempi sono finiti e mettiamoci una pietra sopra. Se non altro saremo stati dignitosi senza diventare bigotti come certi fondamentalisti.

22.12.07

A che cosa serve un editore? Capitolo 1

Colgo l'occasione offerta da un intervento di Antonella Cilento ripreso dal blog di Massimo Maugeri (letteratitudine) per iniziare una riflessione che, come mio costume, risulterà tutt'altro che sistematica e puntuale. Chi fosse interessato sia paziente, spero che alla fine le mie riflessioni si rivelino di una qualche utilità per qualcuno.
Comincio dall'inizio: chi è Antonella Cilento? Italiana, scrittrice, piuttosto raffinata e non «facile». Ma – attenzione! – il contrario di «facile», almeno nell'italiano di questi anni non è «difficile» e nemmeno «impegnativo». Il vero contrario è «serio», ovvero «personale».
Del suo interessante intervento riporto qui le prime righe, tanto per darne un assaggio:

«Ormai per essere pubblicati bisogna passare un casting. Sei interessante? Sai parlare in pubblico? Sei un attore/attrice? Sei strano/a? Trasgredisci, porti le giarrettiere, sei sexy? Hai la faccia giusta, incuriosisci, puoi andare in tv, hai i denti a posto? Manca poco al Grande Fratello degli scrittori, in questo spaventoso vuoto pneumatico della progettualità editoriale. Da tempo non si leggono i libri ma si guardano le facce degli scrittori, li si chiama, nelle riunioni editoriali o nelle cene fra addetti, per cognome: ce l’ho, ce l’ho, mi manca. Siamo figurine dei calciatori. E poiché non tutti vendiamo le cifre che agli editori fanno comodo, siamo spesso calciatori di serie B. Quello non lo voglio perché c’ha troppa storia (cioè ha segnato poco, un’intera stagione in panchina), quella la tengo come fiore all’occhiello anche se mi va sempre in fuori gioco. Ovviamente nell’editoria (italiana) non ci sono in gioco le cifre del calcio, ma hai voglia a star lì a scrivere davvero, a lavorare tutti i giorni, a non fare la velina della letteratura: hai perso. C’è una schiera di bellocci, furbastri e manovratori che ti passa avanti.»

«Vuoto pneumatico di progettualità editoriale» è la frase chiave del discorso della Cilento, per lo meno ai fini di questo scritto.
Ma adesso cambio blog e autore.
Andiamo dalle parti di Elvezio Sciallis e del suo blog (il cui indirizzo trovate nella colonna a dx di questo post).
Tempo fa (3 dicembre) Elvezio ha postato un intervento «Editori a pagamento», nel quale, tra l'altro, scriveva:

«Piccolo post per comunicarvi che da questo momento in poi non intendo più parlare, scrivere news o recensire prodotti in qualche modo collegati con gli editori a pagamento, print on demand, autoproduzioni e satelliti vari di questa protogalassia.[…] I motivi che mi hanno portato a questa decisione sono molteplici e hanno lavorato a lungo.
Non hanno a che vedere direttamente con la qualità del prodotto, alcuni esordienti pubblicati da editori a pagamento hanno stoffa e idee, manca loro un sarto supervisore e se non si sbrigheranno a capirlo finiranno con il cucire per una vita i saldi al grande magazzino.»

Mi piace giustapporre i due interventi anche se, in apparenza, vanno in direzione opposta. Se per Antonella la professionalità dell'editoria maggiore si è ormai profondamente snaturata, tanto da renderla irriconoscibile, Elvezio, invece, è proprio alla professionalità fa appello quando invoca la necessità di un «sarto supervisore».
Ma esiste, tale sarto?
«Ti trovi a discutere con uno sbarbatello che ne capisce meno di te ma fa lo stesso le pulci al tuo testo senza nemmeno arrivare a capirlo».
Relata refero. Questa frase è stata pronunciata da un mio amico - scrittore di lunga data, vincitore del Premio Calvino e autore di romanzi e testi teatrali - nel corso di una conversazione con la sua agente editoriale.
Il sarto, ovvero l'editor, è evidentemente una figura sempre meno presente e soprattutto sempre meno qualificata nell'ambito dell'editoria maggiore.
Mi viene in mente André Schiffrin che nel suo primo libro, Editoria senza editori denunciò il crescente peso, all'interno delle case editrici, del settore commerciale su quello editoriale.
Una prevalenza che probabilmente può, da sola, spiegare parecchie cose dell'intervento di Antonella Cilento. Ma essendo in circolazione da un bel po' di tempo ho imparato a fidarmi poco delle spiegazioni troppo facili. Resta il fatto che «formare» un buon editor non è cosa di pochi mesi né attività da corso di formazione regionale...
E gli editori hanno interesse a formare figure altamente professionali (e conseguentemente abituate a ragionare di testa propria) come un «editor»?
Ho più di qualche dubbio, anche se le eccezioni non mancano.

Un momento.
Da come sta procedendo il discorso parrebbe proprio che Elvezio abbia tragicamente torto, pur avendo, a mio parere, in gran parte ragione.
Sul ragionamento di Elvezio mi riprometto di ritornare al Capitolo 2, provando anche ad ampliarlo un po'. Per il momento mi fermo qui, al problema della crisi qualitativa (evidente per chiunque abbia occhi)della letteratura italiana.

14.12.07

Confitto interiore (sparare a Umberto Eco?)

– Ma me lo dici tu a che cosa serve un blog se poi stai delle intere settimane senza scrivere neppure una parola?
– Ma tu lo sai che lavoro faccio? Ma tu lo sai che avevo la contabilità+lafatturazione+ lacorrezione& impaginazione di LN 44 e di FM11+deicoccidarimettereinsieme+ unromanzodaspedire a un concorso che tanto ne farà coriandoli+... no, basta non mi viene in mente altro.
- Niente di nuovo, insomma. La contabilità la fai per deprimerti, tanto lo sai già che la libreria è in perdita. La fatturazione... che tanto poi ti pagano a babbo morto. LN 44 e FM 11: i cataloghi delle buone intenzioni. Quando mai hai ottenuto uno straccio di segnalazione, di presentazione... quando mai vi hanno considerato - un quotidiano, un settimanale, la radio, una televisione locale - anche solo per dire: «cretini!». I cocci... vabbé. In quanto al tuo ultimo romanzo, lo sai che cosa ne penso: è fantascienza. Scritta in italiano. Una cosa da ridere. E comunque non va bene, lo sai meglio di me. Troppe immagini e poca azione. E sì che te l'hanno anche scritto. Non va bene. Ti preoccupi dei personaggi, dei luoghi, dei dialoghi e non hai ritmo...
- Ma un po' di ritmo nella scrittura, almeno quello, c'è.
- Un par di ciufoli, come dice il nostro amico Gordiano Lupi. Sai chissenefotte del ritmo, cioé dello stile della scrittura, in un romanzo di fantascienza? Ma da dove arrivi? Frasi brevi, pochi pensieri, zzzzoot! Uiiiinzzzz! Kerbluummm! «Stiamo perdendo l'allineamento subparallattico, comandante». «Uhm, attivate il campo di macrocollisione».
– Non vuol dire un cazzo.
- E allora? La fantascienza in forma scritta è diventata la parente povera, praticamente pezzente, di quella cinematografica. Immagina un montaggio cinematografico skizzato, quando scrivi, non fare la Emily Bronte (ci vanno i due puntini sulla e, lo so, ma non li trovo) della fantascienza. L'unico risultato sicuro è che gli uomini non ti leggono e le donne nemmeno perché non leggono fantascienza.
L'unica cosa decente che hai per le mani - parlo del nuovo blog di ALIA - su quello non hai ancora scritto nemmeno la risposta alla risposta a un post.
- Meditavo su cosa scriverci, per la verità.
- Te l'ho appena detto. Ti metti lì con i piedi sul tavolo e dichiari: «La letteratura fantastica deve imparare dal cinema. Se non si sa mutuare il linguaggio cinematografico in letteratura il fantastico è morto».
- Ma non è vero, cribbio. La letteratura ha un suo linguaggio. Tempi, forme, possibilità che il cinema...
- Sei patetico. La letteratura come linguaggio è morta, defunta da un bel pezzo e sta a puzzare sul tavolo di CSI Miami in attesa che qualcuno la apra come un merluzzo e dichiari: «morta di inedia, stenti e di una mezza dozzina di malattie». Lo sai no come legge ormai la gente? Non lo vedi? Non te ne stai dietro il banco di una libreria?
- Qualcuno che SA leggere è rimasto.
- Sempre meno. Lo sai benissimo. E poche curiosità, nessuna voglia di mettersi in gioco. Pappine precucinate, al massimo sperimentazioni a bassa voltaggio. Ironiche citazioni e giochi eruditi. Mi piacerebbe sparare a Umberto Eco, per dire.
- E che ha fatto, poveretto?
- Poveretto? Ci prende per i fondelli fin dai tempi del Nome della rosa, ecco che cosa fa. Ci presenta uno Sherlock Holmes vestito da frate e sulla trama di un gialletto innesta un po' di divulgazione filosofica, qualche battuta sapida e sapiente, elementi di storia e di politica per consegnarci il post-romanzo definitivo. Quello dove non esiste nulla di originale ma è tutto, integralmente, già letto e già digerito. Ma in fondo faceva parte del Gruppo '63. Aveva avvisato che il romanzo era morto già allora. Solo che invece di essere coerente ne ha scritto uno. Per celebrarne la morte. E via, tutti a comprarlo perché è furbo e ti fa sentire furbo, è colto e ti fa sentire colto, è astuto e ti fa sentire astuto. Per quattro soldi è un gran risultato.
- Te la prendi tu la responsabilità di questa intemerata?
- Ce la prendiamo noi.
- Ma... io mi sono divertito a leggere il Nome della rosa. Certo, la letteratura è un'altra cosa. Ma è un romanzo da compagnia. Non qualcosa che ti cambia la vita, ma comunque un piacevole incontro.
- Anche i successivi?
- Ehm... no, i successivi no. L'ultimo poi, la Regina Loana o qualcosa del genere,è stucchevole come una caramella già succhiata.
- Bisogna sparare a Eco, te lo dico io. E a tutti i post-qualcosa.
- Sono un non violento, io.
- Io no. Tutti al muro. All'alba, quando fa ancora freddo e quasi sei contento di non dover più battere i denti.
- Cribbio. Ma sei contorto, eh?
- Soltanto stufo. Vorrei leggere dei libri nuovi, non avanzi ricuciti e ricucinati.
- Hai ragione. Beh, qualcosa l'abbiamo scritto, non trovi.
- Già. Mi chiedo a chi interesserà.
- Me lo chiedo anch'io. Ma non è poi molto importante.

