14.6.22

Letture varie & disordinate

È passato abbastanza tempo dall'ultima volta che ho scritto di libri in queste pagine e nel frattempo, com'è ovvio, ho letto non poco. Adesso, avendo cambiato casa, non ho più una pila di libri che pencolano su un angolo della scrivania – dove adesso traballa la pila dei libri da leggere "presto" –, ma uno scaffale d'angolo dove deporre i libri letti. A questo punto siamo a… quattordici tomi, che essendo lo scaffale piccolo (vedi foto) rischiano di precipitare giù. 
 

A questo punto diventa non solo importante (importante, poi, papparapappà) ma addirittura urgente parlare almeno di sei o sette libri tra quelli letti. 
Da dove iniziare? Beh, con un megavolume edito da Orma, letto con una certa fatica, soprattutto in posizione orizzontale, scritto con un carattere 10 (e le note in corpo 8) e che costituisce il volume quinto della la collana "Hoffmanniana", dedicata ad uno dei miei miti personali: Ernest Theodor Amadeus[*] Hoffmann. 
Il volume – primo tomo del volume completo – raccoglie i testi nati con «I fratelli di Serapione», un modo di procedere che ha illustri precedenti – basti pensare ai Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer o al Decameron di Giovanni Boccaccio – ovvero una serie di vicende narrate da un gruppo di amici: i Fratelli di Serapione.   
Tra queste appaiono alcune delle più note novelle di Hoffmann, «Il consigliere Krespel», «Schiaccianoci e il re dei topi», «Gli automi», «Una storia di fantasmi», «Il bambino misterioso». 
Ma, oltre alle novelle maggiori, la sorpresa che il volume riserva è nelle piccole storie che vi appaiono, vicende che sono sicuramente "minori" ma che hanno il grande pregio di regalarci il punto di vista di Hoffmann sulla realtà del suo tempo. Su Napoleone e sulla guerra in atto, sulla musica e sui musicisti dell'epoca, sull'arte, la pittura e gli artisti, sul romanticismo – del quale Hoffmann fu uno dei maggiori rappresentanti – e sulla scienza dell'epoca: dal mesmerismo, fenomeno di gran moda all'inizio del XIX secolo, alla neonata psicologia fino alla pedagogia – pochi scrittori sono così nettamente e radicalmente dalla parte dei bambini. 
 

Altrettanto godibili gli intervalli tra una storia e l'altra narrati dagli amici, i "Fratelli di Serapione", Lothar, Ottmar, Cyprian e Theodor, in alcune occasioni anch'essi divenuti protagonisti di qualche novella raccontata davanti al fuoco. 
Il volume si segnala anche per l'accuratissima traduzione e revisione dei testi, con un livello di precisione e di attenzione che giunge in qualche occasione a spiegare talune scelte lessicali, grammaticali o fonetiche di Hoffmann – fascino che temo sarà inesistente per chi non conosce o non ama la lingua di Goethe – e per le immagini raccolte al centro del testo, tutte in qualche modo legate ai testi presentati. 
A colpire in modo particolare, tuttavia, è il piacere di Hoffmann nel renderci complici della sua sottile cattiveria, del suo gusto per il rovesciamento di senso e per lo sberleffo della pubblica morale, per il piacere di narrare da un punto di vista strettamente personale, mettendo in scena mondi ulteriori, tanto assurdi da poter rientrare di diritto in qualsiasi elenco psichiatrico, e di muovere al sorriso anche raccontando di spaventevoli tragedie e di orripilanti peccati. 
Davvero curioso, comunque, il modo nel quale Hoffmann presenta la passione amorosa, raccontata come un'affezione al limite della malattia mentale, qualcosa che paralizza, che rende ciechi e folli, che impedisce di comprendere realmente che cosa sta avvenendo e perché. Un amore "romantico", si direbbe, se non fosse che lo stesso autore ha modi lievemente ironici nel raccontare la follia d'amore, dandone una raffigurazione in qualche modo oggettiva, pur senza mai diventare sarcastica e mostrando partecipazione e un pudico affetto per i suoi personaggi.
Ultimo particolare per il quale è doverosa una precisazione: l'apparato di commento e di note risulta davvero impressionante. Così lo descrive Matteo Galli, il curatore, nella sua introduzione: 
 
