Non ho mai amato davvero mio padre.
Ho tentato di amarlo, ma senza quasi mai riuscirci davvero. E questo mi pesa non poco.
L'ho tollerato, qualche volta inseguito, il più delle volte evitato o liquidato frettolosamente.
Mio padre in tarda età era una persona noiosa, ripetitiva. Con qualche fissazione discutibile, poco tollerato anche da sua moglie, mia madre. Divenuto tirchio di parole, di slanci, di proposte. Io avrei voluto parlargli, una volta tanto, dirgli che in realtà, nonostante tutto, gli volevo bene e l'avrei voluto di nuovo com'era stato: spesso allegro, un po' sconsiderato, pronto a partire in qualsiasi momento, curioso, galante, talvolta infantile. Ma quel tempo era passato ed io tacevo, sempre sulle spine, in attesa di qualche commento amaro sul «mio» fallimento che lui, riuscito nella vita, non poteva comprendere.
Lui è sempre stato un dipendente, fino a divenire un dirigente FIAT. Io no. Io ho sempre cercato di fare da solo. Di crescere per mio conto, di inseguire un sogno povero e difficile. Ho tentato di spiegarglielo, qualche volta, ma nulla. Non capiva, non voleva capire. Scrollava le spalle e mi ripeteva - esagerando, perché mi fosse d'insegnamento - che l'unico modo per pesare una vita erano i soldi. E io i soldi li ho più perduti che fatti.
Non aveva mai approvato le mie scelte.
Era intervenuto qualche volta per darmi una mano ma sempre con un commento, non pronunciato ma evidente. «Perché perdi tempo e denaro?»
Ho rinunciato a suo tempo a sperare che fosse possibile capirci. Non ci capivamo, nulla di più.
Adesso che è scomparso, che si è definitivamente chiusa la possibilità - anche povera, anche disperata - di capirsi, adesso mi manca. Puro egoismo, probabilmente, il desiderio di essere perdonato. Nonostante tutto.
Ma lo rivorrei qui, a sbuffare per le sue idee buffe o impreviste, a invidiarlo comunque un po' e insieme a criticarlo per una visione della vita che mi è sempre parsa superficiale.
Credo di non essergli mai stato davvero simpatico, nemmeno da bambino. Già allora si sentiva giudicato da me e io non potevo fare a meno di giudicarlo. Io era troppo "serio": grave, serioso, pesante.
Ecco, se mai fosse possibile vorrei dirgli che adesso ho smesso di giudicarlo, che mi accontento di averlo ancora qui con me. Che sono disposto ad ascoltarlo senza sbuffare e senza inventare una scusa per potermene andare. Che sono persino disposto ad andare con lui sulla sua barchetta - ormai venduta - fingendo di essere per una volta padre e figlio.
Ma è il tempo che, volando via, si allontana da noi con tutti i momenti che non si sono vissuti. Che non si è avuto il coraggio di vivere.
Vorrei avergli detto: «Ti voglio bene comunque, anche così come sei» piuttosto che tenermi per me questa intollerabile tristezza.