Un vecchio racconto, ripescato casualmente in un dischetto mentre controllavo che diavolo ci fosse su una trentina di dischetti 3,5", ripescati in una scatola dimenticata sotto uno scaffale.
Ho aperto «GraMeMec» senza sapere che diavolo fosse e mi sono trovato davanti questo racconto, pubblicato, credo, in un LN della prima serie, a circolazione limitata ai soli soci della CS. Pubblicato sotto pseudonimo, per evitare commenti e giudizi da parte dei soci. Rivisto a vent'anni di distanza non mi è sembrato poi così orrendo o impubblicabile. Oltre tutto pubblicandolo sul blog evito di riperderlo.
Rileggendolo mi è tornato in mente com'è nato: una scommessa fatta con un amico nel tentare di scrivere un racconto su un tema molto banale, come la quantità di ombrelli dimenticati in libreria. Scommessa che non saprei dire se vinta o meno. Comunque sia, buona lettura a tutti.
...
Mai perduto un ombrello in vita mia.
Mai capitato di dimenticarlo in un negozio, sull'autobus, sul lavoro,
nell'auto di un amico, in casa della fidanzata, sul treno o in uno
qualunque dei luoghi dove si è soliti dimenticare ombrelli.
E questo nell'arco di una vita neppure
troppo breve: esattamente 37 anni, 7 mesi, 12 giorni e spiccioli.
Ma oggi sono giunto alla decisione
irrevocabile di interromperla, spezzarla. Di farla finita, in breve.
E il motivo dell'insano gesto sono
proprio gli ombrelli.
Dicevo: mai perduto un ombrello in vita
mia. Non intendo vantarmene e neppure rivendicare qualche merito.
Posso ammettere di essere una persona molto precisa, attenta,
educata. Non tutti sono come me. Non lo dico per superbia, ma se
tutti fossero come me non sarei costretto a compiere un gesto così
poco connaturato alla mia indole.
Voglio scusarmi fin d'ora per le
inutili digressioni e le minute osservazioni personali, ma per la
prima volta in vita mia sono assolutamente certo che qualcuno leggerà
queste mie righe e non vorrei si traessero conclusioni affrettate su
di me e sul modo in cui ho risolto di condurre la mia esistenza.
Ma andiamo in ordine.
All'ultima rilevazione da me
personalmente compiuta risulta che ho in casa 271.452 ombrelli. Essi
si trovano in 8 delle 11 stanze della casa di mia proprietà, una
vecchia villa con giardino nel miglior quartiere della città. Da una
banale sottrazione ne risulta che io e zia Elsa siamo confinati in
tre stanze, nelle quali siamo costretti ad ammucchiare buona parte
dei mobili e tutti i nostri effetti personali. Le altre, e anche la
mansarda e la cantina, sono occupate dagli ombrelli.
Ci tengo a dire che non si tratta di
un'eccentrica collezione. Tutti gli ombrelli che mi trovo ad ospitare
mi sono stati via via consegnati da persone diverse, nella mia città
di residenza e nel corso di viaggi, taluni anche all'estero. Non ho
mai in alcun modo sollecitato queste consegne. Semplicemente, se
entro in un negozio, in un ufficio, in un cinema, in un bar, in
qualsiasi luogo pubblico vengo presto abbordato da un benintenzionato
che con un allegro sorriso mi consegna un ombrello: « Tenga, questo
è suo, l'ha dimenticato qui ieri / la settimana scorsa / un anno fa»
Inutile negare o schermirmi. Uscendo mi trovo immancabilmente fornito
di un nuovo ombrello. Inutile anche abbandonarlo da qualche parte: mi
sarà restituito. In quanto al distruggerlo o al rivenderlo o
regalarlo, ognuna di queste condotte si è rivelata inutile o
controproducente. Ho infatti registrato costantemente il flusso degli
ombrelli in arrivo, constatando che ad ogni gruppo di ombrelli
venduto, distrutto o regalato corrispondeva un'impennata nelle
consegne. Ho così finito per stabilire che era preferibile per me
tenere un basso profilo e non improvvisare manovre temerarie.