20.11.07

Magagne



Il mio amico Piotr, che potete vedere (sfocato) nella foto allegata, mi ha mandato un lunghissimo intervento zeppo di critiche perfide & avvelenate sull'organizzazione, la conduzione, la gestione e i temi della presentazione a «In controtempo».
Siccome sono un tipo democratico ho accettato di pubblicare il suo intervento, specificando, però, che - per espressa richiesta di Piotr - nulla di quanto dice deve essere preso sul serio.
Anzi, che proprio l'intero intervento - nonostante dica in modo spiritoso cose intelligenti - non dovrà essere preso sul serio.
Strano tipo, Piotr.
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C’era qualcosa di sbagliato, e qualcuno dovrà pur dirlo, no?
O magari vi aspettate che solo perché quasi tutto era carino, bello e giusto, si possa tacere delle magagne? Ah, già… troppo facile, così. Troppo semplice, allora.
Le magagne, bisogna che qualcuno le tiri fuori.

Ad esempio, la libreria. Certo, è bella e la conosco; e di notte, poi, ha un fascino speciale, con le vetrine accese. Respira insieme a Torino, a quel pezzo di Torino: forse, per sentirlo davvero, bisogna conoscere un po’ quella zona (ma senza conoscerla del tutto, però). C’è Fisica, a giusto un isolato di distanza. E anche Chimica, certo, è la zona delle facoltà scientifiche; almeno finche non le sposteranno tutte, fuori città, in un avanzato tecnologico asettico comprensorio deprimente. E c’è il Galileo Ferraris, tic-tac ufficiale d’Italia, davvero poco distante; e il Valentino, giusto là dietro. Ci sono anche prostitute che impressionano il figlio quattordicenne, ma sono prostitute in fondo rassicuranti, quasi consolatorie. Provo a spiegare a Paolo che, per quanto possa sembrare impossibile, sono quasi certo che quella più piccola, con stivali lucidi e rossi, probabilmente era già qua quando ho varcato per la prima volta la soglia del sacro edificio della Facoltà di Fisica. Cioè trenta anni giusti fa. Il figlio sembra non credermi, e forse fa bene.

Torino scura e calda, nonostante la temperatura siberiana e novembrina. Vetrina di libreria accesa, come faro regolamentatore della notte, e vedi che funziona tutto? Vedi che i due pellegrini trovano riparo, proprio come Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk, all’inizio del Nome della Rosa? Vedi che non c’è nulla ce non vada?
Balle, c’è sempre qualcosa che non va. Le magagne ci sono, esistono. Infatti, la porta è chiusa.

Chiusa! Per un misero quarto d’ora di ritardo! E noi qui fuori, dispersi nella tormenta metropolitana, facili prede di peripatetiche e di pericolosissimi studenti? Tra foglie secche e carte sporche che volano, dopo un’ora intera di macchina, cinquanta chilometri, dalle rive della Baltea fin qui sul Po, e la porta è chiusa? Ah, disperazione, abominio e devastazione! Vedi, vedi, vedi le magagne?
- Bussiamo, papà? –
Il figlio mi stupisce, mostra un’incredibile spirito d’iniziativa, decisamente poco genetico, e in effetti l’opzione m’era sfuggita. Prima che io possa assentire o vietare, già bussa, lui, quattordicenne spudorato e senza ritegno. Ma cavolo, magari rompiamo le scatole! Ma cavolo, avranno già iniziato! A ben vedere, io non m’ero manco peritato d’annunciare la mia presenza (figuriamoci quella del figlio), perché un conto è passare con nonchalance davanti ad una libreria che uno si aspetta popolata dietro la vetrina, un altro conto è bussare e chiedere asilo. M’ero ripetuto più volte l’approccio, nella mia mente startegica: noi si passa davanti, dentro si vede un mucchio di gente, Massimo o Silvia mi riconoscono, indi aprono-sorridono-invitano ad entrare. Io mi schermisco-sorrido-nego intenzione (“Passavamo di qui per caso, facevamo quattro passi, proprio qui, guarda te la combinazione…”). Sì, a cinquanta chilometri da casa. Sì, a meno cinque celsius, con tosse e otite reiterata. Vabbè, tanto avrebbero comunque fatto finta di crederci, e noi avremmo fatto finta di accettare (“Ma solo un attimino, neh?”). Che detto da uno con accento centroitalico, è pura devastazione vandalica dell’etica vernacolare.

Ma niente di tutto quest’immaginario prende corpo, cazzarola; perché la porta è chiusa, perché il figlio bussa, sfacciato. Ah! Come farò, adesso? Adesso che – eccolo - Marco risale le scale, e sorride, perfino. Adesso che – ehi, c’è anche lei - Morgana appare e sorride anche lei, e ci fanno posto, scendiamo le scale, ci portano giù, giù. Giù, nel profondo ventre della libreria. Nelle viscere della carta stampata, nell’intestino della conoscenza.
Che trabocca, infatti. Tracima, ribolle, riversa: insomma è strapiena, e mica solo di libri. Di umanità, soprattutto. Stretti, puntuali e ordinati, su piccole sedie e sguardi attenti, mentre i miei novanta chili ottundono la scala a chiocciola. Cavolo, vedi? C’è sempre una magagna, in agguato. Avevano iniziato, ma fingono di no. Trovano sedie, chissà come fanno, ci sono più sedie che spazio per sedie, e questa è cosa curiosa, che avrebbe incuriosito più d’un filosofo naturale del Seicento. Vedo Massimo e vedo Silvia, e sento un sacco d’occhi addosso, e sono quasi certo di conoscere i nomi, anche, oltre agli occhi che solo ora si rivelano, ma prova ad accoppiare nomi e occhi, adesso, se ci riesci. Magagne, magagne, è tutta una magagna. Perché non hanno tutti un bel cartellino col nome, come nei congressi seri? Perfino le società segrete, ce li hanno. Scommetto che perfino la Giovine Italia di Mazzini doveva averli, i bigliettini coi nomi. Guarda Provenzano, ad esempio, lui ce li aveva eccome, i pizzini. Qui, invece, come faccio, io? Sicuro come l’arcobaleno, qui dentro ci sarà il Davide Mana. Certo come l’effetto Doppler, qui dentro ci sarà perfino il Soumarè, vuoi che non ci sia? Magagne, magagne, e magagnette.

