Un racconto degli anni '90, nato per una sorta di sfida o di scommessa. Scegliere un punto di vista improbabile o assurdo per raccontare una storia per altri versi del tutto normale. Accettai la sfida e produssi il racconto per il natale del '97. Un racconto un po' strano, probabilmente leggermente più angoscioso di quanto possa sembrare a raccontare la storia in poche parole.
O almeno così mi è parso rileggendolo.
Buona lettura a tutti.
L'uomo procede veloce sul marciapiede
bagnato, rapido come un soffio di vento. Evita un passante, schiva
una ragazza uscita da un negozio, appare e scompare ritagliato dai
margini tesi degli ombrelli.
Senza cappello nè riparo, si fa spazio
marciando sul grigio appena meno umido dell'asfalto, dove l'orlo dei
tetti ha smesso da ore di fornire un rifugio efficace.
Dalla finestra non ne distingue il
volto, né gli importa di riconoscerlo.
Un amante in ritardo? Un agente di
commercio che ha smarrito il campionario?
Nel flusso costante di visi e corpi lo
sconosciuto forma un trascurabile incidente, un evento irrilevante
senza ripercussioni per nessuno. Tranne, forse, per qualche ragazza
dal trucco troppo caricato che guarda ancora una volta l'orologio
prima di soffiarsi il naso, la carnagione illividita dal riflesso di
luce di un ombrello verde. O per qualche ladruncolo che nell'umidità
di un androne traffica col coltello nella serratura dorata di una
valigetta.
L'uomo porta un cappotto leggero,
aderente, dal sottile disegno geometrico, scarpe opache di umidità.
Sta perdendo i capelli, capelli fini, di un colore che ricorda quello
delle setole di un pennello. Sicuramente ansima, sa che da un momento
all'altro scivolerà e cadrà addosso a qualcuno. I passanti lo
considerano con fastidio, chi lo vede si fa da parte di fretta.
Ecco, adesso è finalmente caduto. Si
alza con goffa rapidità, si sforza di sorridere per rassicurare
tutti delle sue condizioni. Stordito si passa la mano sul lato destro
del cappotto bagnato e sporco di fango. Si osserva la mano fredda e
bagnata. Riprende a camminare più lentamente, come se la caduta gli
avesse restituito un po' di lucidità.
Arriva alle spalle di una donna coperta
da un'ampia cerata gialla, con il cappuccio che le copre la testa. La
donna si volta: il suo sguardo è nascosto dall'orlo arrotondato. Non
sorride, l'uomo annuisce e mostra il cappotto macchiato. Si
allontanano, insieme ma separati da un'insofferenza che con gli anni
non potrà che crescere.
Si ritira dalla finestra, arretrando
tra le due linee chiare di stoffa che si chiudono lentamente, come le
onde di un mare giocattolo.
Sul tavolo - velluto coperto da una
spessa lastra di vetro - il mappamondo.
Gira lentamente, cigola, sbanda a
sinistra. Nel muoverlo si preoccupa sempre che non lasci tracce sul
cristallo e non faccia rumore.
Osserva a lungo, quasi compiaciuto,
l'ampia curva di mare che separa la sua patria dalle terre del nord.
Irrimediabilmente lontano, dedica alle minuscole scritte sulla
superficie curva tutta la sua attenzione. Le conosce una per una, le
incolonna nel pensiero a formare un'unica lunghissima parola che
rappresenta tutta la sua vita. Eppure i nomi sono soltanto nomi,
casuali incroci di lettere e suoni, e sempre più spesso scopre che
non riescono più a evocare in lui nessuna immagine.
Thi...ra, dalle strade ampie, con i
lampioni a forma di campana e le piazze ricche di portici.
Lu....ga, dalle vie strette, umide
d'ombra e di odore di pesce.
Ca... la, dipinta sulle colline, i
tetti rossi e le cornici delle finestre di pietra grigia.
Nomi e figure rigidamente allineati,
vivi di quel po' di vita che riesce ancora a racimolare.
Quando l'ansia diventa insostenibile
scivola tra le grandi tende e guarda la via che gli scorre davanti,
sempre uguale e sempre diversa.
Non conosce quella città e quelle vie.
O forse le ha conosciute e ora, semplicemente, non riesce più
ricordarle.
Di tanto in tanto cerca di
sorprendersi: scosta la tenda di scatto e guarda la città
all'improvviso, inventandosi la meraviglia innocente di un
viaggiatore.
Per qualche momento, quando quel gioco
non era ancora divenuto un'abitudine, aveva avuto la sensazione di
riconoscere e aveva sentito, insperato, un tuffo al cuore. Ma da
tempo non riesce più a provare nulla di simile. Solo il ricordo di
quell'unica intensa emozione, che può inutilmente richiamare quando
vuole, guardando i tetti grigi e appuntiti, quasi sempre umidi, che
assediano la sua finestra.
Le sue esigenze quotidiane non riescono
a occuparlo per un tempo sufficiente. Vi adempie con cura testarda,
ma non riescono a lasciargli una traccia durevole. Larve di piaceri,
tracce di sapori: un universo di sensazioni flebili e discontinue
che, ancora una volta, teme siano esclusivamente frutto di ricordi e
fantasie.
Potrebbe uscire, certo, ma detesta la
pioggia. E poi non è più abituato a discorrere. Il personale
dell'appartamento non lo disturba, ogni sua necessità viene
prontamente e abilmente soddisfatta, i tappeti sono eternamente ben
spazzolati, le cristallerie invariabilmente splendenti.
Conduce una vita ordinata, metodica.