Nel gennaio del 2016 […] inviai a una settantina di accademici una mail in cui chiedevo la disponibilità a tradurre e curare uno al massimo due dei racconti che compongono I fratelli di Serapione. […] Ricevetti una valanga di risposte. Colleghe e colleghi – professori ordinari, associati, in pensione, ricercatori, assegnisti, contrattisti, dottorandi: un bel pezzo della germanistica italiana, dunque – si dichiararono con entusiasmo e generosità disposti a collaborare al progetto.
 
E di questo entusiasmo vive il testo, nel gran numero  e impressionante ricchezza delle note al testo e nelle lunghe note di apertura che presentano il testo e la traduzione. Unica osservazione finale, con un consiglio: leggete separatamente il testo e le note al testo: si tratta letteralmente di due testi che procedono paralleli e leggere le note prima o dopo la novella non vi renderà impazienti o esasperati e non vi capiterà di saltarle bellamente come è capitato a me… 
...


Passiamo adesso a due (2) gialli, un genere che non amo follemente ma che non mi dispiace ogni tanto frequentare. 
Ma anche parlando di gialli, è inevitabile per me andare un po' fuori dalle righe. Infatti il primo che presenterò è in realtà un romanzo basato su un tema ucronico: SS-GB I nazisti occupano Londra di Len Deighton, [ed. or. 1978], e il secondo è 1793 di Niklas Natt Och Dag [ed.or. 2017], ambientato nella Stoccolma della fine del XVII secolo. Non molto a che vedere con il poliziesco classico o con il noir contemporaneo, me ne rendo conto, ma sono sempre stato affascinato dall'ambiente nel quale i gialli maturano più che dai moventi dell'assassino o dai modi di procedere dell'investigatore.
Il romanzo di Deighton ha un'ambientazione ovviamente fantastica, ma un "fantastico" con salde radici nel reale. Come in tutti i testi di ucronia il romanzo è basato su un dato di fatto possibile – anche se non realmente accaduto – ovvero l'invasione della Gran Bretagna da parte dei nazisti nel corso della Seconda Guerra Mondiale e la situazione degli inglesi in seguito all'invasione. 
Protagonista Douglas Archer, ispettore di Scotland Yard affiancato dal suo sergente, Harry Woods, – entrambi sottoposti a un capo dell'intero sistema poliziesco: il Gruppenführer SS (generale) Fritz Kellerman.
A sorprendere nel romanzo di Deighton è il punto di vista di Archer, che, pur senza esserne entusiasta, accetta come un dato di fatto l'occupazione tedesca e cerca innanzi tutto di continuare onorevolmente il suo lavoro. Il vero problema, come l'ispettore presto scoprirà, è che il caso al quale sta lavorando – la morte di un antiquario dedito anche a traffici non del tutto legali – finirà per coinvolgerlo in una complessa vicenda, che riguarda il suo capo, Fritz Kellerman, lo Standardenfürher Huth dell'ufficio centrale per la sicurezza di Heinrich Himmler, l'SD, l'Abwehr e la [Ge]heim [Sta]at [Po]lizei, la presenza e le iniziative della resistenza britannica, gli agenti segreti americani, i fisici dediti allo studio di una misteriosa "nuova arma" e il Re Giorgio VI, da liberare e condurre negli USA. Ovviamente mantenere la barra a dritta in un simile intreccio di poteri e di manovre più o meno palesi o evidenti non è facile e la sensazione è che talvolta Deighton non sia riuscito a tenere insieme la successione degli eventi e le vicende del suo protagonista, chiamato a scelte via via più complesse. Nell'insieme, comunque, un testo gradevole anche se a tratti affannoso e con un numero talvolta eccessivo di personaggi dai tratti non abbastanza definiti. Da notare che comunque l'autore non ha voluto calcare la mano sul tema della persecuzione razziale a carico di ebrei e altre minoranze, probabilmente ritenendo che una Germania nazista vincente non avrebbe voluto condurre in porto la Soluzione Finale del problema ebraico, decisa nella realtà a Wannsee il 20 gennaio del 1942. Personalmente, avendo presente l'approccio di Adolf Hitler alle teorie antisemite, vissute come condizioni irrinunciabili per un futuro degno del Volk, ovvero degli ariani, mi permetto di avanzare qualche dubbio in proposito e, parlando per pura ipotesi, temo che il nazismo avrebbe tratto forza e maggiore convinzione da un'ipotetica vittoria contro la Gran Bretagna. Ma, per l'appunto, si tratta di semplici ipotesi. 
... 
 