Da qualche tempo a questa parte la
perniciosa gentilezza dei miei simili è giunta a perseguitarmi a
casa. Non passa giorno senza che la mia quiete familiare non venga
turbata da qualche volenteroso armato di ombrello e ben deciso a
restituirlo al legittimo proprietario. I più cortesi e precisi
arrivano ad avvolgerlo nella carta velina.
Non che non abbia già escogitato
numerosi tentativi di liberarmi del mio ingombrante fardello, ma il
fatto stesso di trovarmi a dover compiere questo passo estremo
testimonia del loro fallimento. Posseggo solo questa casa e una
rendita limitata, mi trovo quindi nell'impossibilità economica di
inviare i miei ombrelli in luoghi dove ne esista la necessità e
manchino le risorse e la tecnologia per produrli. D'altro canto
innumerevoli sono stati gli ostacoli che mi sono stati frapposti, gli
atteggiamenti sospettosi, le resistenze, le suscettibilità, i
sarcasmi.
Ecco che sta nuovamente suonando il
campanello della porta a pianterreno. Odo zia Elsa che scende le
scale ed apre la porta: buongiorno / buongiorno / il signore...suo
figlio? / mio nipote / ecco, suo nipote ha lasciato sulla panchina...
ho pensato di portarglielo / non è nostro / guardi, ne sono certa,
l'aveva quando è arrivato / le dico di no (inutile tutto inutile) /
ma l'assicuro, chieda a lui. Lo prenda, comunque, sa un ombrello fa
sempre comodo...
Avverto il rumore della porta chiusa,
il passo della zia che risale le scale, la sento mentre apre la porta
della vecchia sala e getta l'ombrello nel mucchio, ormai arrivato
fino al soffitto. Poi chiude la porta e si ritira nella sua piccola
stanza.
A questo punto suppongo sia opportuno
dilungarmi almeno un po' su zia Elsa. Sono sicuro che a lei farebbe
piacere e poi i miei lettori riterrebbe indelicato non dedicarle
almeno due righe, dopo averla citata.
Non è mia zia, innanzitutto, ma una
sorellastra di mia madre, una bambina dimenticata da qualcuno nel
giardino della nostra casa, che i miei nonni hanno prima nutrito e
infine adottato, sia pure non ufficialmente. Non ufficialmente perché
nel maggio del '45 di ufficiale c'era ben poco.
Adesso zia Elsa vive con me. Mi prepara
da mangiare, mi lava la roba, tiene pulita la casa, fa le spese e sa
suonare con la fisarmonica l'intero repertorio di Natalino Otto e
Oscar Carboni.
Non posso che dirne bene, tanto più in
questa mia unica e ultima scrittura pubblica. Anzi, colgo l'occasione
per dichiarare che per me Zia Elsa è stata come una seconda mamma.
La prego ancora di perdonarmi per tutte le piccole grettezze, le
ingratitudini, gli scatti di nervi, le pignolerie e le meschinità
che le ho inflitto. Purtroppo la mia indole e la mia educazione mi
hanno reso puntiglioso e aspro, insoddisfatto e lunatico.
La mia dipartita prematura comunque la
compenserà, lasciandola padrona della casa e probabilmente la mia
scomparsa risolverà il problema degli ombrelli. Forse il funesto
demiurgo che ha stabilito di far di me lo zimbello della sua bizzarra
perfidia, finalmente placato, si deciderà a cercare un'altra
vittima.
Non sono solito evocare enti
soprannaturali - ho avuto una formazione scientifica - ma, nonostante
tutta la mia buona volontà, non sono riuscito a trovare alcuna
spiegazione piana e razionale alla mia singolare sorte.
Non ho ricordi rivelatori in proposito,
per quanto con la memoria mi sforzi di giungere fino ai miei primi
mesi. Pur se figlio unico reputo di aver avuto un'infanzia normale,
allietata dai giochi e dagli scherzi del mio povero papà,
commerciante di francobolli e collezionista di cotillon di capodanno,
e rafforzata dal calmo raziocinio di mia madre, che mi ha insegnato
il valore dell'ordine e del metodo.
No, non posso affermare di essere stato
in qualche modo predestinato a simile sorte. Eppure...