Atterro sulla sedia, colpevole. Gente ordinata e puntuale, dietro di me, si vede la visuale oscurata da un corpulento cinquantenne in giaccone chiaro. Giaccone che tolgo a fatica solo a presentazione iniziata; fossi in loro, sarei incavolato di brutto, a vedere il ritardatario occupare il posto migliore. Vabbè, che volete farci, anche a voi toccano un po’ di magagne, o volete che me le becchi tutte io? Ad esempio, perdincibacco, dove è finita Francesca? Me la narrano attrice e fine dicitrice, e qui invece la vedo trasparente e muta, insomma assente. Non è trucco, truffa, magagna, questa? Il libercolo ce l’ha in mano Silvia, vuoi vedere che hanno magagnato anche lei, e che toccherà a lei fare le veci? Povera Silvia, l’hanno fregata di brutto. Si vede, non ha mica l’aria contenta. Però.
Però.
– Però Silvia è proprio brava a leggere, vero papà?
Saranno le prime parole di mio figlio, quando saremo usciti. E cavolo sì, che è brava. Quindi, forse, non è stata magagnata, lei. Forse era tutto un complotto preordinato, visto che ha letto così, limpida e sicura, quasi avesse studiato recitazione col metodo Stanislawski, cercando di immedesimarsi con una fonte d’acqua sorgiva. Ma io intanto sto ancora qui, prima che la presentazione inizi, cerco di farmi piccolo ma non ci riesco, mi chino sull’incolpevole figlio che sopporta, e per fortuna che nel frattempo capisco chi sia Cettina, visto che si parla d’una fotografa. Giusto qua, ad una sedia da me, e sorride bene, la signora Calabrò. E fa anche ridere, quando dice; “Insomma, smettetela di chiedere, diamine. Io faccio la fotografa per non dover parlare”. Rido, mi rilasso perfino un po’. Forse, quelli seduti dietro sono dispiaciuti della cosa, perché quando io mi rilasso divento più voluminoso. Massimo è già seduto, Silvia è già pronta, manca solo il Defililippi. Dove sta, il prefatore? Ah, eccolo! Diamine, seduto ordinato tra il pubblico anche lui, s’alza e si erge. Uffa, si vede proprio che è uno scrittore lui. Ha le physique du role, pure la faccia du role, perfino i capelli e gli occhiali du role. E’ simpatico, si vede subito. Tutti lo conosco e lo applaudono, è verosimile che sia simpatico a tutti, tranne agli invidiosi. Io, per esempio, non lo sopporto.
La sedia alla mia sinistra è ancora vuota: Morgana si muove a compassione e la occupa. E così, con alla destra il mio figlio unigenito e alla sinistra una fanciulla che prende il nome da una fata e che lo ha trasmesso ad undici antologie, sono pronto alla battaglia. Perché battaglia certo ci sarà, si capisce benissimo. E’ una sera piena di magagne.

Il Defilippi comincia a presentare così come ha prefazionato. Gioca sul sicuro, il fellone.
– E’ un libro che mi sarebbe piaciuto scrivere…
Dice, tra l’altro. E qui si palesa la fellonìa. Qui si fa sentire tutto il peso e la forza del potente. O del prepotente. Ah! Facile, eh? Semplice, nevvero? Se lui dice quella frase, un novello autore va in brodo di giuggiole. Se io dicessi la stessa frase, l’autore mi guarderebbe come si guarda un ramarro con in bocca una farfalla. Facile, eh? Ah! Anche a me sarebbe piaciuto scrivere quel libro! Solo che se lo dico io non gliene frega niente a nessuno. Invece, se lo dice Alessandro Defilippi…
Ah, è chiaro. Sarà una lunga e difficile serata. Scorrerà del sangue, e ci saranno magagne a non finire.
Poi parte in quarta, parla di letture e riletture, e l’importanza delle riletture. Vabbè. Articola, conciona sulla natura del fantastico. Vabbè. Ne dice di cose, e tutto sommato, non dice solo robaccia. Ad esempio, quella storia del crinale, di qua il fantastico, di là il reale, come Massimo che fa una fatica boia nei racconti a restare sulla sommità, a camminare sullo spartiacque, uh, che fatica deve essere. E il Defilippi se ne è accorto. Vabbè. E poi fa parlare Massimo, che sorride e tentenna. Incredibile, saremo in tutto venti o trenta persone, gli vogliamo tutti bene, eppure si vede che si emoziona. Che roba, come farà uno a sopravvivere alla ambasce e alle cattiverie del XXI secolo, se si emoziona per queste cose?
Per fortuna sorride, più con gli occhi che con le labbra, e a me fa impressione seguire la strana iperbole disegnata dalla sua barba, dal suo sorriso, dal suo occhio destro e dall’Alonso-Finn, sacro testo di Fisica, giusto dietro di lui. Non so che significato abbia questa presenza (quella dell’Alonso-Finn, intendo), ma di sicuro ne ha uno. Eppure perfino Massimo riesce a tirar fuori una magagna, ci credereste?
Si sente in imbarazzo, dice; anche se di presentazioni ne ha fatte tante. Perché, dice, ha visto spesso tavoli con libri da presentare, con prefatori e presentatori come il Defilippi, e con autori che concionano. Ma è che di solito, di fianco agli autori, ci sono i librai.
… e io sono un libraio…
Dice imbarazzato e divertito. E diverte, infatti. Chi manca, in quel tavolo? Il libraio, o l’autore? Sommerso da un conflitto (irrisolto ma irrisorio) d’interessi, rinuncia, e poi risponde alle incalzanti domande del Defilippi.
Ma la magagna c’è ed è grossa come una casa. Libraio, Massimo? Solo libraio? Ah! Facile per te, scegliere il tuo ruolo, e deciderlo, facile! Ma io, da questa parte del tavolo, vedo parlare l’autore d’un libro, il libraio che l’ha venduto, e l’editore. Che è l’editore del suo libro, ma – perdincibacco baccone – anche del mio! E figurati, allora, scrittore-libraio-editore, con che reverenza ti si guarda dall’alto della mia sedia piccola. Che poi, fosse finita lì! Perché poi recensisci, o recensore, e talvolta lo faccio pur’io, e quindi sei co-recensore, per non parlare del fatto che pubblichi la rivista di recensioni, co-edito-recensore. Libraio, dice lui. Libraio e basta… tzè. Ma io ho Morgana vicino, e me lo ricordo, che fai anche i concorsi, caro il mio concorsitore. E li giudici, mio caro giudicatore. Poi li stampi, nevvero, stampatore?
E allora, ecco che finiscono i sostantivi, e mi servirebbe il Devoto-Oli per continuare. E per fortuna che qua sotto, magari il Devoto-Oli c’è davvero. Non necessariamente vicino all’Alonso Finn., però.
Ma si entra nel vivo. Perché il ventennio, chiede perfido il Defilippi. Per le narrazioni delle mie vecchie donne, risponde Massimo, e Alex sorride come vipera in agguato. E un fotografo dall’aria saggia ricorda quali siano i percorsi leciti del narrare, che non sempre sono tutti aperti e tutti disponibili. E lo scrittore psicoanalista annuisce e psicanalizza. Tende trappole, lancia sguardi seduttori alle signore, aspetta altri commenti.
Mi alzo, finalmente devastato e irritato, lo sovrasto e lo distruggo:
- Perché il ventennio è marchiato, e marchia ancora. Perché, con somma vergogna dell’italica gente, è l’unico fottuto periodo originale italiano del ventesimo secolo. Marchio d’infamia, certo, ma inevitabile. Un narratore può far balenare un microdettaglio, e il lettore sa, capisce, vede. Solo la nappa nera d’un fez, e il lettore capisce. Un rombo accennato di folla a piazza Venezia, e immediatamente la trama è collocata. Potesse fotografarlo il dettaglio minimo possibile, a Cettina basterebbe un ottavo di negativo, un angolo distratto, meglio se in bianco e nero, per portarci subito dove la storia deve portarci. In tutto il resto del secolo, dannazione, abbiamo altre passioni, altre storie, altre vite. Tutte più giuste e belle, o quasi, ma inevitabilmente di seconda mano. Per questo il ventennio, per questo, purtroppo: altro che stronzate come l’apologia di fascismo. I tempi interessanti, come dicono i cinesi, sono quelli più antipatici da vivere. Per questo le narrazioni che le donne facevano a Massimo sono tutte lì. Inchiodate in quei tempi fottutamente interessanti.

Questo gli urlo, forte e cattivo, in faccia.
Anzi no, col cavolo che lo faccio. Ho una fifa blu anche solo a respirare, figuriamoci se intervengo per dire una roba del genere. E poi, perché dovrei prendermela col Defilippi, che è simpatico a tutti? A me no, perché sono invidioso, ma qui non lo sa nessuno, lui meno degli altri. Non posso mica fare subito uno scrittoricidio. Ci sono troppi testimoni.
Ma poi Silvia torna a leggere leggera, e altre domande ritornano. Ancora il crinale, e le similitudini con Poe, con James, e perfino sulla giusta lunghezza, l’ideale, per le storie del fantastico. Il romanzo breve, dice il Defilippi. Ha maledettamente ragione, che noia, ce l’ha spesso, come faccio a litigarci, se dice un sacco di cose che vorrei aver detto io? Ma poi i tempi, ecco, forse qui è solo troppo poco, troppo tirato via. Anche se parliamo di “In Controtempo”, non è solo il tempo, ad essere protagonista. Massimo è d’accordo, ma lui è solo l’autore, che volete che ne sappia, l’autore? Parla di tempo percepito e di tempo reale, e della difficoltà di narrazione, e della voluta dilatazione dei tempi. Tutto vero, sacrosanto, evidente. Ma non è tutto qui.
Mio figlio, che temevo si sarebbe addormentato, è attentissimo.
Alessandro gioisce quando arriva la lettura del brano preso da “Linea di Confine”, che è il suo preferito. E’ qui che non capisco, è qui che devo metterlo alle corde.
Perché lui per primo ha parlato di stile, e Massimo sembrava contento, perfino. Non si accorgeva che gli stava scippando qualcosa. Lo stile è difficile da definire, ma è una proprietà intessuta nelle dita dell’autore. Paradossalmente, anche l’assenza di stile è uno stile, e quindi la parola non basta. E proprio quando si parla di crinale, di stile e di tempo che vorrei urlare a tutti che è Vetro di Seta che rende perfettamente l’equilibrio impossibile, mentre invece Alex devia sempre l’attenzione su Linea di Confine. E no, non è così, che si deve fare!
Perché Linea di Confine è racconto puramente attanagliante. Come una tagliola crudele, ti cattura e non molla. Peggio, è una tagliola lenta: la vedi scattare lentamente, vedi il piede nella traiettoria delle ganasce, e non hai la possibilità di sfuggire. Quindi, un capolavoro, certo, chi lo nega. E’ un bolero ineluttabilmente in crescendo, parte con una casa vuota, come è vuota la musica che inizia col solo tamburo nel didascalico pezzo di Ravel, ma che si sente crescere e che si capisce subito che finirà con tutta l’orchestra urlante in crescendo. Come la casa, che si riempie dei noi-fantasmi della televisione sempre accesa, e che si svuota dalla vita reale. La tagliola; la vedi chiudersi, ma non riesci a ritirare la gamba.
E va bene. C’è qualcosa di male, a preferire Linea di Confine? Certo che no! E’ un capolavoro, un esercizio di stile, anche. Perché il “crescendo” è, tutto sommato, un meccanismo stilistico classico, e proprio per questo è difficile da interpretare. Non a caso il Citi – che in questo caso si merita l’articolo, come i grandi – saggiamente evita di esasperare troppo il finale, di non dettagliare i denti della tagliola che finalmente mordono la carne, lacerandola. Si sa. Si sente.