1793 è ambientato nella Svezia della fine del XVIII secolo, l'anno successivo alla morte di Gustavo III, con il paese tormentato da una guerra sotterranea tra la nobiltà e la borghesia, sostenitrice del Ricksdag – gli stati generali svedesi – e governata da Gustav Adolf Reuterholm durante il periodo della reggenza, con il nuovo re, Gustavo IV Adolfo, che all'epoca aveva soltanto 14 anni.
Protagonisti della vicenda sono Mickel Cardell, «un reduce dalla guerra contro la Russia che, nonostante abbia lasciato il braccio sinistro sul campo di battaglia, possiede ancora una forza quasi sovrumana» e Cecil Winge, «geniale procuratore ormai consumato dalla tisi»**. 
La vicenda si apre con il ritrovamento nel quartiere di Södermalm di un cadavere orrendamente mutilato.  A ritrovarlo è Cardell che, faticosamente, lo ripesca dalle acque fangose del Fatburen.
A occuparsi delle indagini viene incaricato Cecil Winge, un ottimo procuratore, anche se non particolarmente amato dai dirigenti, e colpito da una tisi molto avanzata, cosa che non gli impedirà comunque di svolgere, anche se con non poche difficoltà, il suo lavoro. Già perché la Svezia sotto il governo di Reuterholm è un luogo siffatto: 

«Dovete tenere a mente che i requisiti più importanti per quel lavoro sono un'irriducibile fedeltà al regime attuale, accompagnata dalla tendenza al servilismo e all'adulazione.»

Ciò che man mano emerge faticosamente dalle indagini è la compromissione di una delle famiglie più in vista nella Svezia dell'epoca e che il colpevole dell'allucinante omicidio, lo ha compiuto per cancellare il peccato di una passione imperdonabile.
Un giallo affascinante per il tema e l'ambiente – sia pure con qualche passaggio un po' prolisso – e con due personaggi che non è facile dimenticare ma con alcuni difetti (ovviamente secondo la mia personale sensibilità) che è altrettanto difficile rimuovere. Lo sforzo dell'autore di presentare la vita quotidiana nella Svezia dell'epoca lo porta talvolta a sottolineare in maniera eccessiva la brutalità endemica di alcuni ambienti, la sporcizia e l'incuria nella vita di ogni giorno, l'ubriachezza condotta a regola di vita, la rabbia che cova disordinatamente sotto la cenere, i soprusi compiuti dalle autorità costituite, il malaffare, la corruzione e la sostanziale disonestà di chiunque occupi una carica pubblica. Il quadro che ne deriva è quello di una società insieme falsa, bigotta e disperata. Jean Michel Cardell, per gli amici Mickel, appare così talvolta una sorta di sfortunato castigamatti in un mondo incapace di distinguere il giusto dall'ingiusto. In quanto a Winge, rappresentato nella parte finale della propria vita, è un investigatore dotato di un'etica cristallina e davvero geniale, capace di fingere o di mentire in nome di un livello più alto di giustizia, ma evidentemente destinato a una fine prematura.
Il romanzo, obbligato dalle premesse e dall'intreccio a giungere a rappresentare l'orrore puro, deve rialzare costantemente la gravità dei peccati commessi fino a mettere in scena un dramma probabilmente troppo carico di sangue e di orrore per risultare credibile fino in fondo. Lo so, c'è un problema di "sospensione di incredulità" e in questo devo ammettere la mia insufficienza di lettore. Preferisco non esprimere giudizi in merito, lasciando ai lettori il compito non facile di stabilire la necessità di taluni passaggi. In ogni caso non posso che plaudire lo sforzo, avvertibile senza difficoltà in mille episodi, sull'informazione storica e sociale, tali da riuscire a rappresentare una città come Stoccolma nel suo momento particolare e nel suo divenire storico. 
... 

