Buongiorno
a tutti i superstiti, ovvero tutti coloro che sono passati più volte
di qui nella speranza che il Nostro si decidesse a scrivere qualcosa
di nuovo. Bene,
è accaduto.
«Ma
in fondo alla tua età di cosa vuoi parlare? Cosa vuoi che ti sia
capitato? Nulla o giù di lì.»
In
realtà di cose me ne sono accadute tante, alcune delle quali
tutt’altro che positive – ho scoperto di avere il diabete e,
oltre a questo, devo farmi operare all’aorta addominale – ma
anche qualcuna positiva, come il dato di fatto che la mia Silvia ha
finalmente ottenuto un successo – ovviamente relativo,
trattandosi di fantascienza italica – con la curatela insieme a
M.Caterina Mortillaro dell’antologia “Divergender”, la
pubblicazione di un fenomenale racconto come Zero e la
partecipazione all’antologia “Assalto al Sole”. E altre cose
stanno bollendo in pentola, ma delle quali parlerò in seguito.
Per
quanto mi riguarda posso enumerare l’uscita di ALIA Evo 4.0,
antologia nata tardi ma comunque viva e vitale, con la partecipazione
straordinaria di Sergio Gaut Vel Hartman,
autore argentino di antica
data e lunga carriera, e altri 14 racconti dei soliti noti, tutti al
loro massimo. È anche uscita una recensione di Romina Braggion che
segnalo volentieri (anche se del mio racconto non se ne parla né
punto né poco, ma pazienza) e che potete leggere qui.
Oltre
a questo segnalo l’uscita dell’antologia Mondi paralleli [Delos Ed.], il meglio della fantascienza italiana indipen-dente del 2019, che ospita un mio
racconto, «Un rifugio a Baba Yaga», testo uscito in origine su ALIA
3 (2007), ripreso in Isole nella Corrente (2019). antologia
pubblicata nella collana ALIA Arcipelago e infine ripescato dal buon
Carmine Treanni per la sua antologia. Non
parlerò di altre cose alle quali ho lavorato o sto lavorando e vengo
a ciò che intendo fare in questo post: parlare di libri letti.
Qualcuno
ricorderà la mia
abitudine di impilare i libri da recensire sulla scrivania e di come
ero costretto a fare una rapida serie di rece per liberare parte
della scrivania, bene, ora sono stato costretto a fare un po’ di
posto sullo scaffale vicino per sistemarvi (in qualche modo) i libri
non recensiti. Alcuni li ho anche presentati su LN-LibriNuovi ma per
la maggior parte sono rimasti a prendere polvere su uno scaffale in
attesa di una possibile rivincita.
Non
garantisco di recensirli tutti, né che le mie presentazioni saranno
utili a qualcuno, ma non sopporto più di vederli acquattati a
coprire i libri alle loro spalle, con un atteggiamento generale di
immusonita tristezza.
Il
primo della serie, scelto per le dimensioni tutt’altro che modeste
è L’assassinio del commendatore, di
Murakami Haruki [Einaudi], corposo romanzo in due volumi. «Commendatore» è
una parola che non ha praticamente traduzione in giapponese, come
Murakami ci fa sapere, e il protagonista deve tradurlo in qualche
modo, utilizzando una forma cortese risalente al medioevo nipponico.
Il commendatore del titolo è la persona trucidata in duello da Don
Giovanni nel corso della vicenda narrata da Da Ponte e musicata da
Mozart e che appare in un quadro ritrovato dal protagonista nel
sottotetto della casa appartenuta a un grande pittore giapponese:
Amada Tokohito. Curioso che Amada abbia impacchettato il quadro senza
averlo distrutto, ma facendo in modo che nessuno potesse ritrovarlo,
curioso e inspiegabile come il fatto che il grande pittore dopo un
periodo nel quale di era dedicato alla pittura moderna, dopo il
ritorno da Vienna si sia interamente rivolto al Nihongo la
pittura tradizionale nipponica. Ma è solo il primo dei misteri che
dovrà affrontare il protagonista dei due volumi e narratore in prima
persona – mai citato con nome e cognome, a ribadire il legame
profondo tra l’autore e il suo personaggio.