Ma il crinale, qui, è definito! E’ stupendamente definito, tra fuori e dentro la casa. Anzi, tra “dentro la casa con la TV accesa” e il resto del mondo. E il ritmo è un crescendo. E il tempo è un tempo condiviso, tra il fuori e il dentro. Quindi, non è Linea di Confine il racconto più rappresentativo, proprio secondo il paradigma critico del Defilippi!

Il perfetto rappresentante del respiro onnipresente in tutta l’antologia è Vetro di Seta. Perché non è solo questione di stile, ma anche, forse soprattutto – di tecnica. Uno scrittore vero e affermato (come il Defilippi), forse non se ne accorge più. Uno scrittore malriuscito, uno che fa sempre fatica ad alternare dialoghi e segni d’interpunzione, descrizioni e congiuntivi, personaggi e consecutio temporum (come il sottoscritto), sa invece sempre benissimo quanto sia difficile permeare le pagine con le atmosfere. E Vetro di Seta è un capolavoro di tecnica, in questo. Perché le atmosfere sono sempre sospese, sia da un parte che dall’altra del crinale citico, o defilippico, se si preferisce rendere eponimo il critico invece dell’autore. La storia rimane perfettamente in equilibrio, perché non v’è mai decisione verso uno o l’altro versante: non si deve precipitare con crescendo verso il fantastico o il reale. Tutto sta nel titolo, e nell’oggetto del titolo: il vetro di seta, il pezzo di vetro lavorato dal mare, opaco se asciutto e trasparente fino all’invisibilità se bagnato. Consapevole o meno che fosse, Massimo per tutta la durata del racconto mette l’obiettivo della trama su un pezzo di vetro di seta, e lo avvicina all’acqua. La sua storia, nella parte del “reale”, è quando il vetro è asciutto, opaco, tangibile. E così c’è la caccia ai suoni, la tecnica, la villa, i nostri giorni. Quando il vetro si bagna diventa trasparente, e vediamo cosa c’è sotto l’acqua: tre quarti di secolo prima, paesaggi, persone, climi diversi e diverse passioni.
Facile da rendere? No, difficilissimo. Quasi impossibile. Ma il vetro di seta non resta fermo, continua ad oscillare dentro e fuori dell’acqua per tutto il racconto, negando la separazione netta, cosa che invece, almeno in termini spaziali, Linea di Confine fa. Il lettore non sa mai bene quando il pezzo di vetro levigato si immergerà un po’, nella storia, diventando trasparente e facendo balenare il passato. Accade, e poi cessa di accadere. La narrazione si muove sul crinale con la perfezione di un esploratore dei ghiacciai, al punto che il colpo di scena finale è un colpo di scena mai nascosto, ma sempre presente. Il passato era già nel nastro, ma non era riconoscibile, identico al presente. Il vetro di seta aveva divorato persino l’ultima tensione superficiale del liquido, e restava asciutto e bagnato al tempo stesso.
E glielo ho detto, al Defilippi. Ho atteso la fine dell’incontro, l’ho fatto alzare, ho scelto il momento in cui, non più protetto dal tavolo (cattedratico tavolo) era tornato ad essere solo un uomo, e non uno scrittore affermato e bravo. E gliel’ho detto in faccia, con tutta la forza retorica e dialettica che mi era andata salendo in corpo.
Il che significa che gli ho mormorato: “A me piace di più Vetro di Seta”.
Al che lui ha controbattuto: “Non sono d’accordo”.
Ma io dico! Si può rispondere così, a cotanta verve dialettica?
Ho allora preso cappotto e figlio, e sono scappato verso il canavese. Ma mi ripromettevo, andando a lunghe falcate verso la macchina, di leggere bene e meglio ogni singolo parola stampata dal perfido Defilippi. Conosci il nemico, se vuoi batterlo. E lui me l’avrebbe pagata cara.

17.11.07

In Controtempo: ultimi fuochi



Nella foto, scattata da Davide Mana che ringrazio pubblicamente, Alessandro Defilippi, autore di una raccolta di racconti pubblicata da Sellerio e tre romanzi pubblicati da Passigli, uno migliore dell'altro. Leggeteli e ne riparleremo. Ieri sera, nella libreria CS di Torino Alex ha presentato il mio In Controtempo, alla presenza di una trentina di amici. Non si è trattato di un incontro a fini commerciali: praticamente tutti i presenti avevano letto l'antologia e hanno partecipato per amicizia, simpatia e curiosità. E questo è stato il primo lato sorprendente della cosa. Che avessero, cioé, voglia di sentirne parlare ancora. Alex in apertura ha detto di averlo riletto per la presentazione, aggiungendo di averlo apprezzato di più alla seconda lettura. Qui sono semplice cronista, sia chiaro, non me la sto cantando e suonando da solo.
È una frase chiave, questa, comunque.
La lettura è una cosa, la rilettura un'altra. E nella rilettura le magagne saltano fuori... ah, se saltano fuori. Quindi debbo pensare per forza che In Controtempo stia abbastanza bene in piedi. Incasso e gioisco.
La presentazione di Alex è stata grande.
Mi ha fatto domande maledettamente complesse alle quali penso di avere risposto da par mio: facendo una gigantesca e patetica confusione.
Davide nel suo blog mi ha definito "schivo", scrivendo che ho parlato brevemente.
Lo ringrazio, ma io ho avuto la sensazione di aver parlato troppo a lungo dicendo un sacco di cose che c'entravano poco o nulla. In più la mia adorabile figlia adolescente mi ha detto: «Papà tu scrivi bene ma a parlare non ci sei tagliato».
Il problema è l'ingorgo.
Tu hai scritto una cosa.
Mentre la scrivevi un 20% del cervello controllava la struttura - periodi, frasi, parole, punteggiatura ecc. - mentre il restante 80% scavava negli angoli più bui tirando fuori materiali scelti a caso e sottoponendoli all'io più o meno cosciente. L'io ne prendeva qualcuno e gli altri li buttava. Seguendo logiche del tutto sue.
Provare a ricostruire il momento, il motivo di quelle scelte è un'impresa disperata. Ci si può fare belli dicendo che si ha sempre, costantemente la situazione sotto controllo. Ma non è vero. Nemmeno per scrivere l'ultima scemenza possibile, stesa per tirare su un po' di soldi.
Sembrerà paradossale, ma a scrivere onestamente si rischia il fiasco molto di più che a procedere con l'attenzione miope dell'autore alla ricerca di un pubblico, possibilmente pagante.
Questo post, comunque, l'ho scritto per scusarmi con tutti i presenti della mia confusione mentale. Per ringraziarli di essere venuti a sentirci. Per ringraziare Cettica delle foto e dell'intervento, per ringraziare Alex di qualche momento magico che ha distillato ed estratto nella (mia) confusione e per ringraziare mia moglie, Silvia, dell'ottima lettura ad alta voce.
Non potevo saperlo prima, ma gli effetti collaterali della pubblicazione - le presentazioni, i commenti, le recensioni, i post nei blog - si sono rivelati più gratificanti del gusto narciso di vedere un libro con il proprio nome sopra.
Un enorme GRAZIE a tutti. Di cuore.

