30.12.20

ALIA Arcipelago: una vecchia storia

Qualcuno forse ricorderà che nei mesi scorsi ho fatto qualche (goffo) tentativo per mandare in onda un breve filmato con il catalogo di ALIA Arcipelago. Adesso spero di aver risolto i numerosi problemi aperti. In tutti i casi qui c'è il nuovo filmato. 



Buona visione a tutti!

28.12.20

Una promessa è una promessa


Avevo chiuso il precedente post con la promessa di ritornare presto, ed eccomi qui.

I libri letti sono sempre sulla libreria e continuano a costituire un intralcio logistico ai libri alle loro spalle. Non che la lettura di questi ultimi sia particolarmente urgente – si tratta di libri già letti, prevalentemente dedicati alle biografie, ai saggi psicologici e sociologici e ai miei non facili rapporti con le religioni – ma la presenza di libri letti e dimenticati a caso sullo scaffale mi crea un sottile malessere del quale voglio liberarmi quanto prima. In fondo l'abitudine a recensire i libri dopo la lettura è un'abitudine presa ai temi della scuola media (cinquant'anni fa, la durata di una vita) e che non mi ha mai abbandonato. Ai tempi della scuola media il mio scopo era quello di "crearmi un giudizio personale su qualsiasi cosa" (…nientepopodimeno…), infatti 0ltre i libri recensivo anche programmi radiofonici, televisivi, LP, film, documentari e Dio solo si ricorda cos'altro, in genere stendendo feroci stroncature, particolarmente dei programmi RAI ma anche di dischi o film poco graditi. C'è voluto del tempo per capire che i miei gusti non erano un buon metro di giudizio e che alcune volte (molte? è possibile) il mio giudizio mancava clamorosamente di lucidità, accusando quel tale film di orrori estetici e ideologici mentre il vero problema stava nella recitazione o nel montaggio o nella sceneggiatura o nella regia. Un po' alla volta ho ridotto il campo delle mie recensioni, limitandomi ai libri che, se non altro, sono stati uno dei pilastri della mia vita, diventando col tempo sempre più tollerante e paziente, nonostante la mia rovente e sempre vivacissima intolleranza per soggetti tipici del panorama italico, tipo Bruno Vespa o i molti G.P.G.Q. (Grandi Palloni Gonfiati Quotidiani) che infestano le librerie sotto Natale. Da questo punto di vista aver dovuto chiudere la libreria è stato una benedizione, nel senso che acquistare un libro per parlarne male non ha senso mentre nella mia vita precedente potevo leggere un libro e rimetterlo sullo scaffale senza colpo ferire. 

Adesso devo comprare i libri per leggerli, evitando – come si evita una festa piena di individui senza mascherina – i libri dei soggetti che non amavo nella mia vita precedente ed evitando, (lo so, mi dispiace, ma non mi sento di rischiare) i giovani autori nazionali, troppo spesso gonfiati come palloni aerostatici da giornalisti compiacenti e da critici un tot a riga. La cosa non mi funziona sempre, sia chiaro, come vedremo anche tra i libri che presento questa volta, ma diciamo che in genere riesco a leggere cose quantomeno decenti. 

 


 

Il fatto che personalmente scriva fantascienza e fantastico probabilmente non ha un particolare rilievo sui miei gusti e sulle mie scelte in campo narrativo. Non leggo quanta fantascienza dovrei, ahimé, spesso preferendole la letteratura fantastica, il gotico e i classici dell'orrore. In sostanza ho sempre amato Calvino, Borges, Perutz, Buzzati, Bradbury, Cortazar, Hoffman e Bioy Casares più di quanto abbia mai amato (o in qualche caso sopportato) Heinlein, Van Vogt, Asimov, Keith Laumer, Ayn Rand o Ron Hubbard. Qualcuno mi farà notare che il 90%  della sf non ha nulla a che fare con costoro e che vi sono ben altri autori e io risponderò che certo, è proprio vero e che dietro a Jack Vance, Cordwainer Smith e China Mieville posso mettere in coda altre decine di autori, ma questo non mi impedirà di commettere un delitto imperdonabile ponendo sullo stesso piano di gradimento il fantastico e la fantascienza. Mi dispiace, sono bilaterale da tempi non sospetti e non posso farci nulla...