La chiocciola sul pendio, di Arkadij e Boris Strugackij, è stato pubblicato per la prima volta nel 1966 e (meritoriamente) ripresentato in Italia da Carbonio editore, «considerato dai fratelli Strugackij il loro romanzo più completo e significativo»***.
Il testo si apre con Perec, un anonimo impiegato in attesa di traferimento dall'Ispettorato per gli Affari della Foresta, entità burocratica dalle attività e finalità oscure, costruita a strapiombo sulla Foresta, così descritta:
 
… Le verdi paludi bollenti, i pavidi alberi nevosi, le rusalki che si riposano sulla superficie delle acque, sotto la luna […], gli aborigeni enigmatici e circospetti, i villaggi deserti…

Foresta nella quale, a quanto pare, nessuno di coloro che lavorano all'Ispettorato è mai andato, limitandosi a parlarne o a disquisirne con apparente competenza. 
Segue l'apparizione di Kandid, cittadino di uno dei villaggi della foresta, a quanto pare altrettanto deciso ad andarsene per raggiungere una fantomatica città, forse posta su una collina o forse no, ma comunque al di fuori della cinta del grande bosco. 
Le vicende di Perec (cognome a suo modo indicativo, cfr. Vita, istruzioni per l'uso) e di Kandid – voltairiano, se vogliamo – si inseguono capitolo dopo capitolo, in due storie parallele che non procedono in nessuna direzione, senza che nessuno dei due riesca ad allontanarsi davvero dal luogo nel quale si trova ma, come in certi sogni tormentosi, continuando a essere interrotti o deviati facendo incontri inattesi o sorprendenti ma anche assurdi, insulsi o deteriori, ad ascoltare storie incredibili o dementi, a doversi misurare con eventi improbabili o oggetti nati da una fantasia malata o felicemente demente. Il romanzo si rivela così un delizioso monociclo inchiodato, sul quale è possibile pedalare a perdifiato senza giungere da nessuna parte, una felicissima metafora dell'URSS degli anni '60, tesa in una corsa a perdifiato per non andare in nessun luogo, we all road to nowhere, come cantavano i Talking Heads. E il peso di una burocrazia terrificante si respira ad ogni capoverso del testo, unendo affermazioni e dichiarazioni tuonitruanti alla mancanza di mezzi e di soluzioni o alla semplice affermazione dell'assurdo come strumento di potere. 

[…] Ma l'originale sì che contiene questo movimento temporale! Il vettore! La freccia del tempo […]
"Dov'è, dunque l'originale?" Chiese cortese Perec. 
Il direttore sorrise e disse: 
"L'originale, naturalmente, è stato distrutto in quanto opera d'arte che non permette una duplice interpretazione. Sia la prima che la seconda copia sono state ugualmente distrutte, come misura precauzionale".
 
Le cose non vanno meglio per Kandid, perseguitato da non meglio identificati morti viventi, oltre che da una fauna / flora invadente e pericolosa – spesso la distinzione tra piante e animali scompare – e da una moglie vittimista e inconcludente. I suoi rapporti con gli altri membri della tribù che popola il villaggio non sono buoni: fatti di noia, di stanchezza di parole troppe volte ripetute. E la foresta…
 
[…] si mise di nuovo a fischiare, ronzare, crepitare, sbuffare, di nuovo verso la cupola lilla si avventarono nembi di mosche e formiche. Una nube passò sulle loro teste, i cespugli si ricoprirono di sciami di insetti morenti o infiacchiti, immobili o frementi […]
 
Mentre Perec deve fare i conti con questo genere di messaggio: 
 
Attenzione, attenzione! Tutti i collaboratori devono trovarsi sul posto secondo la disposizione numero seicentosessantacinque fratto Pegaso omicron trecentodue, direttiva ottocentotredici, per l'accoglienza trionfale del Padiscià senza seguito speciale, numero di scarpe cinquantacinque.