Kronstadt 2


Tempo fa (ma soltanto tre o quattro post fa, come dire che scrivo troppo poco) parlai di un libro appena uscito sulla vicenda di Kronstadt. Una storia poco nota, almeno per coloro che non hanno un passato remoto nella ultradefunta sinistra extraparlamentare. Ma non quella cazzona e appassionata di L.C., no, in quella ingessata-e-leninista di A.O.
Più o meno come parlare della classica Spal-Pro Vercelli del campionato di calcio del1922, vero?
All'incirca lo stesso appeal...
Il libro l'ho letto in un paio di settimane con un senso di scoraggiamento crescente. La preoccupazione principale dell'autore, in più di un'occasione, mi è parsa quella di polemizzare con il gruppo di storici autori de «Il libro nero del Comunismo» rimproverando loro imprecisioni, grossolani errori, tortuose esagerazioni e tendenziose rimozioni. E va bene. Che il famoso «Libro Nero» abbia tra i suoi massimi estimatori Silvio Berlusconi è la prova di un valore scientifico elastico come il girovita di Tiramolla. Ma se ho letto Kronstadt 1921 è per cercare di risolvere un mio problema personale, non per sostenere chi polemizza con Stephane Coutois & friends.
Oltre a questo il libro è steso con stile criptoburocratico, probabilmente per avvalorare il suo valore scientifico e mostrare che non trattasi di libro poco serio. Penultimo difetto: l'affollamento di nomi è tale che in certi momenti si ha la sciagurata sensazione di leggere la guida telefonica di San Pietroburgo. Ultimo difetto, una quantità prodigiosa di errori ortografici, imprecisioni e refusi che se si possono tollerare in una brossura da 4,99 euro edita da Newton Compton sono viceversa imperdonabili in un libro da 23 euro pubblicato dall'Unione Tipografica Editrice Torinese.
Dulcis in fundo la foto di copertina, tratta dalla Hulton-Deutsch Collection, riproduce un gruppo di militari inglesi della guerra Anglo-Boera.
Ma chi diavolo l'ha scelta?!?
La tesi di Jean-Jacques Marie, comunque, è che Kronstadt sia stato uno dei tanti moti confusi e anarcoidi che scuotevano la Russia di quegli anni, nati dalla carestia e dall'instabilità della situazione politica. Krostadt non sarebbe stato il primo vagito della Terza Rivoluzione, in sostanza, quella che avrebbe potuto affermare il vero volto del socialismo, ma soltanto la pietosa illusione di Victor Serge e di qualche altro intellettuale non russo. E io sono un intellettuale, con quanto di significato negativo ha ormai assunto la parola (anche se non francese, un punto per me) e sono praticamente certo di non essere russo.
Ecco un'altra illusione perduta.
Che cosa rimane? Rimane il fascino - che il libro non sa trasmettere nemmeno per un istante - di giorni dove tutto era forse ancora possibile. L'ebbrezza della partecipazione e l'ansia di essere presenti, discutere, informarsi, sollevarsi.
La terribile bellezza di una rivoluzione che resta un punto essenziale della storia umana.
Questa rimane.
Nonostante Marie e Coutois.
Alla faccia di tutti gli omiciattoli che cercano di farne un regolamento di conti tra nobili decaduti e giovani vampiri.

20.10.07

Il ritorno dei Borboni


Avevo votato per Prodi (che detesto da sempre per la sua falsa bonomia e i modi da boiardo di stato) e il suo carro dei Tespi con poche illusioni ma senza negarmi una speranza.
Non soltanto scacciare Berlusconi e la sua corte di yesmen, mafiosi, fascisti e clericofascisti ma anche e soprattutto metterlo nelle condizioni di non poter più alterare la democrazia attraverso il possesso di tre reti televisive e di tutto l'indotto pubblicitario da esse creato.
A distanza di una quantità ragionevole di tempo debbo ammettere di avere capito male.
Evidentemente dell'equilibrio della democrazia a Prodi etc. non frega nulla. Sul tema dell'anomalia Berlusconi è stato partorito soltanto un timido e insufficiente disegno di legge che morirà presto, in compagnia di una maggioranza che va dai centri sociali fino ai procacciatori di voti di Mastella e ai cattolicissimi della Margherita. Una maggioranza che era una semplice somma di voti ma che aveva alcuni scopi fondamentali - a mio modo di vedere. Garantire le regole della democrazia, avviare il risanamento dei conti dello stato e dare impulso all'economia.
Senonché Prodi e compagnia hanno fatto padella.
E di brutto.
Si vantano di aver risanato i conti, ma né la Banca d'Italia né l'UE sono d'accordo. Per motivi magari inconfessabili, ma resta il fatto che i conti sono stati risanati mungendo i soliti noti e senza riuscire a toccare davvero e definitivamente le evasioni fiscale e contributiva che sono strutturali nel sistema produttivo italiano. Hanno depresso i consumi e hanno fatto un gran can-can sulla tutela dei consumatori ma senza minimamente postulare alcun progetto di orientamento dei consumi che non fosse il sostegno alla Holding Coop. Sempre sia lodato il ministro Bersani.
Poi - in disordine - hanno ritirato i soldati dall'Iraq ma non dall'Afghanistan, dove restano senza un preciso mandato a rischio loro e di tutti i poveri cristi che stanno da quelle parti. Ridiscutere con gli alleati il senso della missione? Mappercarità. D'Alema ha troppo da fare con il suo feudo in Puglia. La base militare di Vicenza, la TAV. E norme fiscali che restano cervellotiche e farraginose, tanto da obbligare chiunque a valersi comunque di un commercialista non tanto per evadere le tasse ma giusto per evitare grane. Ma già, noi si rompono i marroni ai benzinai ma non ai commercialisti. Una legge sulla fecondazione artificiale degna del Sultanato dei mamelucchi (o della ASL di Salem) ma che nessuno si sogna di toccare per non far piangere la Madonna e non far imbufalire il Vaticano.
Che altro?
I lavavetri divenuti il principale problema sociale creato dall'immigrazione, il degrado della RAI, la farsa indegna della votazione sulla legge sul Welfare, le cordate e cordatine delle primarie PD con accuse di brogli e un vincitore annunciato come mesi di anticipo...
Una legge del piffero sui libri, persino peggiorativa della già non eccelsa legge approvata dal governo Amato e massacrata dal governo Berlusconi.
E adesso questa.
L'obbligo di registrazione di qualsiasi sito o blog su internet (quindi anche il blog pieno di cuoricini e bestioline di mia figlia quindicenne, per dire) nel Registro Operatori della Comunicazione (con annessi e connessi problemi burocratici e fiscali) e la possibilità di essere perseguiti per quanto scritto sul proprio blog e/o sito, con l'ovvia possibilità che qualsiasi cretino potrà scrivere sul vostro blog: «L'On. Imbuto Crepapanza è un mafioso, un ladro, un figlio di zoccola e tiene pure le corna» e ad andare nelle grane sarete VOI.

«Ma lo fanno per evitare il precariato tra i giornalisti».
Certo, come no.
Ed è il Sole a girare intorno alla Terra.
Infatti TUTTI i giornali su carta stampata stipendiano regolarmente chi scrive per loro.
E a Natale a portare i regali è Babbo Natale.

Bene. Con quest'ultimo tentativo di affossare il media più democratico che esista (e che lor Signori NON conoscono, non sanno usare e temono) hanno davvero colmato la misura. Cosa c'è dietro? Beh, chiunque può fare le sue ipotesi.
L'ansia di sgonfiare le gomme a Grillo (che non mi piaceva granché come comico e mi piace ancor meno come politico, ma questa è un'opinione personale) e di eliminare quel po' di giornalismo indipendente che esiste in Italia. La semplice abissale ignoranza e la conseguente paura. Il desiderio di regolarizzare, regolamentare e magari tirarne fuori qualche soldino, utile a pagare gli interessi sul delirante debito pubblico creato negli anni '80 da DC,PSI e PCI e a sostenere tutta la giungla di tirapiedi, sottopancia e cacicchi delle amministrazioni locali (pensate a Bassolino e alla sua gestione dell'emergenza rifiuti o ai DS e Margheriti implicati nel traffico di posti di lavoro e tangenti in Calabria...).
«Sì ma altrimenti cebberlusconi!»
Che è come dire un governo insieme corrotto, autoritario, incapace e criminale.
Vero, sacrosanto. Ma è possibile continuare a ingoiare m... giusto per evitare il ritorno del Cavaliere? È legittimo? Senza contare che questi qua sono talmente imbecilli che riusciranno a farlo tornare anche senza che i delusi si facciano sentire.
L'unica è suonare loro la sveglia. Una sveglia molto forte, tipo quella suonata sabato 20 dalla cosiddetta sinistra radicale. O magari, firmando la petizione contro la legge sui siti web.

In ogni caso credo sarà bene attrezzarsi per una lunga attraversata del deserto. All'opposizione.
Una buona occasione per sbarazzarsi di tutto l'ingombrante e invadente personale politico che non ha avuto il buon gusto di scomparire dopo cinque anni di bagnomaria con il quinquennio Berlusconi.
In ogni caso si sta come stava un poveretto sotto i Borboni, costretto ad augurarsi che fossero... i Savoia a salvarlo.

Per leggere il testo originale della proposta di legge e firmare la petizione visitate il sito www.librinuovi.info, nelle pagine dedicate alle «news».

