30.1.15

Calendario incontri per Carmilla


Qualche giorno fa l'ottimo Franco Pezzini, coordinatore, curatore, relatore, esperto, cultore della materia, squisito dicitore, raffinato gourmet e terricante lettore mi ha passato il calendario degli incontri 2015 per la serie di lezioni dedicate a Carmilla, la vampira nata dalla fantasia e dai malinconici sogni di Sheridan Le Fanu. 
Personalmente ammetto che sono stato assai poco assiduo alle ultime lezioni. Problemi di famiglia - la mamma innanzi tutto - ma anche problemi e altri inciampi di ogni genere hanno cospirato per rendermi irraggiungibile l'Ostu di Giovanni da Verrazzano angolo via Colombo alle 19.00 del venerdì. Cerco di farmi perdonare così, facendo un minimo di pubblicità in questa sede. 

Questo il calendario: 

Venerdì 6 febbraio, ore 19.00

Venerdì 20 febbraio, ore 19.00
Venerdì 6 marzo, ore 19.00

Venerdì 20 marzo, ore 19.00

Venerdì 17 aprile, ore 19.00

Venerdì 24 aprile, ore 19.00

Venerdì 8 maggio, ore 19.00

Venerdì 29 maggio, ore 19.00

Venerdì 12 giugno, ore 19.00

Venerdì 26 giugno, ore 19.00
ULTIMA PUNTATA


Aggiungo, per gli amanti della cucina piemontese, che l'Ostu è un buon rappresentante di tale cucina e che pratica prezzi più che abbordabili [*].
Quanto alle lezioni non c'è molto da aggiungere. Se conoscete Franco Pezzini non c'è molto da dire, se non avete mai assistito a una delle sue lezioni... beh, non perdetevelo. 

[*] Il mio problema - più di mia moglie che mio - è un'intolleranza feroce per l'aglio nelle pietanze. Il che potrebbe, secondo una lettura Stokeriana, farne la candidata ideale per un posto da vampiro. Il risultato è, comunque, la sua fuga precipitosa da qualsiasi esercizio che abbia l'abitudine di servire piatti contenenti aglio. È una maledizione, da un certo punto di vista.  



28.1.15

Interviste


Se qualcuno tra coloro che seguono questo blog vuole sapere che cosa sto facendo, che cosa farò - a breve e avanti nel tempo - come la penso sul mondo dell'editoria, cosa ho in mente per ALIA e chi disturberò presto, può leggere l'intervista apparsa oggi sul blog «La bottega del Barbieri», dove Vincent Spasaro mi intervista fino allo sfinimento. 
Del lettore, suppongo.
Per leggerla vi basterà andare 

QUI 

«...E per la sufficienza basta leggerne la metà».
Eppiantala!


26.1.15

Ulteriori delusioni


Siamo arrivati ai concorsi letterari, fonti di soddisfazioni - talvolta a sorpresa - ma più spesso di delusioni (appunto), di incomprensioni, di malanimo, di rancori, di qualunquismo artistico, «sì, tanto premiano sempre qualcuno dei loro», di intolleranza criptoculturale indefinita e spalmata su millanta eventi. 
La principale differenza con la bocciatura (o il silenzio) ricevuti dagli editori, è il surplus di acredine che rimane nel non premiato o, peggio, nel non premiato abbastanza. Ricordo tuttora con una punta di smarrimento - il narcisismo tradito è un pericoloso despota - l'umore con il quale accolsi una semplice segnalazione a un concorso in provincia, che mi attribuiva la meraviglia di una coppa in luogo del 1.000.000 di lit. previsti per il vincitore. Assistetti alla lettura dei tre brani vincenti con risentita ostilità, trovandoli immancabilmente brutti, vale a dire: seriosi, infantili, risibili, melodrammatici, elementari, retorici ecc. ecc. 
Nota a margine, pochi mesi dopo il premio mancato ripresi in mano il racconto fallito ed evitando di comportarmi come un Daimyo tradito lo rilessi. A mente fredda vi trovai diversi difetti e dovetti ammettere che probabilmente non avrebbe meritato quel primo posto che personalmente, solo poco tempo prima, gli avrei attribuito. C'è però da aggiungere che la rilettura dei racconti vincenti non mi fece cambiare parere su di loro. Diciamo che accomunai il mio racconto ai loro e buonanotte. 
Passò altro tempo e ci vollero altre esperienze negative perché decidessi che, semplicemente, c'era stato qualcuno nella giuria che aveva deciso che un racconto di narrativa fantastica (non di fantascienza, specifico) non avrebbe potuto vincere il concorso né piazzarsi tra i primi. 
C'è qualcuno che odia il fantastico, là fuori.