Questa volta partirò da un libro recente, indicato tra le novità natalizie di Adelphi: La valle oscura di Anna Wiener [Uncanny Valley, a memoir], trad. di Milena Zemira Ciccimarra. Il libro viene presentato come un reportage in forma romanzata, promettendo di ridere ogni piè sospinto. Bene, non è vero. Al massimo il libro fa sorridere, ma solo raramente, e la protagonista nonché narratrice del mondo dell'informatica della Silicon Valley, riesce talvolta sottilmente odiosa per la sua abitudine di dare perennemente la colpa a se stessa di tutto ciò che le accade, finendo (fatalmente) per parlare esclusivamente di sé. Anna Wiener ha lavorato in una libreria e in una casa editrice– luoghi assolutamente emblematici – sulla costa orientale degli USA fino a quando si vede costretta a cambiare luogo e tipo di lavoro, trasferendosi in occidente, nella «Uncanny Valley» a lavorare per una Startup californiana. Nelle successive 280 pagine l'autrice ci racconta, con innumerevoli digressioni sulla sua vita pazza, esagitata e disperata, della follia dei giovanissimi manager delle Startup, della loro ansia e ambizione, di ambienti di lavoro dove l'autosfruttamento è una sana abitudine, dove il passaggio dai PC agli attrezzi da palestra costituisce più del 90% della vita quotidiana, dove l'alimentazione a base di similredbull e altri beveroni multivitaminici è considerata assolutamente normale. In tutto ciò la nostra Anna passa da fasi di felice adesione al progetto della Startup – o meglio delle Startup, dal momento che la protagonista cambia impiego a metà libro  – a fasi di profonda insoddisfazione, intolleranza per se stessa e slanci di un vago femminismo incosistente. La realtà che la circonda è fatta di un maschilismo da ragazzini immaturi, in genere incapaci di giudicare la realtà nel suo complesso ma soltanto i frammenti che in qualche modo li toccano e li appassionano. Tra questi le donne sono a un buon punto della classifica ma non sono considerate essenziali, tanto è vero che la presenza di una donna in una piccola azienda informatica è considerata con curiosità e un vago stupore. Alla protagonista, laureata in lettere, viene affidato un compito che evidentemente non è molto apprezzato dai nerd che la circondano: rispondere alle lamentele e alle richieste dei clienti, compito nel quale Anna se la cava decisamente, anche se, ovviamente, da quella posizione non può afferrare a pieno lo scopo e gli intenti della ditta. Parlare con il CEO della ditta dove lavora in una prima fase non gli è particolarmente utile: si tratta di un dannato giovanotto impallinato, talvolta infantile, più spesso autoritario, capace di mettere insieme qualche milione di dollari in una settimana ma assolutamente sprovvisto di quella che in tutto il resto del mondo viene chiamata empatia. Il cambio di Startup migliora le sue condizioni di lavoro – stipendio maggiore, buona parte del lavoro in smartworking, orari d'ufficio autogestiti – ma non migliora la sua visione del mondo della Silicon Valley fino a portarla ad ammettere che quel mondo per lei, una letterata cresciuta nel mondo librario della costa Est, non è la scelta giusta. A pesare su questa decisione è anche la situazione nel frattempo venutasi a creare con l'elezione di Ronald Trump e con l'apparizione inquietante di un modo di lavorare e rapportarsi al mondo ricalcata sul mondo televisivo di Ronaldino, quindi sommaria, brutale e fondata sulla menzogna e su una realtà deformata. Ed è in queste pagine che Anna Wiener riesce a raccontare in modo nitido e preoccupato la situazione degli USA e il rovesciamenti di valore sul quale l'EX-presidente (sia lodato il cielo) ha costruito il suo sistema di potere.

Un libro scritto con uno scopo lodevole e tradotto in italiano essenzialmente per favorire la demolazione del mito che circonda la Silicon Valley e, detto per inciso, per sottolineare il valore incomparabile della cultura letteraria e della circolazione di libri. Sono d'accordo? Diciamo che avrei preferito un testo più nitido, più netto nel raccontare le improvvise ricchezze di CEO imberbi e più preciso nel raccontare la mutazione e la decadenza del ceto intellettuale californiano, passato dall'essere libertario a teorizzare il lavoro 24h. Diciamo che si tratta di un tentativo parzialmente fallito? 

Continuiamo con un'altro mezzo fiasco. Parlo di Benevolenza cosmica di Fabio Bacà, Adelphi 2019. Lo stile, innanzitutto – dal momento che di trama e intreccio non è facile parlare – bene: lo stile è magistrale, dotato di un lessico lussureggiante,  capace di accelerazioni funzionali e di digressioni che non ritardano il ritmo a tratti sostenuto della narrazione. In sostanza il tipo di libro che si legge per la semplice, banale soddisfazione di ammirare come si gestiscono principali e subordinate, incisi e incipit, flussi di coscienza e riflessioni affannate, emozioni, sorprese e rimorsi, insomma come si riesce a scrivere un romanzo brillante anche se non ha, ahimé, nulla di serio da comunicare. 

La vicenda si racconta in poche parole: si svolge a Londra – la metropoli pre-brexit e pre-COVID –  il protagonista, tale Kurt, gode di una sorte straordinariamente positiva, tanto da suscitare in lui qualche dubbio: «non è che se io ho tutta questa fortuna, qualcun altro vivrà in un'innaturale situazione di scalogna cronica?». Il romanzo procede su questa bizzarra trovata, allineando fatti che parrebbero avvalorare la tesi di Kurt fino a un curioso "incidente" che a suo modo equilibra la bilancia del caso. In sostanza un romanzo che sembra ricavato da una storia del fortunato cugino di Paperino, Gastone, e che non sembra aggiungere nulla alla storia del romanzo italiano, nonostante il lusso esagerato dello stile, probabilmente l'unico motivo per il quale questo libro è stato pubblicato. Diciamo che a un 9 dello stile corrisponde un 3 nell'intreccio e il risultato matematico è un bel 6.

Il Cosmonauta di Jaroslav Kalfař, titolo originale Spaceman of Bohemia,  editore Guanda, è un romanzo non di fantascienza e il cui sentore di buffa malinconia si coglie già dal titolo originale, con la sovrapposizione di un'entità ottocentesca come la Boemia, con i suoi derivati: il Bohemienne, il suonatore boemo ecc. ecc. a un dato simil-bowiesiano come Spaceman, parente stretto dello Starman di Ziggy Stardust, il tutto a formare un ircocervo di ardua interpretazione, sullo stile della tomba rumorosa o della candida notte. 