19.10.07

L'innocenza e la scrittura


Quest'uomo è Vittorio Catani, membro di spicco del manipolo di incoscienti che da anni si sforzano di mantenere viva la fiammella della fantascienza italiana.
Tutte le volte che mi capita di sentirlo o di leggerlo (abita a Bari e io a Torino e gli incontri vis-a-vis sono complicati) ho la sensazione di aver cambiato lunghezza d'onda, anzi di trovarmi in uno dei «suoi» mondi, un mondo luminoso, quieto e rarefatto dove le parole riacquistano la loro vera funzione: la comunicazione.
Mia madre, che come molte madri possiede, perlomeno per alcuni temi, il dono della sintesi, lo definirebbe «un signore». E io mi associo, riunendo nell'appellativo «signore» l'eleganza della modestia, della sincerità, dell'onestà mentale e dell'umiltà. Oltre al dono - automatico per un autore di fantastico - dell'innocenza.
L'innocenza per Chesterton, geniale scrittore cattolico, è una dote essenziale. Permette lo stupore, ovvero la possibilità di vedere il mondo consueto con altri occhi e scoprirlo differente e inaspettato. Migliore o peggiore, certo, ma soprattutto inatteso. Senza l'innocenza - che non è il contrario dell'intelligenza ma della meschina astuzia così comune in questa mediocrissima Italia - non esiste la speranza o la possibilità di comprendere davvero il mondo nel quale si vive. Al massimo di balbettare cose già dette e ridette, ovvietà, panzane e castronerie, da recitare però con la giusta enfasi. E non faccio nomi, almeno adesso.
Vittorio, dicevamo.
Sono stato uno dei pochi a poter leggere il suo nuovo romanzo inedito. Il Quinto Principio. Un libro generoso, ricco, felicemente eccessivo e nato da un'ispirazione troppo ampia ed estesa per la rachitica editoria fantastica italiana. Un romanzo «difettoso» ma per eccesso, giusto perché padroneggiare idee e visioni è sì un lavoro da scrittore di SF ma richiede tempo, pazienza certosina, una sconfinata documentazione e soprattutto quella sorta di sorniona attenzione vigile - o, se si preferisce quel divino strabismo - che permette a chi scrive di tenere d'occhio insieme il quadro generale della vicenda, lo sfondo, gli infidi elementi del discorso, la punteggiatura, il respiro e la musicalità delle frasi, la giustezza del lessico e solo Dio sa cos'altro. Per compiere questo piccolo miracolo abituale è necessaria innanzitutto la quiete, la solitudine e la possibilità di isolare la mente da piccoli e grandi problemi della vita quotidiana. Il miglior isolante a questo scopo è il denaro. Molto denaro.
Ma scrivere fantascienza in Italia è tutto fuorché un'attività redditizia. E più un testo è ambizioso più è fondamentale avere la giusta dose di quiete.
Se siete svegli avete già capito dove sto andando a parare.
Vittorio, come molti altri autori di fantascienza e fantastico, ha dovuto fare ( e deve fare) della scrittura una seconda attività, una passione da confinare nei pochi momenti di quiete che la vita offre. Difficile riuscire a essere compiutamente «professionali», con queste premesse. Ma Vittorio e pochi altri ci sono riusciti. Letteralmente volando su un biplano di legno e stoffa sono riusciti a percorrere ampi tratti fianco a fianco ai grandi professionisti della scrittura in lingua inglese. Un risultato - viste le premesse - eroico.
Provate a procurarvi e a leggere, per essere meno vaghi, «L'essenza del futuro» , Perseo Libri. È una raccolta della narrativa breve di Vittorio e ne presenta egregiamente temi, visioni, idee e fissazioni. Già, perché uno scrittore senza fissazioni non è uno scrittore.
Stamattina Vittorio mi ha segnalato una sua recensione al mio «In controtempo» pubblicata sul sito www.fantascienza.com. La segnalo perché per me è importante. Conosco la sua onestà intellettuale e so benissimo quanto vale una sua recensione positiva.
Qualche tempo fa Davide Mana si chiedeva pubblicamente perché gli autori italiani collaborino relativamente poco rispetto ai loro colleghi stranieri. Probabilmente questo è uno dei modi di collaborare. Utilizzare i mezzi che si posseggono per presentare il lavoro di un altro. Per commentarlo, apprezzarlo pubblicamente. Non il «do ut des» tipico della grande editoria dei periodici ma un lavoro di segnalazione e comunicazione lento ma non ingrato.
E, in fondo, a decidere sono soltanto i lettori.
Fortunatamente.

12.10.07

Uno sguardo unico

Questa è una fotografia scattata ai «Portici del libro». Il cugino It che appare dietro il bancone dei libri è mia moglie, Silvia. La mia complice nel mettere al mondo la creatura pestifera che appare alla fine di qst post. Fine della parentesi familiare.
Quando qualcuno tira fuori le foto della famiglia è possibile abbia cattive intenzioni. È vero, in un certo senso.
Riferisco qui di un paio di cose che mi sono capitate, rimarchevoli, almeno per me.
La prima: ho portato a termine la presentazione della quale ho sproloquiato nel post precedente.
È andata bene, anche se le copie vendute sono state in tutto due (2). I presenti, un manipolo di eroi dei quali ben cinque o sei non li conoscevo personalmente.
Mi hanno fatto notare che l'orario della mia presentazione era il più vigliacco possibile, ma non importa. In fondo sono uno scrittore periferico e sconosciuto, quindi è normale che mi abbiano cacciato in fondo alla lista.
Eugenio Pintore è stato un presentatore magico. Mi ha fatto chiacchierare ma senza eccessivi sbrodolamenti e mi ha fatto anche un paio di domande sulle quali temo di essere andato a farfalle. «Il tema del tempo nei tuoi racconti…»
Gesù, non ci avevo mai pensato. Mi venivano così.
Prova un po' a spiegare i movimenti che fai per andare in bicicletta o suonare uno strumento musicale. Prova un po'. Ricostruiscili mentalmente. Descrivili.
Ho remato parecchio ma qualcuno ha poi commentato che ho detto cose molto intelligenti. Qualcun altro che non era poi così chiaro ciò che volevo dire.
È possibile siano vere entrambe le cose.
Comunque provare a spiegare perché fai così, scrivi così e che cosa volevi dire è praticamente impossibile. Sei costretto a ravanare parole sempre con la sensazione che scrivere non ammette chiacchiere né spiegazioni. E questo lo sapevo già da me.
Ringrazio comunque di cuore il buon Eugenio che mi auguro di avere ancora come interlocutore. Io mi sono divertito, spero che anche per lui sia stata almeno un'esperienza decente...
La seconda cosa rimarchevole riguarda un amico, compagno di avventure letterarie, stimato traduttore, abile divulgatore scientifico e scrittore di talento.
Parlo di Davide Mana, membro di spicco della magica equipe di ALIA.
Sul suo blog (senza nemmeno avvisarmi) ha scritto:
******
Ora, com’è il libro di Citi?
Beh, ragazzi, scucite i quattordici euro e leggetevelo.
E’ molto tascabile, piacevole al tatto, facilmente ottenibile on-line.
E’ meglio di un Urania, e non rischia di sfaldarsi per l’umidità.E’ meglio dei due terzi della narrativa che si pubblica nel nostro paese - ad esser conservativi nella stima.
E cosa sono, ormai, quattordici euro?
Se però volete sapere com’è leggere il libro di Citi…. ah, allora il discorso è diverso.
Cercate di ricordare, se ci riuscite, la prima volta che avete letto Ballard.O Jack Vance.O H.P. Lovecraft.O Haruki Murakami.
Badate bene, con questo non voglio dire che la scrittura di Citi assomigli in alcun modo - per forma o temi - a quella di Ballard, Vance o Lovecraft, o Murakami.
Massimo Citi è un autore maturo, con unproprio stile.
Come la Coca Cola è The Real Thing.
Ma la sensazione che si prova nel leggere queste storie è la stessa che si prova nel leggere l’opera di uno di quei colossi.L’impressione, fortissima, di trovarsi davanti a qualcosa di radicalmente nuovo e diverso da ciò che si è letto finora.
Qualcosa che diverrà un termine di paragone, un punto di riferimento.
E cosa si può desiderare di più dalla lettura, se non incontrare una prospettiva diversa.
******
Bene. Davide ha fatto un centro pieno.
La cosa alla quale tengo di più è provare a fare qualcosa di originale. A essere, in un certo modo, unico. Ma non unico in senso stirneriano o per l'illusione di sentirmi un genio. Semplicemente perché unico è il mio sguardo (come quello di tutti) e unico è il mio modo di elaborare le esperienze. Nulla di più di questo, nulla di più di un tranquillo navigare nella vita di ogni giorno elaborandomi le mie personali cavolate e provando, in separata sede, a farne una storia, un luogo dove non sono mai stato, un'emozione che non ho provato così in quel momento.
Chi scrive ha l'obbligo morale di essere originale. Per fedeltà a se stesso. Tradire se stessi è il vero tradimento.

22.9.07

Immancabile...