A posteriori questo spiegò anche i modi  freddi di un membro della giuria nell'invitarmi a ritirare la coppa e i modi entusiasti di un altro membro della giuria a consegnarmela.
Ciò che mi avvenne è un meccanismo ahimé tipico di alcuni concorsi dove la giuria è formata da un gruppo di associati a qualcosa - dal Circolo «Amici della Cultura» di Barambate Scalo al gruppo letterario «L'Anforisco» di Tirrenica Marina alla ProLoco di Uggiaia Pietricola - che non vantano una particolare competenza in tema letterario, che allinea un paio di insegnanti - preferibilmente anche se non necessariamente di italiano - e che giudica i racconti secondo un criterio più o meno personale. Tra costoro è immancabile un individuo - che potremmo definire "L'Oscuro" - pronto a trovare intollerabile qualcosa
Una cosa tipo: 
- un protagonista omosessuale,  
- un'ambientazione urbana,
- l'indiretto libero («non si capisce chi è il protagonista»)
- il fantastico declinato in ogni forma
- i racconti con troppi ritorni a capo
- i racconti con pochi avverbi 
- eccetera
Con simili soggetti la discussione per la scelta dei racconti vincenti diventa una singolar tenzone, soprattutto se sono due i soggetti di questo genere in giuria. Risultato finale: la scelta di racconti che non irritino nessuno, con protagonisti rigorosamente casti e solitari, ambientati in campagna sotto il fascismo, con un narratore onnipotente che racconti la sua storia - rigorosamente realista - con pochi ritorni a capo e un numero insondabile di avverbi. 
Ciò che è avvenuto è stato eliminare tutti i racconti in qualche modo innovativi, strani, particolari e inconsueti o relegarli alla semplice, inutile, segnalazione [*].
Per quel che mi è stato dato vedere questo meccanismo funziona indipendentemente dalle dimensioni del premio e dell'ente che lo organizza. In un premio dedicato a un grande autore italiano del '900, al quale ho partecipato in tutto quattro volte e due volte con lo stesso testo in fasi diverse di revisione, ho ricevuto sul medesimo romanzo pareri diametralmente opposti: il primo incoraggiante (alla prima stesura) il secondo rabbioso (alla seconda stesura). 
Difficile credere non ci fosse un Oscuro tra i lettori del premio. 
La stessa cosa è accaduta nella selezione di un altro romanzo, giudicato «insopportabilmente allegro per un tema tanto grave», parere dell'Oscuro di turno (e confidenza di un altro membro della giuria). 
In un'occasione nella quale riuscii a vincere uno degli Oscuri in giuria mi ha fatto notare a muso duro che «Quel racconto io non lo avrei mai premiato», tanto perché lo sapessi.
Per conto mio ho fatto parte di giurie e ho faticato non poco a promuovere almeno uno dei racconti che avevo apprezzato. Anche in quelle giurie c'era un Oscuro - o magari due - che mi hanno creato sbalzi di pressione e cadute di glicemia per la lunghezza delle riunioni. 
Unica eccezione a questo genere di meccanismi è stato il concorso di Fata Morgana, ma qui andiamo sui ricordi personali e non mi pare il caso.

Il vero problema dei concorsi è quello di aver a che fare con persone armate di buona volontà, di un certo numero di pregiudizi e, se va bene, di competenza. Il vero guaio è quello di incontrare qualcuno che, magari almeno in parte competente, è apoditticamente convinto di fare il bene della cultura così-come-l'abbiamo-conosciuta [**] ed è pronto a impiccare sua madre piuttosto di ammettere che anche il racconto X non è poi tanto male [***]. La piccola autorità fornitagli dall'essere membro di una giuria gli dà alla testa e lo spinge a fornire pareri anche se non richiesti e a perorare ferocemente la causa di alcuni racconti perché aderenti alla sua weltanshauung
E utilizzare un termine nato sotto il nazismo risulta perfettamente adeguato. 
Come difendersi da questo genere di concorsi?
Beh, è impossibile. 
L'unica via è quella di partecipare a molti concorsi.
O, in alternativa, a nessuno. 
Il peggio è partecipare solo ad alcuni e prendere il loro parere per oro. Può essere vero, certo, ma sia che abbiate vinto sia che abbiate perso non ne saprete molto di più sulla vostra scrittura. 
Ed è questo il vero problema.
     



[*] con ciò non intendo affatto autoelogiarmi. Il valore dei miei testi è per me insondabile. Ciò che vorrei è far capire a chi mi legge perché un discreto racconto - vostro o di un amico - non ha vinto nulla di nulla nonostante buoni pareri ottenuti da qualcuno che non sia il ragazzo, la moglie o la mamma. 

[**] Esiste anche l'Oscuro new age che difende i racconti e gli autori nuovisti, indipendentemente dalla loro qualità. Altrettanto pericoloso, se non di più per il sottile ricatto, «Tu-non-puoi-capire». 

[***] Ovviamente anch'io sono in qualche occasione caduto in questo genere di loop. Che poi è una variante del famoso detto: «Mi piace solo ciò che è bello», ovvero una nobile e dissennata associazione tra tracotanza, superficialità e amordisestessi. L'unica salvezza, in questi casi, è stato un po' di humour e un po' di autoironia. I veri Oscuri ne sono completamente sprovvisti.

23.1.15

Premio Hugo?