Tra
i personaggi appare un certo Menshiki (il cui nome significa «colori
scomparsi», e che richiama inevitabilmente alla mente «L’incolore
Tazaki Tsukuru» del romanzo precedente) un vicino ricchissimo e che
ama vivere appartato, che sarà il testimone del mistero che
gradualmente avvolge il protagonista e la sua strana casa. Il flebile
suono di una campanella che suona nel folto del bosco è il primo
elemento che lo spingerà a indagare sulla vita di Amada e sulla
rottura che lo spinse ad abbandonare Vienna e la pittura moderna,
giungendo a dipingere il quadro, carico di insensata ed esibita
violenza e di un mistero inspiegabile.
Il
commendatore e la sua morte sono il vero centro della narrazione, il
piccolo commendatore – letteralmente “estratto” dal quadro e
che soltanto il protagonista riesce a vedere e a parlargli mentre
vive nella sua casa – costituisce un contrasto paradossale con
l’esagerata violenza della scena alla quale appartiene ed è il
viatico al mondo sospeso tra la realtà e il sogno nel quale sono
ambientate le vicende narrate.
La
sensazione del lettore, al di là della viva simpatia per Murakami, è
di avere a che fare con un romanzo indeciso fino allo sfinimento, un
ricco dono nascosto da un’imbottitura eccessiva e ridondante, un
romanzo nel quale l’autore non riesce – o non vuole – decidere
tra il reale e il fantastico, facendo del suo abituale esercizio di
equilibrio una pericolosa esibizione sulla corda. Il libro si lascia
leggere volentieri, intendiamoci, ma lascia comunque la sensazione di
molte idee spese – dal protagonista capace di comporre ritratti nel
quale coglie le caratteristiche essenziali dell’io del modello,
fino all’imperturbabile Menshiki, individuo fin troppo misterioso –
senza giungere a un climax definito e a una risoluzione
precisa. Si leggono le 850 pagine de L’assassinio del
commendatore senza riuscire a individuare un filo rosso che unisca i diversi
elementi via via narrati. In sostanza è la presenza del
protagonista/autore a fungere da collante e a rendere il tutto non
solo digeribile ma anche gradevole, fermo restando la netta
sensazione che manchi “qualcosa” e che, volendo, il romanzo
avrebbe anche potuto raggiungere le 10.000 pagine senza che l’autore
riuscisse a vincere la sua ambiguità e trovare una nota risolutiva.
Ciò detto, penso che comprerò e leggerò anche il prossimo libro di
Murakami Haruki.
Molti
anni separano L’assassinio del commendatore da Vento e
Flipper, sempre di Haruki Murakami, pubblicato da Einaudi nel
2016 ma la cui edizione originale risale al 1979/1980. Si tratta in
sostanza dei primi due romanzi brevi scritti da Murakami «mentre
gestisce il suo jazz bar a Tôkiô» e che, peraltro, per volontà
dell’autore, non sono mai usciti dal Giappone nei primi anni. Due
romanzi brevi, si diceva, lo stesso protagonista – anonimo – e
diversi personaggi giovani che discutono e meditano sulla vita, tra
questo «il Sorcio», giovane forse più annoiato che disperato. Ciò
che avviene nei due romanzi, evidentemente connessi tra loro, non ha
molto di spettacolare: storie d’amore inconcluse, incomprensioni,
perdite di innocenza, la ricerca di un flipper leggendario e un
protagonista che assiste a quanto gli accade intorno con un
trasparente desiderio di fuggire di lì, cosa che inevitabilmente
farà. Di piacevole c’è il modo di narrare, tanto evidentemente
minimale da richiamare alla mente Raymond Carver – Murakami ne è
stato il traduttore – e in grado di evocare con poche parole il
«colore» di una vita. Non voglio raccomandarne l’acquisto ma
diciamo che se vi capita di leggerlo non sarà stato tempo sprecato.