Si parte con una ipotesi di primo acchito assurda e vagamente ridicola: la conquista dello spazio da parte della Repubblica Ceca e la scelta di Jacub Prochàzka – scienziato non particolarmente brillante – come cosmonauta alla conquista del pianeta Venere. Il povero Jacub deve rinunciare alla sua adorata fidanzata, Lenka, con la quale sta attraversando un momento di crisi, per avventurarsi nello spazio sconosciuto, a bordo di uno shuttle battezzato JanHus 1, in un viaggio condotto in perfetta solitudine. La spedizione sembra procedere con successo almeno fino a quando un misterioso alieno, simile a un ragno ingrandito migliaia di volte (non casuale, probabilmente, la somiglianza volta in parodia con una certa, nota blatta kafkiana) non compare sulla navicella, iniziando a perseguitare il protagonista con domande inopportune, troppo impegnative o vagamente assurde, tentativi di sondare il suo corpo per comprenderne l'origine e raccontando dei misteriosi ordini della sua tribù. Impegnato con i compiti normali per un cosmonauta e nei dialoghi frustranti con Hanuš l'alieno, a Jacub rimane comunque il tempo per struggersi per l'incomprensibile condotta della sua Lenka e per riflettere sulla sua infanzia e adolescenza, in gran parte vissute all'ombra del nonno – eroe del regime e/o traditore del popolo – e per meditare senza scopo sulla sua presenza sull'astronave. 

Un incidente decisamente più serio interviene a spezzare lo strano procedere delle sue giornate. Costretto ad abbandonare la JanHus 1 viene salvato della NachaSlava 1, un'astronave russa, ovvero la personificazione della nemesi dei cechi e della storia ceca degli ultimi settant'anni.

Un romanzo bizzarro, impregnato di un gusto acre per una satira sardonica, capace di riassumere in un testo stralunato diversi decenni di storia cèca e di presentare con rabbia trattenuta e divertita i tipi umani che contrassegnano i passaggi dal nazismo al comunismo al capitalismo di rapina attualmente al potere. Un  testo notevole e a suo modo spassoso che consiglio volentieri a chi apprezza la letteratura cèca e il suo gusto secolare per il nonsense e l'assurdo e, in subordine, a chi si pone domande sul patto di Visegrad e che non comprende i motivi della politica dei paesi dell'Est. Importante: non abbandonarsi a una riflessione più puntuale e attenta sulle meditazioni e i ricordi di Jacub, soprattutto se si ha a cuore il futuro della UE: potreste pentirvene.

A adesso cambiano nettamente genere e tipo di libro. Siamo a La mente del corvo di Bernd Heinrich, Adelphi 2019, trad. Valentina Marconi, collana Animalia, pp. 556 (!). 

Tema del libro è, evidentemente, lo studio puntuale e attento della vita, la condotta, la nutrizione, i rapporti sociali e familiari, le attività volte alla riproduzione, alla ricerca del cibo e al gioco del corvo imperiale (Corvus corax), il più grande tra i  corvidi, specie diffusa in Europa, in Siberia e nell'area Nordamericana. Se, come me, siete appassionati di corvi e dei loro parenti in area cittadina – le cornacchie grigie e le gazze – non dovete farvi sfuggire questo libro, un baedecker ricco e ragionato sul comportamento dei corvi, condotto per anni su diverse generazione di corvi, faticosamente osservati in natura o sottratti ai loro nidi per assistere alla loro crescita. Il risultato è uno studio approfondito di vita dei corvi, presentata nei diversi capitoli: Trovare casa; Caccia e ricerca del cibo, l'adozione; La percezione sensoriale; Il riconoscimento indivuale; La comunicazione vocale; Status e dominanza; Le paure dei corvi; Scorte, furti e inganni; Moralità tolleranza e comprensione; Il gioco secondo i corvi; Cervello e capacità cranica. Segnalo in particolare il penultimo capitolo, I corvi hanno coscienza ed emozioni?, dove l'autore riflette in particolare sulle insufficienti o deficitarie modalità di definizione della coscienza: 

Non possiamo definire o comprendere appieno la mente, in parte perché non potrà mai essere scomposta in unità semplici come i geni, essendo una proprietà risultante dalle complesse interazioni tra miliardi di neuroni. 

Ciò che l'autore sottolinea più volte è la capacità di mantenere per lungo termine ciò che per altre specie è un riflesso momentaneo: 

Poiché i corvi creano legami duraturi, la mia ipotesi è che si innamorino come accade a noi, semplicemente perché per mantenere un legame e lungo termine è necessario un qualche meccanismo di ricompensa interiore. […] I nostri valori sono soddisfazioni sul piano emotivo che ci consentono di compiere azioni di per sé senza senso e che non forniscono alcuna ricompensa immediata. Lo stesso vale per un corvo che tira uno spago. L'uccello non ottiene alcuna ricompensa dai singoli passaggi intermedi prima di raggiungere il cibo. 

E la sua conclusione è che:

Le mente, come la vita e la vitalità, è una proprietà emergente ed è un fenomeno tanto storico quanto fisico […] La coscienza non è un oggetto finito. È un continuum senza confini. 

E se avete dedicato qualche minuto del vostro tempo a osservare come una cornacchia riesce ad aprire la castagna di un ippocastano semplicemente facendola cadere dall'alto di un lampione, non avete bisogno di altri motivi per leggere questo libro. 

Piccola nota, nata dalla curiosità sulla personalità di uno scienziato che ha dedicato buona parte della sua vita a salire e scendere dagli alberi per studiare i suoi amati corvi. Il professor Heinrich è un professore emerito di Biologia all'Università del Vermont ma la sua nascita nel 1940 in Germania, i suoi studi iniziali nello Schlewig-Holstein e la pratica con la lingua tedesca è testimoniata dal capitolo 3 (Un corvo in famiglia), che da solo merita il prezzo non irrilevante del libro e dal capitolo 7 (Trovare casa). Interessante sapere che a questo libro Heinrich ne aveva fatto precedere un altro, Corvi d'inverno e che l'autore oltre ad essere uno studioso del comportamente animale è uno dei più accreditati esperti per quanto riguarda la fisiologia degli insetti. 