Un post abbastanza breve, oggi. Dove parlerò solo di un libro, Il ciclo di vita degli oggetti software di Ted Chiang (The Lifecycle of Software Objects, 2010), pubblicato in Italia da Delos nel 2011. 
Un solo libro e un post breve per un buon motivo: oggi all'ora di pranzo ho appuntamento con il fuochista della caldaia della casa in montagna per capire se tutto funziona come deve o se esistono rischi per le tubature che rischiano il congelamento e la rottura. Una missione che ha qualcosa degno di Star Trek - mi consolo così -, perlomeno degno di Montgomery Scott, ingegnere della prima Enterprise. Ne approfitto per fermarmi un paio di giorni in mezzo alla neve e comunicare a tutti che non esisterò o quasi fino a lunedì.
Ma torniamo a noi. 
Ted Chiang ha pubblicato tredici racconti e un romanzo breve in tutto e ha vinto quattro volte il premio Hugo, cinque volte il premio Nebula, tre volte il premio Locus oltre a vari altri premi e riconoscimenti. Di lui non ho molto da aggiungere a ciò che scrissi a suo tempo nella recensione alla sua antologia italiana, Storie della tua vita, pubblicata su LN-LibriNuovi: un autore fuori dalle regole del genere e capace di porre in maniera inattesa e straniante le domande fondamentali della nostra esistenza: «Chi sono?», «Perché proprio io, qui?», «Esiste Dio? Qual è il mio rapporto con lui?», «Che cosa rende unica la mia esistenza?». 

Il romanzo breve - Il ciclo di vita degli oggetti software - ha lasciato non pochi lettori perplessi. Qualcuno ha dichiarato che il premio Hugo è stato in questo caso, dato più alla carriera che la romanzo in sé, giudicato inferiore alla media dei testi di Chiang. Così l'ho acquistato in forma di e-book e ho iniziato a leggerlo con una certa perplessità e l'ho letto lentamente, al contrario delle mie abitudini, centellinandolo e ragionando su ogni passaggio del testo. 
Raccontarlo in breve è insieme facile e difficile: in pochi casi, infatti, mi è capitato con maggiore evidenza di notare la verità del detto «Dio dimora nei particolari». E scusate il gioco di parole.
I clienti di una ditta software acquistano alcuni oggetti software, tamagotchi che crescono e maturano in un ambiente virtuale, e creano legami tra loro in quanto «genitori» di tali creature. Ma col tempo tali creature passano fatalmente di moda, la ditta software fallisce, i tamagotchi - i "digienti" del libro - si trovano a vivere in un universo virtuale sempre più vuoto e spoglio mentre i pochi "genitori" si affannano a cercare per loro nuovi sbocchi e nuove possibilità. Fatalmente sia gli umani che i digienti si troveranno a scontrarsi con la logica delle major informatiche per le quali sono ammissibili soltanto prodotti e non creature intelligenti: 

...cerchiamo prodotti super-intelligenti. Lei ci sta offrendo i primi e non posso biasimarla. Nessuno può spendere anni ad addestrare un digiente, come ha fatto lei, e considerarlo ancora un prodotto. Ma il nostro business non è basato su questo genere di sentimenti. 

La logica del mercato in apparenza sconfigge senza appello la curiosa, insana passione di alcuni umani che si sono dedicati a far maturare e rendere più umani semplici costrutti virtuali. Coloro che non hanno capito, o non hanno voluto capire, che le imprese hanno altri scopi, altri progetti, una diversa visione della realtà. 
Il romanzo ha un finale interlocutorio, che lascia una porta aperta al mondo dei digienti e a quello dei loro umani, anche se potrebbe trattarsi soltanto di una breve, curiosa parentesi in un mondo senza speranza.

Ted Chiang

L'approccio di Chiang non è amichevole né gradevole, i suoi umani, i "genitori" dei digienti, sono persone comuni, nerds fissati con i loro bambini virtuali che sembrano non capire come va davvero il mondo. Il racconto è freddo, non ammette solidarietà né simpatia nemmeno per i digienti, presentati all'inizio come creature forzatamente infantili, elementari nei loro gusti e nelle loro passioni per poi mutare inavvertibilmente fino a divenire creature sottilmente inquietanti. 
Il lettore in più occasioni si chiede perché continuare a leggere una storia tanto volutamente remota e improbabile, oltre tutto scritta in maniera così evidentemente gelida. Me lo sono chiesto anch'io, ovviamente, ma ho continuato e ho finito il romanzo, più o meno 100 pagine. Adesso, a distanza di un paio di mesi, posso affermare che sono - uno - soddisfatto di averlo letto e - due - che sono pienamente convinto che il premio Hugo sia stato abbondantemente meritato.
Passione per Chiang? È possibile, non lo nego. Esiste un piacere particolare nel leggere un libro di questo genere, un piacere che evoca l'immagine di arrampicarsi su una parete liscia e fredda, un esercizio che non lascia al lettore margini per sentirsi vicino o simile all'autore: un'immagine lontana, separata, indifferente. 
Ted Chiang non ha mai cercato né la simpatia né la complicità dei lettori. In questo romanzo anche meno del solito. Non ve ne consiglio caldamente la lettura: esistono momenti giusti e altri del tutto inadatti. Ma se ve la sentite vi suggerisco di farlo: vedere il mondo con gli occhi di un oggetto software è un'esperienza difficile ma unica.   
        