Una
volta terminato lo spazio – forse eccessivo – dedicato ad Haruki
Murakami, per restare nel campo del fantastico, passerò a Le
venti giornate di Torino di Giorgio De Maria, ripubblicato da
Frassinelli nel 2018 dopo una prima pubblicazione nel 1977 da parte
de Il Formichiere che fu sostanzialmente ignorata. Giorgio De Maria
non era esattamente un carneade, avendo scritto altri tre romanzi
pubblicati da Mondadori, essendo stato un critico teatrale per
l’Unità, un commediografo, uno sceneggiatore per la RAI e un
membro del gruppo Le Cantacronache, insieme, tra gli altri, a Italo
Calvino. Il motivo per il fiasco della prima edizione de Le venti
giornate va probabilmente cercato da un lato dell’insufficiente
distribuzione dell’editore a suo tempo scelto che – lo so per
esperienza personale – faticava a essere presente nelle librerie,
dall’altro nel modo molto peculiare di affrontare il tema della
narrazione scelto da De Maria.
Di
ciò che è accaduto durante le Venti giornate è possibile
apprenderne soltanto per frammenti, per accenni, per obliqui
riferimenti, ovvero per quanto il protagonista riesce a ricostruire
sulla base dei racconti narratigli da diversi personaggi: la sorella
di uno dei morti in maniera misteriosa, un avvocato che morirà in
circostanze enigmatiche, un altro avvocato che sembra fornirgli
qualche elemento che spiega la persistenza del clima malato della
città, uno sconosciuto con il quale avrà un curioso rapporto
epistolare. Nel corso delle sue indagini emerge ben presto un’entità,
la Biblioteca, aperta presso La Divina Casa della Divina Provvidenza
– nota a Torino come il Cottolengo – una sorta di social
network in netto anticipo sui tempi, dove ognuno è chiamato a
scrivere di se stesso, nell’assurda speranza che qualcuno legga i
suoi testi. E procedendo nella lettura ci si rende conto che ciò che
è avvenuto – qualunque sia l’orrore avvenuto pochi mesi prima –
può accadere di nuovo e che Torino non può che essere il Luogo nel
quale tutto succederà ancora.
Un
piccolo testo che sembra voler ricapitolare in forma di riferimento
il fantastico del XX secolo, da Kafka a Borges, a Hope Hodgson, a
H.P.Lovecraft, a Landolfi tutti citati con rapidi e celati
riferimenti, fino alla chiusa del romanzo che sposta l’intero testo
su un terreno ultraterreno, quasi a confermarci che dalle «venti
giornate» non esiste salvezza.
Ho
letto il libro per ben tre volte, ogni volta stupito dalla sua
capacità di affascinare senza cedere ad alcuna osservazione
razionale. Oltre a questo, dal momento che ogni giorno mi muovo nella
metropoli raccontata da De Maria, in Corso Stati Uniti, in via
Vincenzo Vela, in piazza Solferino, in via Castelfidardo (nella sua
antica disposizione, ora obliterata dal passaggio di un grande viale
che attraversa gran parte della città) è praticamente inevitabile
portare con me le immagini sbiadite ma vagamente terrificanti
dell’orrore che ha posseduto la città, una città che «non è la
Torino inoffensiva e po’ da cartolina fané […] ma la città
[dove] i demoni covano sotto la cenere» (dalla postfazione di
Giovanni Arduino).
Ne
consiglio la lettura? Beh, certo, preavvisando però i lettori di non
attendersi un romanzo a forte tinte e carico di sangue e di misteri
urlati, quanto un breve romanzo (150 pagine, non di più, semmai di
meno) in grado di spaventare anche e soprattutto a distanza di
giorni.