Per concludere mi occuperò brevemente dell'antologia nella quale è apparso il mio racconto «Un rifugio a Baba Yaga», titolo Mondi paralleli, il meglio della fantascienza italiana indipendente 2019, curata  da Carmine Treanni e che contiene opere di quattordici autori, a suo tempo pubblicate in diverse antologie e amorevolmente spulciate dal curatore a costruire una rassegna molto variata negli spunti, nelle idee e in generale nella capacità di costruire una storia breve compiuta e appassionante. Uno sforzo notevole, soprattutto tenendo conto dello scarso appeal del quale godono i  racconti nella tradizione letteraria italiana, considerati non tanto un tipo di narrativa peculiare e indipendente quanto esempi di bozzetti – spesso maldestri – stesi da chi è incapace di scrivere un romanzo. A titolo di esempio personale mi ricordo ancora quando, a una presentazione della mia prima antologia, In controtempo, ho ricevuto tra i complimenti un paio di osservazioni tipo: «Carini, i racconti, ma quand'è che ti metterai a scrivere sul serio?» Inutile far osservare che un'antologia di racconti – e il lavoro di scelta e accostamento – può costare in tempo e fatica quanto un romanzo: semplicemente non si viene creduti e sempre considerati con l'occhio mezzo divertito e mezzo cinico da: «Ma, dai, non prendermi in giro.»

Ciò detto passo a presentare rapidamente i racconti, essenzialmente quelli che hanno incontrato di più i miei gusti, quindi non «i più belli» o «i più fichi» o «quelli che spaccano» ma semplicemente quelli che mi hanno regalato qualche attimo in più di sogni, visioni, brividi o commozione. 

Cornucopia di Linda De Santi è un racconto gelidamente crudele e insieme stranamente forte, deciso come una rasoiata. Il destino delle sue sue "fate", scaturite da una "Frattura" nel nostro spazio-tempo e divenute cibo per palati raffinati, finisce per identificarsi con il nostro destino, rendendoci corresponsabili del nostro fato.

Il grande errore di Claudio Chillemi è un racconto molto breve e basato su un meccanismo narrativo che, se ben preparato, scatta infallibilmente. In sostanza si tratta di scegliere un punto di vista personale e, approfittando della sospensione di incredulità del lettore, condurlo a credere ciò che non è dimostrabile. Il finale del brevissimo racconto è perfetto nel suo registro amaramente ironico. 

Il corpo di Luigi Musolino è un apologo, costruito su una visione surreale: un gigantesco corpo morto sospeso su una città. Il destino di quel corpo è quello di un cadavere qualunque e la sua corruzione e decadenza si identificano con il termine per la nostra specie. Un po' meno convincente il finale moraleggiante, ma un racconto comunque magistrale. 

Collasso domotico di Carlo Menzinger di Preussenthal è un racconto basato su una semplice riflessione: «Che cosa accadrebbe se la luce non tornasse?», pensiero che credo ognuno di noi abbia prodotto durante un momento di black-out. L'autore si basa su questo semplice tema e lo svolge in maniera perfetta, conducendoci per mano nella rapidissima discesa verso la barbarie. Una narrazione che non si dimentica.

Il vecchio blaterone di Nicola Catellani è una piccola storia di quelle che si ha la sensazione di aver letto da qualche parte, un po' di tempo fa, ma ha per nocciolo un tema eterno, che rende ragione del nostro scrivere e raccontare. Con sottile umorismo l'autore ci racconta esattamente la storia che volevamo ascoltare, come migliaia di anni fa e come tra migliaia di anni.

La scomparsa di Matteo Sanniti di Paolo Aresi era presente nell'ottima antologia Fanta-Scienza, pubblicata nel 2019. La costruzione del racconto è classica: lo scienziato che, da solo, giunge a una scoperta rivoluzionaria, la prova su stesso e finisce per pagare di persona le conseguenze del suo gesto prometeico. Non c'è altro da aggiungere, credo. Ottimo racconto. 

E con quest'ultima recensione ho finito. La colonna di libri da recensire è nettamente diminuita, anche se non scomparsa, e quindi dovrò ritornare qui tra qualche tempo, anche perché ho quasi finito la lettura di altri due libri che andranno a rimpinguare la pila. Quindi, arrivederci a presto!


 

2.12.20

Dopo lunga attesa…


Buongiorno a tutti i superstiti, ovvero tutti coloro che sono passati più volte di qui nella speranza che il Nostro si decidesse a scrivere qualcosa di nuovo. Bene, è accaduto.

«Ma in fondo alla tua età di cosa vuoi parlare? Cosa vuoi che ti sia capitato? Nulla o giù di lì.»

In realtà di cose me ne sono accadute tante, alcune delle quali tutt’altro che positive – ho scoperto di avere il diabete e, oltre a questo, devo farmi operare all’aorta addominale – ma anche qualcuna positiva, come il dato di fatto che la mia Silvia ha finalmente ottenuto un successo – ovviamente relativo, trattandosi di fantascienza italica – con la curatela insieme a M.Caterina Mortillaro dell’antologia “Divergender”, la pubblicazione di un fenomenale racconto come Zero e la partecipazione all’antologia “Assalto al Sole”. E altre cose stanno bollendo in pentola, ma delle quali parlerò in seguito.