... Continuo a fare cose ovvie, viste le circostanze.
Cose tipo fare una presentazione pubblica dell'antologia.
Con un gentile lettore, Eugenio Pintore, presidente del comitato esecutivo regionale dell'AIB (Associazione Italiana Biblioteche) che parlerà di «In controtempo» e mi farà qualche domanda.
Mi è capitato spesso - visto il mio lavoro - di fare domande agli autori e ancora più spesso di ascoltare altri farne. Qualche volta mi è capitato di pensare: «vabbé, ma non sei mica Dante Alighieri o Luigi Pirandello». Altre volte, più o meno lo stesso numero, di pensare: «Cavolo... è preparato, brillante, spiritoso e non dice nemmeno delle cose così ovvie».
Il mio terrore non è tanto di non farcela a essere rubricato nella seconda delle due categorie quanto di essere infilato da chi ascolta nella prima.
Ma, d'altro canto, anch'io ho qualche idea sul perché e il percome dello scrivere. E sono legalmente responsabile di ciò che ho scritto.
Quindi… vado. È la prima volta che mi siedo dall'altra parte, ovvero che non inizio io con un bel discorsetto sul motivo per il quale presento questo libro.
Devo ricordarmelo, anche per evitare di parlare per primo.
Calmo.
Sereno.
Con pipa, magari.
Anche se non ho mai fumato la pipa.
Barba.
Beh, quella ce l'ho. Alla Coelho, oltretutto.
Il calzino lungo in bella evidenza.
Lo sguardo pensoso ma rilassato, l'occhio acuto, l'espressione vigile ma bonaria...
Bonaria, non bovina.

Sarei ben contento di stipendiare qualcuno perché andasse ad esibirsi al posto mio, ma non posso.
Comunque sia, chi volesse sapere come, alla fine, me la sono cavata può materializzarsi sabato 29 settembre, ore 21.00 in Galleria San Federico, Torino.
La presentazione si terrà in occasione dei Portici di Carta. Una buona occasione - per chi sta a Torino e dintorni - per vedere anche i libri che i librai tengono nascosti dietro i sagomoni e le pile di best-seller.

31.8.07

Rassegna stampa


Questo, a sinistra, è un pavone.
Chi sta scrivendo, invece, non lo è ma rischia di apparirlo.
D'altro canto mi hanno detto in tanti: «non nasconderti, sii sfacciato, sii protervo, esibisciti, spettacolarizzati». Tra questi anche l'editore (vedi un paio di post precedenti) ovviamente preoccupato per la tiratura e la fattura del tipografo, già scaduta, peraltro.
Oggi è passato in libreria il mio amico Alessandro Defilippi. Coraggiosamente si è detto pronto a leggere altre cose mie e, nel caso, a scriverne una presentazione.
Lusinghiero, no? Sì, molto lusinghiero.
Ma veniamo al senso di questo post.
Non sono un pavone, dicevo, forse illudendomi.
Ma mi è venuto in mente che con 2 o 3 passaggi alla settimana su questo blog il rischio di raccogliere fischi e pernacchie è comunque limitato. D'altro canto mi fa piacere riportare qui i pareri su «In controtempo» di altri autori e recensori, anche per dimostrare che mi sono accorto dei loro messaggi e gliene sono immensamente grato.

Cominciamo da Malpertuis, ovvero Elvezio Sciallis, con una parte della sua recensione apparsa sul suo blog: http://mal-pertuis.blogspot.com/

Fantasmi di fantasmi.Dovessi riassumere in una sola frase l’opera di Citi non avrei esitazioni.
Figure femminili tratteggiate con molta più cura e attenzione rispetto a quelle maschili, oggetti quotidiani che perturbano senza i soliti chiassi tipici di larga parte dei romanzi horror, il lento logorio della quotidianità che agisce come personalissima chiave per Kadath e declinazioni d’incubo varie.
Chiave che, al contrario di quanto accade in altri scrittori, una volta inserita innesta un meccanismo che non permette di tornare indietro a un passato o stato di veglia salvifici: i personaggi di Citi si destano lentamente e si trovano spiaggiati in isole in lenta decomposizione, senza avere una zattera pronta per fuggire né, tanto meno, la voglia o la forza di costruirsene una.
Citi ha alcuni punti di forza rari negli scrittori di genere fantastico in Italia, segnatamente la cura delle psicologie e, ancora più inconsueta, una grande attenzione nella costruzione dei dialoghi che suonano credibili e raramente artefatti, una boccata d’ossigeno in un campo dominato da pagine e pagine di descrizioni barocche e monolitiche.
Ne riporto soltanto una parte, visto che la recensione è piuttosto lunga. Specifico anche Elvezio non ha trovato soltanto pregi, ma anche qualche difetto. Per sapere quali sono basta andare sul suo blog.

Veniamo a Gordiano Lupi, con una recensione apparsa sui siti:
www.tellusfolio.it, www.kulturalvirtualpress.com e www.ilpungolo.com della quale riporto un frammento:

...Massimo Citi prova a unire i due aspetti della narrativa fantastica e senza indugiare sugli aspetti spettacolari delle vicende, senza farsi prendere la mano da atmosfere splatter o gore, realizza racconti che seminano inquietudine e angoscia ispirandosi alle costruzioni del vecchio racconto gotico. Le storie di Citi sono fatte di suggestioni, l’orrore e il mistero vengono soltanto suggeriti […] 
 
Ho ricevuto anche lettere private di alcuni amici ai quali ho fatto leggere l'antologia.
Anche qui riporto soltanto qualche frase:

Da Patrizia Zappa Mulas (su «Linea di confine», uno dei racconti dell'antologia):

L'ho appena letto, ha tutto quello che fa di un racconto un ottimo lavoro. Ci si entra senza avere più la possibilità di uscirne (come quell'appartamento, che è una magnifica metafora). Si è costretti ad arrivare fino in fondo. Questa è buona letteratura.

Da Vittorio Catani (sul racconto «Vetro di seta»)

Ho apprezzato moltissimo il rimando a un passato che, in fondo, e' in ciascuno di noi: quello... alternativo, o sognato, o forse davvero vissuto. Un passato con i suoi incubi, trasalimenti, ma anche con le sue estasi, perché il tempo trascorso, in se', credo racchiuda fra altre cose anche una visione del paradiso. Confesso che questo richiamo talora ossessivo, sempre misterioso, a un tempo "altro" forse felice (forse no), nelle ultimissime due o tre pagine mi ha un po' commosso per la sua intensità. Un passato del genere può' stroncare ma può anche purificare una vita; e infatti "purissimo" come nessun altro amore, angelico, mi e' parso quello - seppure lesbico - fra la protagonista e Olga. Ho terminato di leggere queste pagine con la sensazione di essere stato messo a parte di segreti che spiegano, che riempiono l'anima, ma anche inquietano. Siamo nel vero cuore del fantastico.

Da Consolata Lanza:

Il tema sotteso in quasi tutti i racconti è la fuga dalla (della) vita, che cola via da una crepa della realtà. I tuoi personaggi scelgono sempre la solitudine in compagnia di una percezione diversa, più sottile, di qualcosa che non so come definire - non è la vita come la si intende banalmente, non è morte -, sembrerebbe un occhio, un orecchio, interiore, quello che le persone "normali" chiamano pazzia? ossessione? Insomma qualcosa di estremamente affascinante, un livello più alto del quotidiano. Mica semplice il tuo immaginario, eppure tenta come ogni esplorazione di mondi sconosciuti. Penso che puoi essere assai fiero e soddisfatto del tuo libro. Ha una originalità senza cedimenti, scrittura personale, suscita inquietudini, fa venire voglia di rileggerlo.
 
Mi fermo qui.
Per quanto riguarda questi ultimi tre pareri sottolineo che si tratta di scrittori, certo, ma anche di amici, persone che mi sono care e con le quali condivido non soltanto molti gusti e interessi ma anche qualche progetto comune. Posso immaginare che da parte loro ci sia stato, nella lettura, un surplus di attenzione ma so, conoscendoli, che hanno troppo a cuore la nostra passione comune - la scrittura - per prostituirla dandomi un parere addomesticato.

I pareri ricevuti mi hanno convinto che pubblicare «In controtempo» non è stata una follia o un delirio egolatrico. Alla mia età, d'altra parte, non si cercano altre possibili sbocchi professionali né è così facile abbandonarsi al narcisismo.
Si scrive per essere letti, d'altra parte. Per comunicare qualcosa di più di quanto si riesce a fare a voce, con una lettera o anche con questo o altri blog.
Inventare e descrivere altri mondi e altre vite è l'unica caratteristica che condividiamo con una possibile divinità. Perché lasciarsi sfuggire l'occasione?