Dal
momento che ho parlato di William Hope Hodgson, passo ora a
presentare brevemente Acque profonde, il secondo volume dei suoi racconti di mare, apparsi
tra il 1912 e il 1914, pubblicati in Italia dalla benemerita Edizioni
Hypnos, tradotti da Elena Furlan e con l’ottima curatela di Pietro
Guarriello. Aggiungo che Hypnos ha raccolto i racconti di mare in un
tre volumi, dei quali due già pubblicati e il terzo in arrivo.
Hodgson
nel corso della sua vita scrisse quattro romanzi e un centinaio di
racconti e, oltre che scrittore, fu anche marinaio e fotografo.
Questo volume raccoglie dieci racconti, tra i quali due capolavori
del genere fantastico, «Il relitto» e «La nave di
pietra» ai quali aggiungo volentieri «Le
campane della Laughing Sally» che non è un testo fantastico in
senso stretto ma che a partire da un elemento spettrale di forte
presa risale lentamente a spiegazioni assolutamente naturali, un po’
come Il castello dei Carpazi di Jules Verne.
In
generale si tratta di buoni o ottimi racconti di ambientazione
marinara con, come ambientazione preferita, il mar dei Sargassi,
presentato come incubo necessario nel quale, come «Nei profondi
abissi» può capitare di incontrare un terrificante mostro
marino, sul modello in seguito ripreso in grande stile da
H.P.Lovecraft. Quanto ai due racconti considerati capolavori del
genere, magistrale «Il relitto», una nave abbandonata
popolata da una creatura inumana e assassina e potentemente
suggestivo «La nave di pietra», con il suo enigmatico antico
vascello interamente costruito in pietra.
Sempre
nell’edizione Hypnos, collana Biblioteca dell’Immaginario, è
anche Sub Rosa, tutti i racconti fantastici 3, di Robert
Aickman. L’autore è stato attivo nella seconda metà del ‘900 ed
è stato un appassionato cultore della ghost story classica,
sul modello dei “due James” (Henry e Montague Rhodes) e di Walter
De La Mare.
Racconti
interessanti, se non altro per la possibilità per chi legge di
paragonare un racconto gotico scritto nel corso del XX secolo con i
maestri del genere, che hanno generalmente operato alla fine del XIX
secolo e nei primi anni del XX. Come se la cava Aitken? Con onore,
anche se è inevitabile la sensazione di deja vu nel suo modo
di raccontare – in prima persona, con la visione necessariamente
limitata tipica del genere – e nelle vicende che corrono sul limite
sottile dell’equilibrio tra realtà e sogno.
Comunque
particolarmente meritevoli di lettura La stanza interna, dove
la scelta inconsueta di un narratore al femminile riesce ad
accrescere la drammaticità del racconto, La polvere sospesa,
che, a parte la forte suggestione, ha anche il pregio forse
involontario di ammantare la tradizionale avita dimora britannica di
una quantità non casuale di polvere e Le case dei russi,
racconto trasognato e dall’ambientazione non scontata. E
l’ambientazione non ortodossa è una delle caratteristiche
senz’altro originali dell’autore, un appassionato di viaggi che
il curatore dell’antologia, Andrea Vaccaro, presenta così:
«Tutti
viaggi letterari in Sub Rosa sono riflesso di altrettanti viaggi
dell’autore: il paese di Unilinna descritto in Le case dei russi
si basa sulla cittadina finlandese di Savonlinna […] l’inquietante
paese di Nel bosco fa riferimento alla cittadina svedese di
Östersund, e la vicenda descritta ne I ciceroni riprende
minuziosamente una visita alla cattedrale belga di Antwerp dello
stesso Aickman.»
Quanto
infine alla femme fatale presente nel racconto Mai
dimenticare Venezia risulta parte del fascino fatale della città
lagunare, che l’autore non può che raccontare con accenti
decadenti e con una passione febbricitante che risulta sin troppo
caricata, preannunciandone con largo anticipo lo scioglimento. Ciò
detto un’antologia che non guasta per un appassionato di gotico.