21.1.15

La vendetta dell'uomo medio


Due ventenni, femmine, sono state rapite in Siria da alcuni soggetti più o meno ignoti. Probabilmente fondamentalisti, ma altrettanto probabilmente ex-militari, delinquenti comuni o bande di ladri, razziatori e sciacalli che pullulano in un'area divenuta res nullius nello sfascio dell'amministrazione siriana. 
La due giovinette vanno nella zona, non sono pratiche di guerra né delle leggi non dichiarate che governano una zona dov'è in atto una guerra civile. Le due ragazze probabilmente immaginano di potersi rendere utili, di poter aiutare gli adulti e particolarmente i bambini, più volte apparsi in TV con appelli strappalacrime ad aiutarli. Non si sono limitate a dare due euro col telefonino, come hanno fatto in molti sciacquandosi la coscienza, e sono partite.
Dopo poche settimane vengono rapite. Mandano appelli alle famiglie che si rivolgono al governo che interviene attraverso la Farnesina. Gli emissari del ministro degli esteri sanno dove mettere le mani e possono farlo. Minacciano, promettono, probabilmente pagano un riscatto e le due ragazze, dopo alcuni mesi in prigionia, ritornano in Italia.
Una domanda salta subito in mente a chi ha assistito alla vicenda del rapimento: «ma non si poteva fare così anche con altri rapiti? Ce ne sono ancora, in Nigeria, in Pakistan, in Siria, in Libia...». Non viene in mente: «Chissà quanto hanno pagato?», probabilmente perché siam uomini di mondo e certe cose le capiamo anche senza parlare. In certe zone o si paga o si possono preparare le esequie per il rapito. Ciò che fanno Gran Bretagna e Stati Uniti, almeno quasi sempre. Si può essere d'accordo o meno, fatto si è che le cose sono dannatamente chiare. L'Italia è più ballerina, in proposito, si può sperare che qualcuno prima o poi paghi il riscatto, ma non si può essere troppo certi di nulla. Probabile che, cinicamente, conti di più la rilevanza relativa dei rapiti, l'occasione di far fare bella figura ai politici di turno, l'entità del riscatto, la possibilità reale di trattare coi rapitori ecc.
C'è poi il problema del riscatto, ovvero dei denari versati a qualche organizzazione o singoli individui per ottenere la liberazione del rapito. Si è trattato di un rapimento a scopo di lucro o per finanziare qualche organizzazione terroristica?
Come si può intuire un ginepraio dove ci si può augurare: UNO di non essere mai l'ostaggio in attesa di salvezza, DUE trovarsi a essere il funzionario o i funzionari chiamati a trattare. 
Ma fortunatamente o sfortunamente c'è, anche in questi casi, qualcuno che sa davvero che cosa fare. 


C'è chi dice che le famiglie delle ragazze dovrebbero rimborsare il riscatto allo stato - del quale si ignora, detto di passata, anche l'entità.
C'è chi dice che sono state due bambinacce discole e avrebbero dovuto lasciarle dov'erano, così imparano. 
C'è chi dice che carucce come sono sono state sicuramente stuprate dai loro rapitori e chi, arrapato alla semplice idea, aggiunge che le ragazze, troiette e criptocomuniste - come si intuisce agevolmente dalle loro foto -, devono averla data anche gratis ai nerboruti e virili rapitori. 
C'è un ex-fascista - e, ahimé, ex-vicepresidente del senato - che non perde l'occasione di mostrare una volta di più la sua miseria morale e intellettuale strepitando «... e noi paghiamo» sul suo disgraziato telefonino. Il nome è Gasparri, per chi non lo sapesse.    
C'è chi teme che il denaro sia finito nelle tasche dell'Isis o di Al-Quaeda, ignorando - perché farlocco, non perché ignorante - che l'Italia paga senza fare una piega il petrolio proveniente anche dalle zone occupate dall'Isis o che il Qatar finanzia (ufficiosamente) i combattenti islamici. 
C'è chi si scandalizza per il denaro speso per «due ragazze cretine», ignorando o non tenendo conto che ogni anno il sistema delle tangenti succhia un decimo di punto di PIL e 10 miliardi di euro. E che l'evasione fiscale succhia 170 miliardi/anno malcontati.
C'è chi, bilioso e invidiosetto, protesta perché «si spendono soldi per salvare gente che se l'è cercata», continuando a nuotare felicemente nel suo brago e a giocare a gratta-e-vinci  - la tassa sulla stupidità di cavouriana memoria -, ovvero 75 miliardi di fatturato/annuo . 
C'é chi tira in ballo i marò arrestati in India, «e per loro non si fa nulla?», dimenticando che i due militari sono accusati di omicidio e che il problema sarebbe, semmai, arrivare a un processo internazionale. 
E c'è, infine, chi dichiara che in futuro la gente che vuole aiutare il prossimo - comprendendo qui anche i medici di Emergency, a rischio di ebola - dovrebbe pagare, anche a rate, i costi che la comunità deve sobbarcarsi per salvarli dal rapimento o dalla morte.


