10.7.12

Semplici inquilini


Un racconto degli anni '90, nato per una sorta di sfida o di scommessa. Scegliere un punto di vista improbabile o assurdo per raccontare una storia per altri versi del tutto normale. Accettai la sfida e produssi il racconto per il natale del '97. Un racconto un po' strano, probabilmente leggermente più angoscioso di quanto possa sembrare a raccontare la storia in poche parole. 
O almeno così mi è parso rileggendolo. 
Buona lettura a tutti.

L'uomo procede veloce sul marciapiede bagnato, rapido come un soffio di vento. Evita un passante, schiva una ragazza uscita da un negozio, appare e scompare ritagliato dai margini tesi degli ombrelli.
Senza cappello nè riparo, si fa spazio marciando sul grigio appena meno umido dell'asfalto, dove l'orlo dei tetti ha smesso da ore di fornire un rifugio efficace.
Dalla finestra non ne distingue il volto, né gli importa di riconoscerlo.
Un amante in ritardo? Un agente di commercio che ha smarrito il campionario?
Nel flusso costante di visi e corpi lo sconosciuto forma un trascurabile incidente, un evento irrilevante senza ripercussioni per nessuno. Tranne, forse, per qualche ragazza dal trucco troppo caricato che guarda ancora una volta l'orologio prima di soffiarsi il naso, la carnagione illividita dal riflesso di luce di un ombrello verde. O per qualche ladruncolo che nell'umidità di un androne traffica col coltello nella serratura dorata di una valigetta.
L'uomo porta un cappotto leggero, aderente, dal sottile disegno geometrico, scarpe opache di umidità. Sta perdendo i capelli, capelli fini, di un colore che ricorda quello delle setole di un pennello. Sicuramente ansima, sa che da un momento all'altro scivolerà e cadrà addosso a qualcuno. I passanti lo considerano con fastidio, chi lo vede si fa da parte di fretta.
Ecco, adesso è finalmente caduto. Si alza con goffa rapidità, si sforza di sorridere per rassicurare tutti delle sue condizioni. Stordito si passa la mano sul lato destro del cappotto bagnato e sporco di fango. Si osserva la mano fredda e bagnata. Riprende a camminare più lentamente, come se la caduta gli avesse restituito un po' di lucidità.
Arriva alle spalle di una donna coperta da un'ampia cerata gialla, con il cappuccio che le copre la testa. La donna si volta: il suo sguardo è nascosto dall'orlo arrotondato. Non sorride, l'uomo annuisce e mostra il cappotto macchiato. Si allontanano, insieme ma separati da un'insofferenza che con gli anni non potrà che crescere.

Si ritira dalla finestra, arretrando tra le due linee chiare di stoffa che si chiudono lentamente, come le onde di un mare giocattolo.
Sul tavolo - velluto coperto da una spessa lastra di vetro - il mappamondo.
Gira lentamente, cigola, sbanda a sinistra. Nel muoverlo si preoccupa sempre che non lasci tracce sul cristallo e non faccia rumore.
Osserva a lungo, quasi compiaciuto, l'ampia curva di mare che separa la sua patria dalle terre del nord. Irrimediabilmente lontano, dedica alle minuscole scritte sulla superficie curva tutta la sua attenzione. Le conosce una per una, le incolonna nel pensiero a formare un'unica lunghissima parola che rappresenta tutta la sua vita. Eppure i nomi sono soltanto nomi, casuali incroci di lettere e suoni, e sempre più spesso scopre che non riescono più a evocare in lui nessuna immagine.

Thi...ra, dalle strade ampie, con i lampioni a forma di campana e le piazze ricche di portici.
Lu....ga, dalle vie strette, umide d'ombra e di odore di pesce.
Ca... la, dipinta sulle colline, i tetti rossi e le cornici delle finestre di pietra grigia.

Nomi e figure rigidamente allineati, vivi di quel po' di vita che riesce ancora a racimolare.
Quando l'ansia diventa insostenibile scivola tra le grandi tende e guarda la via che gli scorre davanti, sempre uguale e sempre diversa.

Non conosce quella città e quelle vie. O forse le ha conosciute e ora, semplicemente, non riesce più ricordarle.
Di tanto in tanto cerca di sorprendersi: scosta la tenda di scatto e guarda la città all'improvviso, inventandosi la meraviglia innocente di un viaggiatore.
Per qualche momento, quando quel gioco non era ancora divenuto un'abitudine, aveva avuto la sensazione di riconoscere e aveva sentito, insperato, un tuffo al cuore. Ma da tempo non riesce più a provare nulla di simile. Solo il ricordo di quell'unica intensa emozione, che può inutilmente richiamare quando vuole, guardando i tetti grigi e appuntiti, quasi sempre umidi, che assediano la sua finestra.
Le sue esigenze quotidiane non riescono a occuparlo per un tempo sufficiente. Vi adempie con cura testarda, ma non riescono a lasciargli una traccia durevole. Larve di piaceri, tracce di sapori: un universo di sensazioni flebili e discontinue che, ancora una volta, teme siano esclusivamente frutto di ricordi e fantasie.
Potrebbe uscire, certo, ma detesta la pioggia. E poi non è più abituato a discorrere. Il personale dell'appartamento non lo disturba, ogni sua necessità viene prontamente e abilmente soddisfatta, i tappeti sono eternamente ben spazzolati, le cristallerie invariabilmente splendenti.
Conduce una vita ordinata, metodica. Non annoiata, no annoiata non potrebbe proprio definirla. Prima aveva avuto così poco tempo per riflettere su se stesso, per tentare di sseparare i ricordi dai sogni, e poi i ricordi dei sogni dai ricordi delle cose realmente avvenute. Ora, senza nessuna fretta, può sistemare tutto in cassette bene ordinate dove pescare a piacimento.