Per quanto mi riguarda posso enumerare l’uscita di ALIA Evo 4.0, antologia nata tardi ma comunque viva e vitale, con la partecipazione straordinaria di Sergio Gaut Vel Hartman, autore argentino di antica data e lunga carriera, e altri 14 racconti dei soliti noti, tutti al loro massimo. È anche uscita una recensione di Romina Braggion che segnalo volentieri (anche se del mio racconto non se ne parla né punto né poco, ma pazienza) e che potete leggere qui

 

 

Oltre a questo segnalo l’uscita dell’antologia Mondi paralleli [Delos Ed.], il meglio della fantascienza italiana indipen-dente del 2019, che ospita un mio racconto, «Un rifugio a Baba Yaga», testo uscito in origine su ALIA 3 (2007), ripreso in Isole nella Corrente (2019). antologia pubblicata nella collana ALIA Arcipelago e infine ripescato dal buon Carmine Treanni per la sua antologia. Non parlerò di altre cose alle quali ho lavorato o sto lavorando e vengo a ciò che intendo fare in questo post: parlare di libri letti.

Qualcuno ricorderà la mia abitudine di impilare i libri da recensire sulla scrivania e di come ero costretto a fare una rapida serie di rece per liberare parte della scrivania, bene, ora sono stato costretto a fare un po’ di posto sullo scaffale vicino per sistemarvi (in qualche modo) i libri non recensiti. Alcuni li ho anche presentati su LN-LibriNuovi ma per la maggior parte sono rimasti a prendere polvere su uno scaffale in attesa di una possibile rivincita.

Non garantisco di recensirli tutti, né che le mie presentazioni saranno utili a qualcuno, ma non sopporto più di vederli acquattati a coprire i libri alle loro spalle, con un atteggiamento generale di immusonita tristezza. 

 

 

Il primo della serie, scelto per le dimensioni tutt’altro che modeste è L’assassinio del commendatore, di Murakami Haruki [Einaudi], corposo romanzo in due volumi. «Commendatore» è una parola che non ha praticamente traduzione in giapponese, come Murakami ci fa sapere, e il protagonista deve tradurlo in qualche modo, utilizzando una forma cortese risalente al medioevo nipponico. Il commendatore del titolo è la persona trucidata in duello da Don Giovanni nel corso della vicenda narrata da Da Ponte e musicata da Mozart e che appare in un quadro ritrovato dal protagonista nel sottotetto della casa appartenuta a un grande pittore giapponese: Amada Tokohito. Curioso che Amada abbia impacchettato il quadro senza averlo distrutto, ma facendo in modo che nessuno potesse ritrovarlo, curioso e inspiegabile come il fatto che il grande pittore dopo un periodo nel quale di era dedicato alla pittura moderna, dopo il ritorno da Vienna si sia interamente rivolto al Nihongo la pittura tradizionale nipponica. Ma è solo il primo dei misteri che dovrà affrontare il protagonista dei due volumi e narratore in prima persona – mai citato con nome e cognome, a ribadire il legame profondo tra l’autore e il suo personaggio.

Tra i personaggi appare un certo Menshiki (il cui nome significa «colori scomparsi», e che richiama inevitabilmente alla mente «L’incolore Tazaki Tsukuru» del romanzo precedente) un vicino ricchissimo e che ama vivere appartato, che sarà il testimone del mistero che gradualmente avvolge il protagonista e la sua strana casa. Il flebile suono di una campanella che suona nel folto del bosco è il primo elemento che lo spingerà a indagare sulla vita di Amada e sulla rottura che lo spinse ad abbandonare Vienna e la pittura moderna, giungendo a dipingere il quadro, carico di insensata ed esibita violenza e di un mistero inspiegabile.

Il commendatore e la sua morte sono il vero centro della narrazione, il piccolo commendatore – letteralmente “estratto” dal quadro e che soltanto il protagonista riesce a vedere e a parlargli mentre vive nella sua casa – costituisce un contrasto paradossale con l’esagerata violenza della scena alla quale appartiene ed è il viatico al mondo sospeso tra la realtà e il sogno nel quale sono ambientate le vicende narrate.

La sensazione del lettore, al di là della viva simpatia per Murakami, è di avere a che fare con un romanzo indeciso fino allo sfinimento, un ricco dono nascosto da un’imbottitura eccessiva e ridondante, un romanzo nel quale l’autore non riesce – o non vuole – decidere tra il reale e il fantastico, facendo del suo abituale esercizio di equilibrio una pericolosa esibizione sulla corda. Il libro si lascia leggere volentieri, intendiamoci, ma lascia comunque la sensazione di molte idee spese – dal protagonista capace di comporre ritratti nel quale coglie le caratteristiche essenziali dell’io del modello, fino all’imperturbabile Menshiki, individuo fin troppo misterioso – senza giungere a un climax definito e a una risoluzione precisa. Si leggono le 850 pagine de L’assassinio del commendatore senza riuscire a individuare un filo rosso che unisca i diversi elementi via via narrati. In sostanza è la presenza del protagonista/autore a fungere da collante e a rendere il tutto non solo digeribile ma anche gradevole, fermo restando la netta sensazione che manchi “qualcosa” e che, volendo, il romanzo avrebbe anche potuto raggiungere le 10.000 pagine senza che l’autore riuscisse a vincere la sua ambiguità e trovare una nota risolutiva. Ciò detto, penso che comprerò e leggerò anche il prossimo libro di Murakami Haruki.