Un romanzo nel quale non è facile imbattersi e che richiede – opinione del tutto personale – perlomeno una doppia lettura per coglierne i riferimenti costanti al reale, oltre che per divertirsi come se non ci fosse un domani. Un romanzo di fantascienza? Fantasy? Horror? No, un romanzo profondamente politico e, come tale, interamente basato sull'assurdo. 

Siamo a quattro libri recensiti, dopo averne promessi sei o sette. D'altro canto non si trattava di testi tanto facili... 
Ancora uno, un romanzo, poi tutti a nanna. 
 
  
Le case di pietra e le case di paglia, di Consolata Lanza ha un (apparente) grosso difetto, quello che un'editor di una casa editrice che scartò un mio libro avrebbe definito: «Un eccesso di personaggi».
Non solo, tali personaggi vivono vite separate, ognuno man mano raccontato senza interazioni forti o deboli con gli altri, ognuno "abbandonato" alle proprie abitudini, manie, debolezze, errori, sterili eroismi e mediocri vigliaccherie. 
Conoscendo personalmente l'autrice e avendola sentita presentare il suo testo con una certa dose di ironia e autoironia, posso anche permettermi di smentirla affermando che il suo testo non ha nulla di rivoluzionario, di sconvolgente o di assurdo. Semplicemente ritengo molto probabile che non pochi lettori siano ormai (mal)abituati a una lettura senza sobbalzi, come un viaggetto su una sedia a rotelle. 
Verso il burrone.
La narrativa può e deve essere anche "scomoda", per risvegliare nel lettore il piacere di un'avventura letteraria fuori dagli schemi consueti – e forse ormai logori – di una narrativa costruita sul conflitto protagonista / antagonista / deuterogonista.
Esistono due modi per affrontare il libro di Consolata: il primo, che lo è stato anche nell'ordine di lettura, quello di leggere tutte le storie dei vari personaggi una dietro l'altra, seguendo i nomi che precedono i paragrafi, indicati in neretto a sinistra della pagina: «Richi», «Stella», «Elena», Olimpia» ecc. Il risultato è gradevole ma non è ottimale, a personalissimo parere. Ma esiste un altro modo per affrontare il testo – seguito nel corso della mia seconda lettura – basarsi cioè sulla «Guida ai personaggi», stampata a pagina 305 e seguire uno ad uno i personaggi, seguendo il loro divenire nel corso del testo. 
La sensazione finale è di una ragionatissimo e voluto caos, fatto di gesti vani, pletorici o assurdi, di malinconici ricordi troppo spesso rivisitati, di avventure con un finale scontato, di amori affannosi, di rimorsi allontanati o rimossi, di sogni e di incubi, di gesti impulsivi e di rancori trattenuti, in sostanza tutto il tessuto profondo delle vite quotidiane di una quindicina di persone che si ha l'occasione di conoscere e le cui storie raccontano di una malinconia connaturata a gesti e situazioni, di vite raccontate anche se non c'è poi molto da raccontare. 
La capacità di raccontare questi frammenti minimi di vita è una delle caratteristiche più personali e sentite di Consolata, capace di narrare vite normali fino a una rottura che può avvenire nel mondo reale secondo modalità "normali" o nel mondo reale seguendo vie fantastiche o, ancora, in un mondo che ha rinunciato temporaneamente alle regole del reale – nottetempo o in terra straniera – e che cede all'irruzione di un fantastico sornione e invadente. 
A essere demiurgo di questi minuti eventi l'autrice, una presenza divertita e (fortunatamente) priva di ogni ritegno, una semidea assai poco seria e ancor meno pietosa. Un'allegra "masca", che non può non ricordare un personaggio di un suo famoso racconto che recensii nel 2016, dispettoso e malinconico, condannato a una solitudine che ne è la vera e profonda condizione. 