Confesso che leggendo questa formidabile, inarrivabile catasta di idiozie ho avuto un motivo in più per essere contento che l'attentato a Charlie Hebdo non sia avvenuto in Italia. Chi ci avrebbe salvato dai soggetti che avrebbero dichiarato che «in fondo in fondo quelli là se la sono cercata»?
L'Italia è malata di un provincialismo gretto e meschino, che unisce in una infelice combinazione la diffidenza per comportamenti che non siano i più banali, un'invidia rabbiosa per chi non è un tonto e non si accontenta di un giro al bar, al mercato, alla ricevitoria e davanti alla TV, una silenziosa furia verso le donne «che non sanno stare al loro posto» e che non perde occasione per emergere, mista a un desiderio sessuale distorto e anonimo, lo stesso che fa dire davanti a qualunque foto che rappresenti una donna desiderabile: «Bella F... so io che cosa ti farei».
Tutto questa umiliante immondizia morale non ha nulla a che vedere con un dibattito sui cittadini italiani che lavorano in aree a rischio, dibattito che nella realtà non è nemmeno partito. Si è preferito borbottare qualcosa senza farsi troppo sentire in giro o magari urlarlo senza vergogna, come tanti Borghezio grassi, stolidi e ignoranti.
E l'ignoranza resta il principale problema di questo infelice paese e con essa la paura e la rabbia carica di impotenza che ne nascono. La crisi le ha solamente rese più urgenti e sguaiate. 
Domani sarò probabilmente di umore migliore ma oggi sono davvero preoccupato per questo paese.    


18.1.15

Parlando di libri...


...Sai che novità.
No, a parte gli scherzi, è il momento di parlare un po' dei libri letti, anche perché è un periodo di follia libraria e sto comprando più libri di quanti riuscirò a leggere in tempi brevi e quelli letti ma non raccontati rimangono sulla mia scrivania, in attesa di un cenno, due righe, un  addio. 
Diciamo che con i miei attuali tempi di lettura ho comprato libri ed e-book da leggere più o meno fino al prossimo autunno. Ed un calcolo probabilmente per difetto, anche per la mia abitudine di cacciare i libri appena comprati in angoli inattesi o singolari della mia disgraziata casa.
Che poi io stia lavorando intensamente per trasfomare la mia casa nella dimora immaginata da Robert Heinlein nel suo «... And He built me a Crooked House», ovvero un tesseratte a quattro e forse anche più dimensioni è assolutamente vero: sogno scaffali che non potrò possedere in questo universo e in questa vita e una casa che faccia sembrare Versailles o Venaria una casetta del custode rispetto alla mia. Fortunatamente qualcuno - nella fattispecie mia moglie - ha ancora abbastanza buon senso per fermarmi e raffreddare i miei accessi Leopardeschi, forse perché divorata dai sensi di colpa nell'avere venti o trenta libri da leggere a sua volta...
Ma il mio rapporto con i libri e, per farla breve, assolutamente patologico. Risultato di un'infanzia solitaria trascorsa con pochi libri. Il che - l'infanzia solitaria - è praticamente l'unico punto di contatto con il già citato Leopardi. 
...
Il primo libro a passare è un ottimo libro, Giuda di  Amos Oz, uscito negli ultimi mesi del 2014. Non si tratta di un saggio ma di un romanzo che si svolge nell'arco di pochi mesi: «Questa è una storia curiosa che si svolge nell'inverno tra la fine del 1959 e l'inizio del 1960», come lo presenza Oz. Il luogo della vicenda è la Gerusalemme divisa tra Israele e Giordania, dove continua una guerra non dichiarata tra Arabi e Israeliani e dove il giovane Shemuel, studente universitario è costretto ad accettare un curioso lavoro dopo la catastrofe economica che ha colpito la sua famiglia. Deve tenere compagnia a un vecchio colpito da paralisi progressiva, un individuo malato ma tutt'altro che spento che lo provoca, lo punzecchia, lo costringe a prendere posizione sull'attualità. Shemuel è un comunista tiepido e intellettuale che fino a poco tempo prima frequentava un piccolo gruppo politico in seguito scioltosi ed è reduce dall'abbandon0 della fidanzata, Yardena, che l'ha lasciato per un idrologo più anziano di lui.
Nella casa del vecchio signore, Gershom Wald, conosce una donna più anziana di lui, Atalia, una donna fredda e scostante ma che proprio per queste caratteristiche finirà per sedurlo. Il rapporto tra Gershom Wald e Atalia gli rimane lungamente oscuro, mentre nella soffitta della vecchia casa Shemuel si dedica alla sua tesi: Gesù visto dagli ebrei. E lo studio su Gesù lo conduce a riflettere e studiare la figura di Giuda Iscariota, colui che nella tradizione ha impersonato gli ebrei, il popolo dei traditori del Messia. E tra la figura di Giuda e quella di Abrabanel, padre di Atalia, traditore della causa della nazione Israeliana, nascono inattesi e imprevisti legami che Shemuel sarà chiamato a comprendere.
Un romanzo che in Israele è stato accolto con freddezza e in alcuni ambienti con aperta ostilità. L'idea che Oz riprende in un'intervista, che soltanto «il tradimento può cambiare il mondo» ha un risultato necessariamente provocatorio per un paese richiamato a un nazionalismo feroce dalle forze della destra locali. Un romanzo ricco di riflessioni decisamente stimolanti, di personaggi ritratti con affetto, di storie dimenticate o ignorate e di una Gerusalemme raccontata con delicata malinconia: 