Non annoiata, no annoiata non potrebbe proprio definirla. Prima
aveva avuto così poco tempo per riflettere su se stesso, per tentare
di sseparare i ricordi dai sogni, e poi i ricordi dei sogni dai
ricordi delle cose realmente avvenute. Ora, senza nessuna fretta, può
sistemare tutto in cassette bene ordinate dove pescare a piacimento.
...Una mattina passata a passeggiare
sul molo di un porto mai visto prima, per esempio. Doveva essere
accaduto quando per un settimana aveva accettato una rappresentanza
fuori dalla sua zona abituale. Solo una settimana, se ne ricorda
bene. Sì, perché gli affari erano davvero magri. La città era in
piena decadenza, il porto era per metà abbandonato e in disuso.
Certe cose le capiva al volo, aveva sempre avuto un certo fiuto...
Il molo, umido e screziato e verde
come probabilmente tutti i moli, aveva gradini che scomparivano sotto
il pelo dell'acqua. Quel giorno, ancora umido e freddo di una pioggia
recente, il mare era opaco come un vecchio vassoio d'argento
dimenticato in soffitta. I gradini mandavano un odore più intenso.
Scendevano verso il fondo, coperti di alghe sempre più abbondanti,
spettinate e lente come i capelli di un annegato.
Gli era venuta la voglia di scendere.
Che era un semplice desiderio di morire. Ma non di morire per rabbia
o per paura, ma solo morire per curiosità, per unirsi al ritmico
silenzio delle onde. E nemmeno era poi corretto usare la parola
morire. Aveva desiderato confondersi, ecco cosa avrebbe voluto dire
se qualcuno glielo avesse chiesto in quel momento, discendere tutta
la scalinata fino a giungere sul fondo, i polmoni che, dopo la
sorpresa iniziale e il panico, si adattano a respirare l'acqua, il
cervello che finalmente si svuota di tutti i ricordi della sua
insopportabile unicità.
Dovrebbe poter affermare che la sua
attuale situazione non manca di una sua studiata, cronologica
felicità. Liberato dalle necessità più sciocche e quotidiane, può
dedicarsi instancabilmente a organizzare le sue emozioni, ciò che
ancora sfugge alla sua metodica enumerazione.
Il mappamondo è il vero centro dei
suoi problemi. La presunzione dei suoi nomi che pedantemente si
ostinano a cercare in lui ricordi inattesi diviene giorno dopo giorno
più intollerabile. Eppure non riesce a resistere. Quando si leva,
alle prime luci, il suo primo pensiero va alla filastrocca fatta con
i nomi delle città che ha conosciuto (o di cui ha anche solamente
sentito raccontare). Con stizza la recita di nuovo e poi si getta
oltre le tende cercando ancora di sorprendersi. La città lo attende,
fasciata di freddo. Non ricorda di averla mai vista illuminata dal
sole. Solo, talvolta, un riflesso pallido nascosto dalle nubi, che
ricorda la lampadina di un frigorifero.
Ultimamente gli capita di essere
costretto a dividere il suo spazio con ospiti non invitati, o
perlomeno non invitati da lui.
Si tratta di un uomo e una donna. Non
troppo giovani, ma ancora gradevoli.
Talvolta con loro c'è un bambino. Si
siedono sul divano, foderato di raso a righe rosa e bianche. Negli
spazi bianchi vi sono piccoli trionfi floreali che richiamano lo
stesso rosa. Il bambino gioca con alcuni cavalieri che porta con sè
in una scatola foderata di stoffa turchina. I suoi genitori parlano
tra loro solo ogni tanto.
Lui si siede di fronte a loro e li
osserva.
Vorrebbe che capissero che la loro
presenza non è gradita.
Solleva lo sguardo ogni tanto per
fissarli, interrompendo la sua instancabile enumerazione.
Lo ignorano con uno scrupolo che
verrebbe da definire ammirevole.
Non riesce a ricordare che una volta
sia avvenuto qualcosa di diverso, tra loro. Qualche volta c'è il
bambino, altre no, qualche volta parlano, qualche altra, quando sono
soli, si abbracciano e si palpano simulando passione. Ansimano e si
ricompongono in fretta, quasi imbarazzati. Sono poche situazioni,
sempre identiche. Si ripetono con una regolarità che forse
riuscirebbe a cogliere se mai riuscisse a capirli, quando parlano.
Sa che si esprimono in una lingua per
lui comprensibile: le inflessioni, i toni, gli paiono assolutamente
intellegibili. Eppure borbottii e scoppi di voce non riescono mai a
organizzarsi in un discorso coerente. Scivolano via, come i pasti che
non riesce a ricordare - eppure sa di non avere né fame né sete -
come le scene viste dalla finestra, come i volti del personale di
servizio, con la divisa blu scuro e le grandi cuffie bianche.
Gli è capitato di battere le mani,
schiarirsi la voce, quando la visita si prolungava eccessivamente.
Persino di sospendere la catalogazione dei ricordi per fissarli con
uno sguardo che si augurava risultasse - certo - impaziente, ma anche
ironicamente tollerante, quasi bonario.
Ma non quando si abbandonano alle loro
effusioni. In quei casi si rifugia oltre le tende e ritorna nella sua
stanza solo quando i due hanno terminato.
La coppia non sembra comprendere i suoi
delicati richiami. Fissa le pareti, il muro dietro di lui. Lei
protesta che fa freddo, cosa assolutamente ridicola, e dopo qualche
segno di malumore se ne vanno in un'altra stanza.
Solo il bambino sembra capire. In
qualche occasione stupirsi. Una volta è giunto a dire: vuole che
ce ne andiamo...
Ricorda come hanno sorriso, allora. Un
sorriso tiepido, dolciastro, carico dell'inutile, stupido orgoglio di
essere divenuti - senza alcun merito proprio - adulti.
... Ma cosa dici? Non abita nessuno
qui, da tanto tempo...
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