22.8.07

Rivoluzioni mancate e illusioni da verificare

Kronstadt, 1921.
«L'Armata Rossa attacca Kronstadt» è la didascalia di questa fotografia, ripescata nel sito di Wikipedia.
Qualcosa di strano?
Non troppo, in apparenza.
Non troppo se a difendere Kronstadt fossero stati i «bianchi», ovvero i partigiani dello Czar.
Ma Kronstadt - base navale della flotta russa del Baltico - è stato il luogo della più importante rivolta antisovietica condotta da 270.000 marinai e soldati del tutto convinti di essere altrettanto sovietici quanto i soldati inviati a eliminarli.
Di Kronstadt sentii parlare per la prima volta ai tempi della mia ormai remota militanza politica.
All'epoca non diedi troppo peso a Kronstadt e ai suoi marinai così evidentemente antiparalleli a quelli della celeberrima corazzata Potëmkin. Vennero poi altre notizia, seppure ammantate di leggenda. Da comunista libertario mi parve la testimonianza di un comunismo "originario", bello e, naturalmente, sfortunato. Un po' la stessa sensazione che mi diedero gli spartachisti di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht (pron: «libknekt»), altrettanto belli, libertari e destinati a fare una brutta fine.
Quando la mia passione per la nobiltà della sconfitta si univa alla fede politica ne nascevano di questi miraggi, basati sulla speranza giovanile di poter riconoscere in altri la mia convinzione - innocente, non ingenua - che si potesse davvero cambiare il mondo.
I marinai di Kronstadt pagarono carissima la loro rivoluzione nella rivoluzione. E non parliamo degli spartachisti. Né gli uni né gli altri furono soggettivamente innocenti. Ma la loro leggenda dà un colore diverso al secolo appena trascorso. Lascia aperte porte, permette di immaginare che le cose avrebbero anche, forse, potuto prendere strade diverse.
O forse - o più probabilmente - gli uni e gli altri sono stati pericolosi fanatici, tipo Guardie Rosse maoiste. Un libro ormai esaurito di Pierre Broué (Rivoluzione in Germania) dava degli spartachisti un ritratto pieno di chiaroscuri. La biografia di Werner Heisemberg li presenta come sanguinari fanatici. Vista la fonte , ho qualche dubbio. Infine, per i marinai di Kronstadt posso suggerire (anche a me stesso) di leggere un libro uscito quest'anno per la UTET. Il libro (Jean-Jacques Marie -Kronstadt 1921)

è basato su documenti recentemente riesumati dagli archivi sovietici e promette di essere parecchio interessante.
Se ne scriverò la recensione la potrete trovare nelle pagine di LN-LibriNuovi.
Se non la scriverò... beh, se siete interessati sappiate che il libro costa 23 euro. Che non è poco, d'accordo. Ma, se siete davvero interessati, non è nemmeno troppo.

2.8.07

Zeppelin

Questo qui a fianco è un Zeppelin, ovvero un LZ (Luftschiff Zeppelin). La foto è una di quelle di repertorio dello Zeppelin Museum di Friedrichshafen. Sono appena ritornato da un viaggio di una settimana nel Baden-Württemberg e in Baviera, tra Freiburg e Ulma, con una visita - forse dovrei dire un pellegrinaggio - al museo dei dirigibili sul lago di Costanza, quello dov'è ambientato il Frankenstein di Mary Shelley, detto per inciso.
La ricostruzione dell'ambiente interno dell'Hinderburg, l'ultimo dei grandi dinosauri dell'aria, era curato (impressionante) e affascinante e il museo era pieno di persone di tutte le età e tutte le possibili lingue e nazionalità. Accomunati da una passione per qualcosa che praticamente per tutti noi era una favola finita male, con l'incidente di Lakehurst, i 35 morti e la fine del dirigibile. Una favola finita in piena era hitleriana con il povero LZ divenuto un elemento della propaganda nazista.
Eppure il fascino delle navi dell'aria rimane, evidentemente, intatto.
Perché sono morti i dirigibili?
Perché erano pericolosi? Certo, gonfiati a idrogeno erano pericolosissimi. Ma gonfiati a elio no.
Ma non credo si tratti solo di questo.
I dirigibili, dal punto di vista militare, erano un incubo. Grandi, relativamente lenti, delicatissimi. Nonostante qualche utilizzo nella prima guerra mondiale, erano essenzialmente macchine volanti di pace. Gentili elefanti adatti al trasporto di cose e persone.
I dirigibili, grossi e fragili, vennero soppiantati dagli aerei grazie allo sviluppo della tecnologia aereonautica conseguente alla guerra. Da qui la loro fine.
Il mondo nel quale viviamo, in sostanza, non è il risultato della migliore tecnologia possibile, ma quello nel quale hanno prevalso le tecnologie dei vincitori. E le tecnologie non si affermano soltanto grazie alla loro intrinseca bontà ma in base alla situazione generale. All'ambiente o all'ecosistema, direbbe un biologo evoluzionista.
Sono importanti, i dirigibili, perché ci dicono qualcosa di fondamentale sul nostro mondo e sul modo nel quale procede l'innovazione tecnologica. Niente marcia trionfale del progresso ma tentativi, errori, fallimenti, amnesie e resipiscenze.
















30.6.07

Antologicamente

Questa non è la copertina di un libro.
Soltanto una fotografia presa dal balcone di casa mia in una sera di vento e lo zeppelin d'ombra che passa nel cielo una nuvola scolpita e levigata dal vento.
Avrebbe dovuto essere la fotografia in copertina per l'antologia che ho pubblicato, ma siccome una mia buona amica (Cettina Calabrò, fotografa e scrittrice) mi ha procurato nove, anzi dieci, eccellenti fotografie ho messo da parte l'idea di utilizzare la mia nuvola per la copertina.
Ci sto girando intorno, lo so, ma poco o tanto mi imbarazza parlare dell'antologia.
Si intitola In controtempo. Costa 14 euro ed è formata da 8 racconti per 172 pagine, una prefazione, nove fotografie, ringraziamenti, exergo, indice, finito di stampare e ISBN di tredici cifre. Tutto regolare, insomma.
Questa è la copertina:

Il libro è piuttosto piccolo, 12 x 19 cm e fa parte di una collana che abbiamo chiamato, io e Cettina, N & D. La N sta per Nobile, la D per Disperata. Nobile e Disperata come l0 può essere l'idea di pubblicare narrativa essendo editori piccolissimi.
Già, perché io sono, oltre che l'autore, anche l'editore di questo capolavoro.
Un particolare che mi ha evitato sfiancanti discussioni ma mi ha creato anche una sottile e inquietante sensazione di sdoppiamento di personalità.
La tiratura (bassa) l'ha decisa l'editore, mentre il numero di copie omaggio da inviare ad altri autori e a possibili recensori l'ha proposto l'autore, anche se l'editore ha tagliato il numero un paio di volte. «Ma perché mandi il libro anche a questo qui? Tanto figurati se ti si fila. Toglilo, toglilo. Costa già farla, bisogna venderla, non regalarla».
Sospetto che dietro la scelta dell'immagine di copertina ci sia ancora una volta l'editore: «Cerchiamo di fare una cosa coerente, non un pasticcio». E io a dargli ragione.
L'editore vorrebbe anche fare delle presentazioni e l'editore ha ragione. Bisogna pur venderla, questa antologia. Ma io non mi sento troppo bene nei panni dell'autore al quale si porgono garbatamente domande che lo obbligano a parlare di se stesso. Non perché non sia narcisista, per carità. Lo sono nella media, credo, o forse un po' di più. Il problema è che è che ho paura che il mio Narciso personale mi prenda la mano annoiando a morte amici e parenti che verranno obbligati dall'editore a essere presenti. E che tutti se ne vadano pensando: «ecco, una pubblica una cosuccia e diventa subito un trombone».
Zodiacalmente sono del leone e «leone» fa rima con «trombone».
Libera nos a malo.
Comunque sono contento.
Avevo questi racconti nel cassetto da un decennio e mi ero abituato a vederli lì. Poi, per un impulso del momento li ho dati a uno scrittore - uno vero -, Alessandro Defilippi. «Leggili. Se mi dici che meritano giuro che li pubblico».
E lui mi ha detto: «Meritano», mettendoci anche un po' di entusiasmo.
Mi ha convinto di una cosa della quale non chiedevo altro che di essere convinto.
Ma sono belli, questi racconti?
Beh, a me piacciono abbastanza. Sono strani, questo è certo. Non mi è capitato spesso di leggere qualcosa del genere, e sì che leggo parecchio.
Originali, comunque, non vuol dire geniali...
Fantastici, ma senza mostri né astronavi, né serial killer vomitati dall'inferno. Piccole cose, in realtà. Un albergo sul mare, una televisione che non si spegne mai, un cabinato abitato da una strana ragazza, un giardino trascurato, un rubinetto guasto... cose molto prosaiche che però possono rivelarso altrettanti passaggi per lo strato più profondo della realtà.
Tutto qui.
Comunque sia, se qualcuno desidera leggere uno o anche tutti i racconti mi lasci un post sul blog con il suo indirizzo e-mail. Gli manderò gratis l'antologia (anche se, per semplici motivi di ingombro, senza le fotografie), tutta o in parte.
Io e l'editore siamo d'accordo sulla libera circolazione dei materiali.
Ultima cosa, qui sotto:












L'unica immagine che non sono riuscito a utilizzare per l'antologia.
Un semplice pezzo di muro. Guardandolo bene, però, ci si accorge che è un pezzo di muro con una storia.
Ecco, i miei racconti sono così.
Le storie vengono fuori dai particolari osservati due volte.