... in sottofondo vi capiterà di udire la melodia lontana di una fisarmonica o le struggenti note di un'ocarina, sul far della sera, dietro un'imposta chiusa.

Ultima nota sulla vicenda di Giuda così come l'ha narrata Oz, un personaggio diverso dai tanti Giuda ritratti nella storia d'Occidente: un uomo facoltoso ma tormentato da un'illusione che si rivelerà infine fallace, contrapposto a un Gesù incerto, provinciale, rinunciatario. Un ritratto originale e potente di due protagonisti delle Sacre Scritture che, in tempi di fondamentalismo feroce, consiglio vivamente di leggere a tutti: credenti e atei. 
...
Cambiando completamente tempo, genere e luogo, passo a L'ultima Colonia (The Last Colony), romanzo di sf del 2007 di John Scalzi. Il titolo del libro fa apertamente riferimento alla colonia che due ex-militari, John e Jane, vengono chiamati a guidare in un sistema appena scoperto dagli umani. La situazione delle colonie per la specie umana è particolarmente delicata, dal momento che esistono più di trecento specie aliene che hanno trovato una sorta di equilibrio intergalattico creando un Conclave delle specie senzienti, impegnato a vigilare sulla creazione di nuove colonie. Ovviamente la specie umana, essendo arrivata per ultima o quasi, si trova a essere fortemente svantaggiata nelle sue prospettive di sviluppo e colonizzazione, sicché deve far ricorso a trucchetti e furbizie di ogni genere per riuscire a condurre in porto i suoi progetti di espansione. 
John e Jane, ignari della situazione in atto, scopriranno di essere chiamati a fondare una colonia illegale e dovranno sudare le proverbiali sette camicie per riuscire a far sopravvivere i disgraziati coloni oltre a loro stessi. 
Romanzo vivace e divertente, L'Ultima Colonia è un ottimo  esempio di Space Opera contemporanea, scritta con un'evidente dose di ironia, personaggi dai dialoghi rapidi e divertenti, alieni in qualche modo easy e  nuove Terre come se piovesse. Ovviamente se state cercando alieni che sembrino davvero alieni e un futuro governo dell'umanità che non assomigli all'amministrazione Bush farete bene a girare a largo da L'Ultima Colonia, anche per evitare arrabbiature e/o delusioni. Il buon John Scalzi non merita né le une né gli altri, avendo scritto un'opera dello spazio che dà più sul buffo e sulla satira degli States che sul drammatico o sul melodrammatico. Scordatevi La Cultura e posti come l'Entraxrln o la Rottameria. Si scrive spazio ma si legge Terra.
...