Ultima,
per questo giro, l’antologia pubblicata da Frassinelli nel 2019 e
che raccoglie otto racconti di Ted Chiang, Respiro, titolo di
uno dei racconti. Premetto
che alcuni dei racconti qui pubblicati (Il ciclo di vita degli
oggetti-software, pubblicato da Delos nel 2011, Cosa ci si
aspetta da noi, pubblicato da CS_libri in ALIA Anglostorie nel
2008, per la traduzione di Davide Mana) sono già apparsi in Italia
ma con una distribuzione (ahimé) insufficiente e/o limitata al
pubblico abituale della sf. La presenza in questa antologia
costituisce per molti lettori il primo modo – o il secondo dopo
Storia della tua vita – per conoscere Chiang.
Il
racconto che apre l’antologia, Il mercante e il portale
dell’alchimista, affronta un tema abituale per la sf e per il
paradosso dei viaggi nel tempo, ovvero se è possibile, modificando
il passato, che tale cambiamento possa cambiare la realtà
contemporanea. Chiang affronta il tema a suo modo, ambientando la
narrazione nell’Arabia delle Mille e una Notte e dimostrando che
cambiare il presente mutando il passato è un’impossibilità
pratica e che combattere per farlo è un incubo senza uscita.
Respiro
è un delicato
gioiello. Raccontato
con il consueto distacco trasognato tipico di Chiang, narra della
scoperta da parte di un appartenente a una specie altamente
civilizzata della fine imminente della sua gente, condannata dal
lento crescere dell’entropia negativa. Il fatto che sia il respiro
l’elemento fondamentale della loro sopravvivenza e
della loro fine è un
dato che riesce a rendere ancor più raffinatamente struggente il
racconto. Cosa ci si
aspetta da noi è
un racconto brevissimo che affronta il tema del libero arbitrio, con
conclusioni disperanti, mentre Il
brevetto della Tata Automatica di Dacey
è una storia dell’incontro tra intelligenza umana e macchine, con
esiti comicamente drammatici (o drammaticamente comici). Il
ciclo di vita degli oggetti software
è stato recensito qui,
e mi sembra poco serio
ri-recensirlo. Omphalos
e Il
grande silenzio
sono due ottimi racconti, il
primo incentrato sul «tradimento» perpetrato dall’Altissimo nei
confronti del genere umano e lo stupore disperato di chi ha davvero
creduto il Lui,
il secondo sull’esistenza di una seconda razza intelligente sul
nostro pianeta, condannata all’estinzione per semplice
«distrazione» della
nostra specie. La
verità del fatto, la verità della sensazione
è basato su un tema a ben pensarci diabolico: l’impossibilità di
dimenticare mentre L’angoscia
è la vertigine della libertà
parte dalla possibilità di vivere “in differita” la vita di un
altro sé in una Terra alternativa, con i confronti, le delusioni e
le speranze nate da questa facoltà. Un racconto forse un po’
dispersivo, soprattutto
in rapporto alla consueta
stringata asciuttezza
di Chiang, anche se comunque meritevole di lettura.
Ted
Chiang non è uno scrittore che racconta di un futuro più o meno
lontano e più o meno verosimile – anche se non vi è assolutamente
nulla di sbagliato, riprovevole
o volgare in questo –
quanto piuttosto un autore che sceglie di occuparsi di temi non
facili, come tutti quelli che riguardano profondamente il nostro
essere-nel-mondo, temi come la fede, la comunicazione, le emozioni,
la solitudine, la comprensione, il ricordo, l’ansia per il futuro o
la sua accettazione, il rimorso, il dolore. Uno scrittore impossibile
da incasellare in un ben preciso genere, il che, lasciatemelo dire, è
una rara e felice facoltà.
Ciò
detto saluto i coraggiosi che hanno letto per intero questo
lunghissimo post e gli prometto che tornerò presto. Ho ancora
nove-libri-nove da recensire...