 

Molti anni separano L’assassinio del commendatore da Vento e Flipper, sempre di Haruki Murakami, pubblicato da Einaudi nel 2016 ma la cui edizione originale risale al 1979/1980. Si tratta in sostanza dei primi due romanzi brevi scritti da Murakami «mentre gestisce il suo jazz bar a Tôkiô» e che, peraltro, per volontà dell’autore, non sono mai usciti dal Giappone nei primi anni. Due romanzi brevi, si diceva, lo stesso protagonista – anonimo – e diversi personaggi giovani che discutono e meditano sulla vita, tra questo «il Sorcio», giovane forse più annoiato che disperato. Ciò che avviene nei due romanzi, evidentemente connessi tra loro, non ha molto di spettacolare: storie d’amore inconcluse, incomprensioni, perdite di innocenza, la ricerca di un flipper leggendario e un protagonista che assiste a quanto gli accade intorno con un trasparente desiderio di fuggire di lì, cosa che inevitabilmente farà. Di piacevole c’è il modo di narrare, tanto evidentemente minimale da richiamare alla mente Raymond Carver – Murakami ne è stato il traduttore – e in grado di evocare con poche parole il «colore» di una vita. Non voglio raccomandarne l’acquisto ma diciamo che se vi capita di leggerlo non sarà stato tempo sprecato.

 

Una volta terminato lo spazio – forse eccessivo – dedicato ad Haruki Murakami, per restare nel campo del fantastico, passerò a Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria, ripubblicato da Frassinelli nel 2018 dopo una prima pubblicazione nel 1977 da parte de Il Formichiere che fu sostanzialmente ignorata. Giorgio De Maria non era esattamente un carneade, avendo scritto altri tre romanzi pubblicati da Mondadori, essendo stato un critico teatrale per l’Unità, un commediografo, uno sceneggiatore per la RAI e un membro del gruppo Le Cantacronache, insieme, tra gli altri, a Italo Calvino. Il motivo per il fiasco della prima edizione de Le venti giornate va probabilmente cercato da un lato dell’insufficiente distribuzione dell’editore a suo tempo scelto che – lo so per esperienza personale – faticava a essere presente nelle librerie, dall’altro nel modo molto peculiare di affrontare il tema della narrazione scelto da De Maria.

Di ciò che è accaduto durante le Venti giornate è possibile apprenderne soltanto per frammenti, per accenni, per obliqui riferimenti, ovvero per quanto il protagonista riesce a ricostruire sulla base dei racconti narratigli da diversi personaggi: la sorella di uno dei morti in maniera misteriosa, un avvocato che morirà in circostanze enigmatiche, un altro avvocato che sembra fornirgli qualche elemento che spiega la persistenza del clima malato della città, uno sconosciuto con il quale avrà un curioso rapporto epistolare. Nel corso delle sue indagini emerge ben presto un’entità, la Biblioteca, aperta presso La Divina Casa della Divina Provvidenza – nota a Torino come il Cottolengo – una sorta di social network in netto anticipo sui tempi, dove ognuno è chiamato a scrivere di se stesso, nell’assurda speranza che qualcuno legga i suoi testi. E procedendo nella lettura ci si rende conto che ciò che è avvenuto – qualunque sia l’orrore avvenuto pochi mesi prima – può accadere di nuovo e che Torino non può che essere il Luogo nel quale tutto succederà ancora.

Un piccolo testo che sembra voler ricapitolare in forma di riferimento il fantastico del XX secolo, da Kafka a Borges, a Hope Hodgson, a H.P.Lovecraft, a Landolfi tutti citati con rapidi e celati riferimenti, fino alla chiusa del romanzo che sposta l’intero testo su un terreno ultraterreno, quasi a confermarci che dalle «venti giornate» non esiste salvezza.

Ho letto il libro per ben tre volte, ogni volta stupito dalla sua capacità di affascinare senza cedere ad alcuna osservazione razionale. Oltre a questo, dal momento che ogni giorno mi muovo nella metropoli raccontata da De Maria, in Corso Stati Uniti, in via Vincenzo Vela, in piazza Solferino, in via Castelfidardo (nella sua antica disposizione, ora obliterata dal passaggio di un grande viale che attraversa gran parte della città) è praticamente inevitabile portare con me le immagini sbiadite ma vagamente terrificanti dell’orrore che ha posseduto la città, una città che «non è la Torino inoffensiva e po’ da cartolina fané […] ma la città [dove] i demoni covano sotto la cenere» (dalla postfazione di Giovanni Arduino).

Ne consiglio la lettura? Beh, certo, preavvisando però i lettori di non attendersi un romanzo a forte tinte e carico di sangue e di misteri urlati, quanto un breve romanzo (150 pagine, non di più, semmai di meno) in grado di spaventare anche e soprattutto a distanza di giorni.

 

Dal momento che ho parlato di William Hope Hodgson, passo ora a presentare brevemente Acque profonde, il secondo volume dei suoi racconti di mare, apparsi tra il 1912 e il 1914, pubblicati in Italia dalla benemerita Edizioni Hypnos, tradotti da Elena Furlan e con l’ottima curatela di Pietro Guarriello. Aggiungo che Hypnos ha raccolto i racconti di mare in un tre volumi, dei quali due già pubblicati e il terzo in arrivo.

Hodgson nel corso della sua vita scrisse quattro romanzi e un centinaio di racconti e, oltre che scrittore, fu anche marinaio e fotografo. Questo volume raccoglie dieci racconti, tra i quali due capolavori del genere fantastico, «Il relitto» e «La nave di pietra» ai quali aggiungo volentieri «Le campane della Laughing Sally» che non è un testo fantastico in senso stretto ma che a partire da un elemento spettrale di forte presa risale lentamente a spiegazioni assolutamente naturali, un po’ come Il castello dei Carpazi di Jules Verne.