Pashazade. Il primo arabesco di John Courtenay Grimwood, glorioso terzo libro della casa editrice zona42 non mi è piaciuto abbastanza. Cioè, non mi è piaciuto quanto mi sarei augurato o avrei sperato. 
E la colpa, a ben vedere, probabilmente è solo mia. 
Non mi è piaciuto il protagonista, un individuo vago, incerto, forse tossicomane e forse genio, perseguitato o accompagnato da visioni zoomorfe, inseguito dai propri ricordi, cui tutto sembra accadere per caso; non mi ha convinto l'Impero Ottomano sopravvissuto fino ai nostri giorni in un'ucronia pallida e smunta, non spiegata nelle pagine del libro, dove il mondo parrebbe sostanzialmente quello al quale siamo abituati ma senza le Guerre Mondiali, cancellate con un semplice tratto di penna ma senza fornire al lettore qualche elemento reale di differenza con il nostro mondo. Mi ha lasciato tutto sommato indifferente la vicenda raccontata, ovvero il solito thriller - mi illudevo di leggere un romanzo di storia controfattuale, non un giallo - e i personaggi mi hanno lasciato tutto sommato freddo, con l'eccezione dell'ispettore capo Felix Abrinsky, bell'animale da caccia di stirpe americana, perfetto per un buon giallo, anche se, ovviamente, scomparso troppo presto.
La colpa è essenzialmente mia, dicevo, perché mi sono illuso di leggere un buon romanzo di ucronia, con i soliti megapipponi acclusi di storia alternativa - che a me piacciono, da bravo storico dilettante - e la sensazione di straniamento che attraversa profondamente i personaggi e la vicenda, con la consueta benefica confusione che sposta le carte i personaggi storici rendendo - chessò -  Göring un eroe del comunismo internazionale e Patton un ricco trafficante di droga. Viceversa mi sono imbarcato in un thriller di ambientazione esotica con un James Bond tossico. 
Perché il protagonista non mi ha convinto, mi è sfuggito tra le mani, non mi ha permesso di identificarmi né di provare qualche emozione per lui.
Perché ho sobbalzato N volte leggendo di strumenti tecnologici drammaticamente simili ai nostri, tenendo conto che - ahimé - le guerre sono state le levatrici del progresso teconologico e in un ipotetico 2014 senza guerre mondiali le condizioni della tecnologia sarebbero quantomeno molto diverse. 
E i pregi? 
Lo stile, innanzitutto - anche merito dell'ottima traduzione di Chiara Reali - rapido, penetrante, suggestivo e il luogo della vicenda, El Iskandrya, ovvero Alessandria, narrata con la pazienza e la passione degne delle pagine migliori di una guida lonely planet. E non sto scherzando.
In ogni caso la mia fiducia in zona42 resta salda e sicura. Nemmeno la mitica editrice Nord di Giancarlo Viviani riusciva sempre a soddisfare le mie aspettative. 
Sono un tipo difficile, lo so, e ho gusti complicati.
...
Ultimo di questo giro La ballata di Adam Henry di Ian McEwan. 
Mi è piaciuto? 
Calma, un momento.
La vicenda, innanzitutto. 
Protagonista Fiona Maye, giudice dell'Alta Corte in servizio alla Sezione Famiglia. Fiona Maye è, come tutte le persone che svolgono un lavoro di responsabilità, assolutamente innamorata del suo compito, tanto da trascurare il marito, al quale non concede neppure una breve parentesi carnale di tanto in tanto. Così il consorte una domenica pomeriggio le comunica che, dal momento che ora ha un'altra e che tra loro sono passate sei settimane senza sesso, si trasferirà senz'altro dall'altra a meno che il signor Giudice non ammetta che il sesso è mancato un pochino anche a lei.
Fiona, stupita e rabbiosa, non ammette proprio nulla e così prima che la domenica sia finita si ritrova sola in una casa troppo grande. 
Il giorno dopo Fiona fa sostituire la serratura del loro appartamento rendendolo il suo appartamento - proprio ciò che sconsiglia sempre a marito e moglie che appaiono davanti a lei - e si dedica con ancor maggior impegno al suo lavoro. 
Il caso sul quale è chiamata a pronunciarsi è quello di un giovane testimone di Geova che, spalleggiato dai genitori, rifiuta ogni genere di trasfusione, nonostante sia stato colpito da una leucemia la cui terapia prevede la necessità di essere trasfuso. Il giudice ascolta i genitori, gli avvocati, fa una visita al paziente e alla fine emette il suo verdetto: il giovane Adam Henry dovrà subire trasfusioni per motivi di sopravvivenza, indipendentemente dalla sua volontà e da quella dei genitori. 
Passano alcuni giorni e il marito di Fiona ritorna a casa. L'altra donna è stata una delusione e in definitiva lui ama lei e non l'altra. Come due cani i due si annusano diffidenti, decidono di tornare insieme sia pure per prova e Fiona dà al marito copia delle chiavi di casa.
Intanto il giudice riceve lettere su lettere del giovane Adam. Questi è guarito, ha spezzato ogni legame con i testimoni di Geova ed è pieno di stima, di considerazione, perfino di affetto per Fiona, che ha più o meno tre volte i suoi anni. 
Ed è il tema dell'affetto, inarrestabile, incontenibile, insostenibile del giovane Adam a diventare il centro del libro, mettendo la povera Fiona in una situazione anche peggiore di quella vissuta con il marito. Man mano la passione di Adam cresce diventando una sorta di stalking al quale il disgraziato giudice non sa come reagire. 
Raccontare l'ultima parte del libro risulterebbe una forma di spoiling inaccettabile e quindi me ne astengo. Mi limiterò a osservare che se per tre quarti il libro risulta appassionante nel raccontare il personaggio di Fiona, la sua infanzia, le sue passioni, la difficoltà e le gioie del suo lavoro e nel descrivere i meccanismi interni del diritto e della giustizia, finisce per precipitare troppo rapidamente nell'ultima parte, lasciando il lettore perplesso e sconcertato. 
«Ma McEwan ha perso la voglia di scrivere?», è la domanda più ovvia che viene in mente ed è ovviamente troppo elementare per un autore come lui. Il dubbio che assale il lettore, una volta passata la sensazione di sconcerto, è che McEwan abbia voluto mettere a confronto i sogni coraggiosi ma destinati al fallimento del giovane poeta Adam con la disillusione e le paure degli «albori della vecchiaia» di Fiona. La sensazione di vuoto e di sottile disperazione che l'assale di fronte al fallimento apparente del suo matrimonio è poca cosa in rapporto al panico creato in lei da ciò che le chiede il giovane Adam. I due personaggi sono destinati a non potersi comprendere, quasi a rappresentare le fatali ambiguità e le impossibilità intrinseche ad ogni rapporto umano. 
In sostanza La Ballata di Adam Henry mi è piaciuto e lo consiglio a chi conosce e apprezza Ian McEwan, pur tenendo conto dell'amarezza intensa del suo testo.
...
E per questa volta ho finito. 
Sono riuscito a sgombrare (parzialmente) la scrivania, anche se prevedo che tra non molto dovrò tornare a scrivere di libri. Per esempio del libro di Vincent Spasaro, 600 pagine delle quali ne ho letto più o meno la metà, l'e-book di Fabio Lastrucci e quello di Elisabetta Chicco Vitzizzai, l'ultimo Murakami... a presto!    