E per questa volta mi fermo qui.
C'è qualche libro in meno da recensire, quanto serve a non provocare crolli. Ma temo che dovrò tornare presto a scrivere. 
Un abbraccio collettivo. 




[*] terzo nome proprio che Hoffmann sostituì a "Wilhelm" in onore di Mozart. 
[**] dalla seconda di copertina. 
[***] Idem


5.6.22

Bando ALIA Evo 5.0


 

Allora: già da qualche giorno questo bando è uscito su Facebook ma mi è sembrato ragionevole pubblicarlo anche qui, se non altro come riferimento per chi cerchi informazioni in proposito. 

------------------------------------------------------------------------

ALIA Evo 5.0. Come promesso cominciamo la raccolta dei testi per il prossimo ALIA, previsto per gennaio / febbraio 2023.
Questo ALIA Evo, in particolare, sarà dedicato al ricordo di PAOLO S. CAVAZZA che sarà ancora una volta con noi.
* I testi dovranno necessariamente essere di tema FANTASTICO, lunghi al massimo 50.000 battute spazi inclusi. Per esemplificare saranno accettati testi di Fantasy, Fantascienza, Gotico, Horror, Distopia, Solarpunk, Weird.
* Saranno bene accetti testi in traduzione dei quali siano scaduti i diritti o dei quali si posseggano i diritti.
* In ogni caso i diritti, anche dopo la pubblicazione, rimarranno dei rispettivi autori e/o traduttori.
* Come tutta la vecchia e la nuova serie (dal 2003 in poi) ALIA e ALIA Evo sono un progetto editoriale non a scopo di lucro e non corrisponderà diritti d'autore. Per ulteriori notizie consultare http://www.arpnet.it/cs/alia/alia.htm.
* Della scelta, oltre che della curatela per la pubblicazione, si occuperanno Silvia Treves e Massimo Citi, come da lunga tradizione.
* Sempre come da tradizione non abbiamo scelto alcun tema in particolare, lasciando agli autori il piacere e la responsabilità della scelta.
* ALIA Evo 5.0 uscirà contemponeamente in forma cartacea e in forma di e-book e sarà disponibile sui consueti siti.
*Il termine ultimo per l'invio del materiale è il 31 ottobre 2022.
Ovviamente avremo dimenticato qualcosa: nel caso rinfrescateci la memoria...
* Importante: il testo va inviato ad aliaracconti@fastwebnet.it nel formato .docx o .odt.
--------------------------------------------------
Col che avete tutte le informazioni che vi servono. Per qualunqua altra richiesta o domande o curiosità potete scrivere a 
aliaracconti[at]fastwebnet.it o a s_3ves[at]fastwebnet.it o a 
massimo.citi[at]fastwebnet.it