...Una mattina passata a passeggiare sul molo di un porto mai visto prima, per esempio. Doveva essere accaduto quando per un settimana aveva accettato una rappresentanza fuori dalla sua zona abituale. Solo una settimana, se ne ricorda bene. Sì, perché gli affari erano davvero magri. La città era in piena decadenza, il porto era per metà abbandonato e in disuso. Certe cose le capiva al volo, aveva sempre avuto un certo fiuto...
Il molo, umido e screziato e verde come probabilmente tutti i moli, aveva gradini che scomparivano sotto il pelo dell'acqua. Quel giorno, ancora umido e freddo di una pioggia recente, il mare era opaco come un vecchio vassoio d'argento dimenticato in soffitta. I gradini mandavano un odore più intenso. Scendevano verso il fondo, coperti di alghe sempre più abbondanti, spettinate e lente come i capelli di un annegato.

Gli era venuta la voglia di scendere. Che era un semplice desiderio di morire. Ma non di morire per rabbia o per paura, ma solo morire per curiosità, per unirsi al ritmico silenzio delle onde. E nemmeno era poi corretto usare la parola morire. Aveva desiderato confondersi, ecco cosa avrebbe voluto dire se qualcuno glielo avesse chiesto in quel momento, discendere tutta la scalinata fino a giungere sul fondo, i polmoni che, dopo la sorpresa iniziale e il panico, si adattano a respirare l'acqua, il cervello che finalmente si svuota di tutti i ricordi della sua insopportabile unicità.
Dovrebbe poter affermare che la sua attuale situazione non manca di una sua studiata, cronologica felicità. Liberato dalle necessità più sciocche e quotidiane, può dedicarsi instancabilmente a organizzare le sue emozioni, ciò che ancora sfugge alla sua metodica enumerazione.
Il mappamondo è il vero centro dei suoi problemi. La presunzione dei suoi nomi che pedantemente si ostinano a cercare in lui ricordi inattesi diviene giorno dopo giorno più intollerabile. Eppure non riesce a resistere. Quando si leva, alle prime luci, il suo primo pensiero va alla filastrocca fatta con i nomi delle città che ha conosciuto (o di cui ha anche solamente sentito raccontare). Con stizza la recita di nuovo e poi si getta oltre le tende cercando ancora di sorprendersi. La città lo attende, fasciata di freddo. Non ricorda di averla mai vista illuminata dal sole. Solo, talvolta, un riflesso pallido nascosto dalle nubi, che ricorda la lampadina di un frigorifero.

Ultimamente gli capita di essere costretto a dividere il suo spazio con ospiti non invitati, o perlomeno non invitati da lui.
Si tratta di un uomo e una donna. Non troppo giovani, ma ancora gradevoli.
Talvolta con loro c'è un bambino. Si siedono sul divano, foderato di raso a righe rosa e bianche. Negli spazi bianchi vi sono piccoli trionfi floreali che richiamano lo stesso rosa. Il bambino gioca con alcuni cavalieri che porta con sè in una scatola foderata di stoffa turchina. I suoi genitori parlano tra loro solo ogni tanto.

Lui si siede di fronte a loro e li osserva.
Vorrebbe che capissero che la loro presenza non è gradita.
Solleva lo sguardo ogni tanto per fissarli, interrompendo la sua instancabile enumerazione.
Lo ignorano con uno scrupolo che verrebbe da definire ammirevole.

Non riesce a ricordare che una volta sia avvenuto qualcosa di diverso, tra loro. Qualche volta c'è il bambino, altre no, qualche volta parlano, qualche altra, quando sono soli, si abbracciano e si palpano simulando passione. Ansimano e si ricompongono in fretta, quasi imbarazzati. Sono poche situazioni, sempre identiche. Si ripetono con una regolarità che forse riuscirebbe a cogliere se mai riuscisse a capirli, quando parlano.
Sa che si esprimono in una lingua per lui comprensibile: le inflessioni, i toni, gli paiono assolutamente intellegibili. Eppure borbottii e scoppi di voce non riescono mai a organizzarsi in un discorso coerente. Scivolano via, come i pasti che non riesce a ricordare - eppure sa di non avere né fame né sete - come le scene viste dalla finestra, come i volti del personale di servizio, con la divisa blu scuro e le grandi cuffie bianche.

Gli è capitato di battere le mani, schiarirsi la voce, quando la visita si prolungava eccessivamente. Persino di sospendere la catalogazione dei ricordi per fissarli con uno sguardo che si augurava risultasse - certo - impaziente, ma anche ironicamente tollerante, quasi bonario.
Ma non quando si abbandonano alle loro effusioni. In quei casi si rifugia oltre le tende e ritorna nella sua stanza solo quando i due hanno terminato.
La coppia non sembra comprendere i suoi delicati richiami. Fissa le pareti, il muro dietro di lui. Lei protesta che fa freddo, cosa assolutamente ridicola, e dopo qualche segno di malumore se ne vanno in un'altra stanza.
Solo il bambino sembra capire. In qualche occasione stupirsi. Una volta è giunto a dire: vuole che ce ne andiamo...
Ricorda come hanno sorriso, allora. Un sorriso tiepido, dolciastro, carico dell'inutile, stupido orgoglio di essere divenuti - senza alcun merito proprio - adulti.
... Ma cosa dici? Non abita nessuno qui, da tanto tempo...



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