12.1.15

Un brutto inizio



Il 2015 è iniziato nel modo peggiore. Non che non fosse in qualche modo prevedibile, vista la situazione in Medio Oriente e in Europa, ma comunque profondamente traumatizzante.
Traumatizzante per la sensazione avvertita da tutti di trovarsi nel mezzo del campo di battaglia e non - come d'abitudine - stravaccati davanti alla TV. Questa volta ci sono mancate le immagini in diretta: niente aerei che si schiantano né grattacieli che crollano, ma una sinistra e inquietante vicinanza e familiarità di luoghi e di persone: la ragazza delle pulizie, il poliziotto ammazzato sul marciapiede e gli ostaggi stirati nella macelleria kosher mentre fanno acquisti.
«Je suis Charlie», abbiamo ripetuto in molti anche se non pochi hanno fatto osservare che - in fondo - un po' se l'erano cercata, quei là, che ad aver a che fare con i mussulmani è normale che finisca a colpi di scimitarra. O di kalashnikov AK 47. 
No. Non sono d'accordo. 
Il rischio reale è quello di diventare un po' meno liberi. 
Di autocensurarci nel nome di un quieto vivere che ricorda molto quello di chi viveva accanto ai campi di sterminio ed era diventato bravissimo a girare la testa quando passavano i treni dei deportati o i camion coi prigionieri. 
Posso decidere di non acquistare Charlie Hebdo se le vignette su Gesù Cristo, sul papa o su Maometto mi irritano, posso invitare i miei amici a fare altrettanto, posso non sostenere la casa editrice che lo pubblica, posso distribuire volantini che invitino a non comprarlo... posso fare centinaia di cose, tutte perfettamente legali e perfettamente possibili. 
Ma non posso agire fisicamente contro i disegnatori. La legge - grazie al cielo - non lo permette. Posso al massimo augurarmi che il giornale finisca per chiudere per le scarse vendite. 
Il dubbio che assale è che Charlie Hebdo fosse semplicemente un simbolo, un facile bersaglio per un Shari'a autoproclamata, concepita per scatenare il panico, per rendere la vita dei musulmani in Francia e in Europa più dura, più complicata, meno vivibile. Ogni proiettile dei Kalashnikov fa aumentare di mille voti Madame Le Pen o mister Salvini, crea malanimo, incomprensioni, rancori, intolleranze. Ciò che i fondamentalisti si augurano: creare una guerra casa per casa, un'intolleranza attiva che scateni la paura, la disperazione e conseguentemente la rabbia dei musulmani.
Una situazione insostenibile, indubbiamente suggestiva per i fondamentalisti e per i radicali di destra, ma intollerabile per chiunque voglia vivere in un mondo decente. 
Ciò cui siamo chiamati, nella vita d'ogni giorno, è resistere in ogni modo ai fondamentalismi religiosi - indipendentemente dalla fede professata - come a chi fa appello alla paura del diverso per guadagnare spazio e visibilità mei media e nella società, resistere anche ridicolizzandoli, sbertucciandoli, ridendone. 
Non è un compito da poco.  
Una grande manifestazione come quella di ieri a Parigi può darci coraggio, rendere più fermo il nostro impegno, farci sentire meno soli ma la responsabilità rimane nostra.


...
Sono stato poco presente in questi ultimi venti giorni. Le vacanze di natale, certo, ma anche il doppio ricovero in clinica di mia madre - che ora sta bene - e altri piccoli e grandi impegni. Ho scritto, grazie al cielo, ma ho dovuto rimandare mille altre cose e ritardarne altre. Per il futuro spero di riuscire a essere un po' presente, magari persino riuscire a scrivere due parole sui libri letti. Rispondere alla minaccia di intervista piovutami sulla testa, terminare la serie di articoli che ho chiamato "delusioni" e inventare qualcos'altro. Sperando che l'anno che comincia non continui com'è iniziato.  

Manifestazione del Front National. Ehm... ma a voi non sembrano irrimediabilmente brutti?

8.1.15

Charlie Hebdo


Non c'è molto da aggiungere. 
Nessuno dovrebbe diventare eroe suo malgrado e noi che siamo testimoni non possiamo restare inerti e silenziosi. È già accaduto una volta e non possiamo permettere che accada ancora.
Proprio per questo oggi mi sento Charlie anche per conto del mio amico Mustafà, di sua moglie lontana e dei suoi tre figli in una via di Rabat, in Marocco.