2.6.22

Qualche riflessione inutile sullo scrivere

 
Scrivere o non scrivere? 
Lo so, non è un tema che possa interessare o, ancor meno affascinare i pochissimi lettori di questo blog, tanto meno in tempi nei quali i blog finiscono per essere trascurati: troppo da leggere con troppo poco tempo. 
Ciò detto, perderò e (forse) vi farò perdere un po' di tempo a riflettere su un tema che riguarda non poche persone, foriero di problemi, di sensazioni di insufficienza, di dubbi di incapacità e ansie di essere sostanzialmente illeggibili, noiosi o rinunciabili, tanto da provocare talvolta il sostanziale abbandono degli strumenti di scrittura.
Scrivere… È diventata una piccola mania, sostanzialmente innocua, soprattutto se paragonata ad altre passioni come la caccia o la droga, ma che può creare non pochi problemi in chi la pratica. 
È vero, si scrive per se stessi, o almeno così pare, ma il dato di fatto è che dopo un certo numero di righe scritte e di racconti, raccontini, elzeviri, componimenti, fulminanti ritratti, commediole o poesie ci si convince di saper scrivere e si comincia a cercare dei lettori che possano confermare questa nostra convinzione col tempo divenuta più salda. 
Il tempo che determina questo autoconvincimento è variabile in rapporto alle persone e ai caratteri: si va da coloro che inseguono i vicini di casa per una lettura dopo aver scritto due (2) cartelle, a coloro che lo fanno dopo aver scritto perlomeno un racconto, a coloro che osano chiedere una lettura del loro romanzetto, fino a coloro che scrivono due o tre romanzi delle dimensioni della Recherche e si limitano a dichiararlo nei social media, senza chiedere alcunché a nessuno. 
Personalmente rientro nella terza categoria, "coloro che osano… con un romanzetto", e il problema è che, personalmente. sono drammaticamente convinto di essere un vero genio della scrittura. 
Nei giorni fausti. 
O di essere una mezza calzetta indegna di una lettura che vada oltre una mezza paginetta. 
Nei giorni infausti. 
Premessa. 
Negli anni '80, dopo aver abbandonato giocoforza il sax e il jazz – causa perdita sala prove – mi sono "accontentato" di scrivere, dopo qualche faticoso (e grottesco) tentativo di poetare. Sicché in sette - otto anni ho scritto un mostro – prima a mano, poi su macchina da scrivere, quindi con un programmino autoprodotto su TI 99 e infine su un M20 Olivetti – che sfiora le 900 pagine e che sto riguardando in questi giorni. Un'impresa che mi porrebbe di diritto nella categoria 4, se non fosse che… Già, mentre componevo il mio personale monumento alla scrittura, ho scritto anche racconti di vario genere e con quelli ho cercato di guastare la vita e corrompere i gusti di creature che avevano come particolare difetto quello di condurre un qualsivoglia rapporto con il sottoscritto.
 

 
Tra le altre cose ho anche partecipato a un concorso, incitato da un mio collega di lavoro – era il 1990 – ottenendone un piazzamento e la pubblicazione. Il mio collega, che aveva inviato a sua volta un racconto, non ottenne nulla e metaforicamente mi tolse il saluto. Il dato principale è che in questo modo trovai una sorta di ammissione al grado più basso di scrittorìa: quello di volenteroso apprendista. A quello seguirono altre partecipazioni a concorsi vari con posizioni più o meno lusinghiere. La scrittura stava gradualmente diventando un mestiere… Capitolo a parte la partecipazione al concorso per il Premio Calvino: inviai due volte lo stesso romanzo con qualche modifica (quello che, una volta modificato, si può trovare qui) con esiti nel primo caso decorosi, nel secondo – dopo aggiunte e revisioni – con risultati catastrofici. Diciamo che è stato il primo caso nel quale ho incontrato un "intellettuale" di sinistra puro-e-duro che non arrivò nemmeno a capire che la Rote Armee non era l'Armata Rossa sovietica, accusandomi larvatamente di essere un rottame nazistoide. Errore mio, temo, e delle mie sciagurate passioni per la storia del XX secolo e per lingua tedesca. Ma l'episodio mi segnò profondamente, anche se sul momento affettai indifferenza, mostrandomi come esista una differenza sensibile tra ciò che si crede di scrivere e ciò che viene letto come esiste tra ciò che si è ritenuto di scrivere e ciò che viene realmente letto
Un particolare poco importante? No, non è così. 
Come risolvere il problema? 
Beh, se avete una risposta sono prontissimo ad ascoltarla. 
 