In generale si tratta di buoni o ottimi racconti di ambientazione marinara con, come ambientazione preferita, il mar dei Sargassi, presentato come incubo necessario nel quale, come «Nei profondi abissi» può capitare di incontrare un terrificante mostro marino, sul modello in seguito ripreso in grande stile da H.P.Lovecraft. Quanto ai due racconti considerati capolavori del genere, magistrale «Il relitto», una nave abbandonata popolata da una creatura inumana e assassina e potentemente suggestivo «La nave di pietra», con il suo enigmatico antico vascello interamente costruito in pietra.


 

Sempre nell’edizione Hypnos, collana Biblioteca dell’Immaginario, è anche Sub Rosa, tutti i racconti fantastici 3, di Robert Aickman. L’autore è stato attivo nella seconda metà del ‘900 ed è stato un appassionato cultore della ghost story classica, sul modello dei “due James” (Henry e Montague Rhodes) e di Walter De La Mare.

Racconti interessanti, se non altro per la possibilità per chi legge di paragonare un racconto gotico scritto nel corso del XX secolo con i maestri del genere, che hanno generalmente operato alla fine del XIX secolo e nei primi anni del XX. Come se la cava Aitken? Con onore, anche se è inevitabile la sensazione di deja vu nel suo modo di raccontare – in prima persona, con la visione necessariamente limitata tipica del genere – e nelle vicende che corrono sul limite sottile dell’equilibrio tra realtà e sogno.

Comunque particolarmente meritevoli di lettura La stanza interna, dove la scelta inconsueta di un narratore al femminile riesce ad accrescere la drammaticità del racconto, La polvere sospesa, che, a parte la forte suggestione, ha anche il pregio forse involontario di ammantare la tradizionale avita dimora britannica di una quantità non casuale di polvere e Le case dei russi, racconto trasognato e dall’ambientazione non scontata. E l’ambientazione non ortodossa è una delle caratteristiche senz’altro originali dell’autore, un appassionato di viaggi che il curatore dell’antologia, Andrea Vaccaro, presenta così:

«Tutti viaggi letterari in Sub Rosa sono riflesso di altrettanti viaggi dell’autore: il paese di Unilinna descritto in Le case dei russi si basa sulla cittadina finlandese di Savonlinna […] l’inquietante paese di Nel bosco fa riferimento alla cittadina svedese di Östersund, e la vicenda descritta ne I ciceroni riprende minuziosamente una visita alla cattedrale belga di Antwerp dello stesso Aickman.»

Quanto infine alla femme fatale presente nel racconto Mai dimenticare Venezia risulta parte del fascino fatale della città lagunare, che l’autore non può che raccontare con accenti decadenti e con una passione febbricitante che risulta sin troppo caricata, preannunciandone con largo anticipo lo scioglimento. Ciò detto un’antologia che non guasta per un appassionato di gotico. 

 

Ultima, per questo giro, l’antologia pubblicata da Frassinelli nel 2019 e che raccoglie otto racconti di Ted Chiang, Respiro, titolo di uno dei racconti. Premetto che alcuni dei racconti qui pubblicati (Il ciclo di vita degli oggetti-software, pubblicato da Delos nel 2011, Cosa ci si aspetta da noi, pubblicato da CS_libri in ALIA Anglostorie nel 2008, per la traduzione di Davide Mana) sono già apparsi in Italia ma con una distribuzione (ahimé) insufficiente e/o limitata al pubblico abituale della sf. La presenza in questa antologia costituisce per molti lettori il primo modo – o il secondo dopo Storia della tua vita – per conoscere Chiang.

Il racconto che apre l’antologia, Il mercante e il portale dell’alchimista, affronta un tema abituale per la sf e per il paradosso dei viaggi nel tempo, ovvero se è possibile, modificando il passato, che tale cambiamento possa cambiare la realtà contemporanea. Chiang affronta il tema a suo modo, ambientando la narrazione nell’Arabia delle Mille e una Notte e dimostrando che cambiare il presente mutando il passato è un’impossibilità pratica e che combattere per farlo è un incubo senza uscita.

Respiro è un delicato gioiello. Raccontato con il consueto distacco trasognato tipico di Chiang, narra della scoperta da parte di un appartenente a una specie altamente civilizzata della fine imminente della sua gente, condannata dal lento crescere dell’entropia negativa. Il fatto che sia il respiro l’elemento fondamentale della loro sopravvivenza e della loro fine è un dato che riesce a rendere ancor più raffinatamente struggente il racconto. Cosa ci si aspetta da noi è un racconto brevissimo che affronta il tema del libero arbitrio, con conclusioni disperanti, mentre Il brevetto della Tata Automatica di Dacey è una storia dell’incontro tra intelligenza umana e macchine, con esiti comicamente drammatici (o drammaticamente comici). Il ciclo di vita degli oggetti software è stato recensito qui,  e mi sembra poco serio ri-recensirlo. Omphalos e Il grande silenzio sono due ottimi racconti, il primo incentrato sul «tradimento» perpetrato dall’Altissimo nei confronti del genere umano e lo stupore disperato di chi ha davvero creduto il Lui, il secondo sull’esistenza di una seconda razza intelligente sul nostro pianeta, condannata all’estinzione per semplice «distrazione» della nostra specie. La verità del fatto, la verità della sensazione è basato su un tema a ben pensarci diabolico: l’impossibilità di dimenticare mentre L’angoscia è la vertigine della libertà parte dalla possibilità di vivere “in differita” la vita di un altro sé in una Terra alternativa, con i confronti, le delusioni e le speranze nate da questa facoltà. Un racconto forse un po’ dispersivo, soprattutto in rapporto alla consueta stringata asciuttezza di Chiang, anche se comunque meritevole di lettura.