Ma perché negarlo o nasconderlo? In
fondo questa mia è anche palestra di verità e quindi debbo andare
fino in fondo, scavare fino a trovare le radici. Debbo ammettere che,
di tanto in tanto, in giorni in cui ho avvertito la mia solitudine
più acuta, ho dedicato diversi minuti a considerare la smisurata
varietà di ombrelli che ormai posseggo. Sono entrato nelle stanze
dagli scuri chiusi e ho respirato a fondo l'odore della seta, del
nailon, dei legni, della plastica. In piedi nella penombra coglievo
il baluginare di giunti, asticciole, molle, mi sentivo immerso in un
mondo di fredde e impeccabili articolazioni, di scatti calcolati, di
bellezze scheletrite ed essenziali. In quegli attimi, quando il
respiro improvviso di un ombrello automatico mi faceva sobbalzare, mi
sentivo stranamente sollevato; percepivo la bellezza sovrumana di
quei movimenti compiuti, definitivi, e intuivo la presenza del loro
Dio, il mio demiurgo. Talvolta mi è anche capitato di averne per
qualche attimo la visione. Si tratta di un'immensa, gelida medusa,
dai movimenti segmentati, maestosa come il moto di un pianeta o di un
satellite.
Sono quelli gli unici riprovevoli
momenti nei quali ho concesso libertà ai miei pensieri, nei quali mi
sono permesso riflessioni oziose. Esattamente ciò che mia madre non
avrebbe mai tollerato e che neppure io, di conseguenza, posso
tollerare.
La mia vita ordinata, conseguente è
minacciata dal caos che ormai mi sommerge. Qualunque attività mi è
preclusa dalla costante consegna di ombrelli, mattino e sera, anche
nei giorni festivi. Non riesco più a dedicarmi a nessuna delle mie
modeste ma soddisfacenti attività, alle mie collezioni, ai miei
studi. Non esiste più per me speranza di solitudine, possibilità di
riacquistare l'anonimato.
Trasferirmi, andarmene non risolverebbe
il mio problema. E lontano dalla mia abitazione, dalle mie abitudini
non potrei sopravvivere.
Procederò al suicidio mediante
l'ingestione di una moderata quantità di un veleno che non avrà
effetti sull'apparato motorio e che mi lascerà ben composto e
ordinato anche oltre la soglia della vita.
Procedo a sciogliere il veleno in
acqua. L'acqua è rimasta limpida e insapore. Questo scongiurerà la
possibilità di essere rinvenuto con una smorfia disdicevole sul
viso.
Mi abbandono cautamente allo schienale
della sedia. Da tutte le stanze della casa odo provenire ticchettii e
leggeri fremiti. É il Demiurgo che saluta il mio arrivo. Sento le
gambe farsi pesanti e fredde. Non riesco più a muovere i piedi. Gli
ombrelli automatici si stanno aprendo uno dopo l'altro, come grandi
pipistrelli sbattono le ali contro le porte, i muri, le finestre
serrate. Immagino la seta e il nailon che scivolano e si muovono a
comporre un tempestoso mare teatrale.
Il freddo mi sta raggiungendo. Scrivo
con pena queste ultime righe. Un ultimo faticoso pensiero mi
accompagna verso la soglia. Non è solo un pensiero: è un urlo, un
ruggito, una tempesta di dolore che mi sovrasta e mi assorda.
Proviene dai mille e mille ombrelli che vivono nella mia casa, da
quelli grandi, foderati di stoffe scozzesi fino a quelli piccoli, da
bambino, pieni di graziosi disegni dai colori chiassosi. Sono le loro
voci sottili e metalliche dotate di una strana, inafferrabile
risonanza, come di stoffa lucida accarezzata. Dentro di me si compone
una frase.
«Perché, perché anche tu ci
abbandoni? Non siamo già stati tutti abbandonati più volte? Non
lasciarci! Resta ancora con noi: sei preciso, ordinato, tu. Non
dimentichi mai nulla. Sii ancora una volta il nostro Signore, la
nostra Grande Medusa Meccanica!»
Ascolto senza capire prima di
scivolare via.