 
Il dato di fatto è che questa discrasia (chepparolone...) mi ha inseguito nel tempo, sia partecipando alle tre o quattro presentazione messe in piedi per l'uscita da CS_libri della mia prima antologia, «In controtempo» che in seguito, scoprendo immancabilmente che esistevano fratture, malcomprensioni – non solo, talvolta sovracomprensioni, attribuendo alle mie parole significati ulteriori mai da me sospettati – che rendevano il mio testo diverso da come intendevo fosse compreso. «Normale», direte voi, «In fondo è successo a tutti gli scrittori». Molto vero, ma in ogni caso almeno sorprendente per chi allinea un flusso di parole in un testo. 
O in un cesto, parlando di misunderstanding.
Ma se la malcomprensione di un testo scritto può sabotare – più raramente esaltare – la vostra "poetica", le cose non vanno meglio parlando dell'esercizio stesso di scrivere, ovvero il tempo che – in uno modo o nell'altro – si dedica alla fatica della scrittura. 
Qualcuno, a occhio direi Giacomo Leopardi, parlava di "sudate carte", frase che quando iniziai a scrivere mi sembrava un'iperbole, sia pure letterariamente deliziosa. Senonché… 
Quando iniziai ero effettivamente contento come una pasqua di trovare un po' di tempo per la mia "passione", scrivevo quando potevo: la mattina prima di andare a lavorare; all'ora dell'intervallo con un panino in mano; dopo cena e, ovviamente, di domenica. 
Il problema è che il vasto mondo non gradiva particolarmente le mie creazioni, pur essendo io tutto sommato abbastanza ritroso nel rifilargliele. Sicché il mio iniziale entusiasmo cominciò a diventare più cauto, più faticoso, più ponderato. Al semplice lavoro di allineare una riga dopo l'altra cominciò a rendersi necessario una seconda fase, nella quale rivedevo il testo, lo ripulivo, lo emendavo, in qualche caso lo eliminavo, anche se, meditabondo, non gettavo via il testo scartato. Con il tempo alla seconda fase ne subentrò una terza e poi ancora il lavoro di riprendere in mano il testo una volta "raffreddato". 
 

 
Le conclusioni alle quali giunsi erano che:
1) Il vasto mondo aveva tutte le ragioni di considerare poco il prodotto iniziale del mio genio. 
2) Scrivere era, in realtà, fatto per un decimo di gioia e per nove decimi di pura e semplice fatica.
3) In ogni caso anche il prodotto più o meno finito del mio lavoro mi risultava insufficiente o mal scritto e dovevo impedirmi di rimettere mano anche alla bozze più o meno definitive. 
4) per accontentare i lettori bisognava far sì che un testo rallegrasse in particolar modo loro – pur senza cedere un palmo al midcult – questo anche se, tutto sommato, fosse una faticaccia scriverlo.
Andando avanti con gli anni le cose si sono fatte sempre più ardue. Ormai per scrivere una pagina – 2000 battute spazi compresi – devo scriverne più o meno il doppio – o anche di più – e poi tagliare, cambiare, eliminare, sostituire, cercando di rimanere abbastanza presenti a se stessi. 
Onestamente le affermazioni tipo: «Eehh, scrivere dev'essere soprattutto un piacere» mi lasciano quantomeno perplesso e vorrei rispondere: «No, scrivere è un lavoro e nemmeno dei più rilassanti.»
E qui ritorniamo al punto di partenza, ovvero: "Scrivere o non scrivere?". 
La voce del buon senso mi direbbe: «Ma per carità. È già troppo pieno di poveretti che si affannano a scrivere, oltretutto in italiano, una lingua sfigatissima: poco parlata e ancor meno letta. Fai altro: leggi, studia, scrivi recensioni, gioca a frisbee o a ping-pong, fai correre il cane e fai dispetti al gatto, fai videogiochi o smonta e rimonta computer per il piacere di farlo, ma NON scrivere.»
Una parte di me, quella probabilmente più antica, o più infantile, o più vanesia, ribatte: «Scrivere è vitale per un pirla come te. Devi farlo indipendentemente dal numero di lettori che riesci a raggranellare: per il semplice piacere di soffrire. Fatica e sarai contento: in fondo non hai padroni né servitori. E hai un sacco di tempo libero, ora che non lavori più.» 
Vero. 
In più c'è il fatto che posso lavorare senza guadagnare nulla di serio (a titolo di esempio, l'ultimo bonifico mensile a mio favore per un testo pubblicato è stato di € 5,98), un'attività che, considerando il mio lavoro precedente, con stipendi che arrivavano un mese sì e uno no, non mi turba. 
Quindi penso che continuerò a scrivere. Magari perdendo tempo prima, dopo e mentre, ma continuerò a scrivere. 
Ma il tema non è esaurito, penso che scriverò ancora di me che scrivo. Se non vi interessa – probabilità tutt'altro che remota – potete tranquillamente ignorarmi, in fondo Internet ha di bello proprio la possibilità di ignorare bellamente praticamente tutto. 
Alla prossima!