Ted Chiang non è uno scrittore che racconta di un futuro più o meno lontano e più o meno verosimile – anche se non vi è assolutamente nulla di sbagliato, riprovevole o volgare in questo – quanto piuttosto un autore che sceglie di occuparsi di temi non facili, come tutti quelli che riguardano profondamente il nostro essere-nel-mondo, temi come la fede, la comunicazione, le emozioni, la solitudine, la comprensione, il ricordo, l’ansia per il futuro o la sua accettazione, il rimorso, il dolore. Uno scrittore impossibile da incasellare in un ben preciso genere, il che, lasciatemelo dire, è una rara e felice facoltà.

Ciò detto saluto i coraggiosi che hanno letto per intero questo lunghissimo post e gli prometto che tornerò presto. Ho ancora nove-libri-nove da recensire...

 


 



6.4.20

Il Mare Obliquo 60 (Ultimo della prima parte)




E con il numero sessanta si ferma la prima parte de il Mare Obliquo. Come spiegavo nella scorsa puntata la seconda parte è in fase di costruzione, ma ci vorranno alcuni mesi per vedere la prima puntata. Spero che questa prima parte vi abbia se non altro distratto e condotto poco a poco in uno strano e bizzarro mondo. Come continuerà il blog, onestamente non so ancora dirvelo, tenendo conto anche del momento... In ogni caso grazie a chi ha letto, integramente o anche solo in parte e arrivederci e a  rileggerci presto. 
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Una parete solida di nebbia dove i loro passi suonano dispersi, spaventati. Il pavimento di Maurr mostra crepe, incrostazioni di splendore. L'erba luminosa, venata di sottili ragnatele brune è divenuta più alta e il rumore, un boato immane che sembra provenire da ogni lato della caverna, rende loro impossibile anche solo scambiarsi una parola.
Klog si passa la mano sul viso, nemmeno lui saprebbe dire se bagnato di umidità o di sudore. Cammina curvo, fissando l'ombra opaca della strada. Lì, su quel sentiero in leggera salita che corre sottile tra alberi altissimi ha dimenticato perfino il timore per i Mela e si affanna a cercare di non perdere il contatto con gli arcieri Oscuri. Questi non mostrano emozioni né stanchezza e non sembrano più turbati che durante una marcia di esercitazione.
Plinio e Matushka camminano vicini, scambiandosi ogni tanto piccoli gesti di conforto: un tocco sul braccio o un buffetto sulla spalla. Non l'aveva mai pensato, Klog, ma vederli così affiatati e amici gli suscita insieme una sensazione di solitudine e un brivido di piacere. Mai gli era accaduto di sentirsi solo: «forse sto invecchiando» pensa «o forse, semplicemente sto maturando... anch'io sarei felice di avere una dhovinje, mezza donna e mezza fata, che marcia accanto a me, che mi dimostra affetto e della quale preoccuparmi... che pensiero buffo... invece...» guarda il neek che procede di buon passo, il volto bagnato di nebbia e gli occhi puntati nei varchi chiari tra gli alberi a cercare la sorgente di tutti i mari dell'orlo del mondo.
Non sa cosa pensare del mezzo-notturno. I momenti nei quali lo incuriosisce e quelli nei quali lo detesta si equivalgono. Ma si può provare simpatia per una persona che non riesce a tollerare la propria stessa esistenza? Non servirà a molto, al neek, trovare le Acque del Centro. Comincerà subito dopo a cercare altro, un'altra fissazione turberà la sua mente, un'altra passione visiterà i suoi sogni rendendoli inospitali, aridi e affannosi. Klog sente che il suo cuore ha adesso un nuovo peso, sa che i fratelli immobili l'hanno riconosciuto, ne hanno fatto il loro araldo, la loro voce. Una parte di sè vorrebbe ribellarsi, ritornare alla condizione di pelosetto dispettoso nella quale è cresciuto e ha finora vissuto, ma le loro voci glielo impediscono. Sa che basterebbe fare il vuoto nei pensieri per ritrovarli, per sentirli, per diventare come loro. Testimoni dei grandi cieli che scorrono rapidi, di acque e stagioni, sentinelle della regolarità del mondo, del suo grande ciclo. 

 
Un vento leggero muove la nebbia, forma immagini velate, illusioni scintillanti. Basso Ohkme fissa ogni minima cosa con lo sguardo affamato dell'artista che ha timore di veder impallidare nel ricordo la bellezza di quel luogo. Il boato profondo fa vibrare la terra sotto i loro piedi, le acque del centro si avvicinano.
La strada di Maurr si interrompe. La nebbia si è alzata, gli alberi sono scomparsi. Il cielo basso è carico di riflessi viola e grandi nubi ruotano lentamente come in un incubo rallentato. Camminano sentendosi tanto minuscoli e indifesi da non riuscire più a comprendere neppure se sono vivi o no. Solo il cielo a ruota della caverna e il boato, un boato tanto immane e continuo da essere divenuto inafferrabile.
L'Oscuro non ha bisogno di parlare. Li chiama verso il limite della strada e indica l'abisso. Sette grandi corsi d'acqua, ciascuno largo centinaia di braccia precipitano nel buio. Sette fiumi d'argento si gettano senza sosta nel gigantesco varco che conduce al buio delle profondità della terra.
Gudre-Yinnu si inginocchia sul bordo di roccia per cercare il fondo del titanico passaggio. Ma non si vede fondo, non si coglie alcun movimento. Tanto profondo deve essere il pozzo che da esso non sale vapore, come se la cascata si frangesse tanto più in basso che nulla da esso riesca a fuggire.
Gli Oscuri osservano lo spettacolo con la loro stessa intensità. Evidentemente non è possibile che uno spettacolo di una misura tanto superiore a quella dei viventi divenga un'abitudine.

Le macchine volanti, fatte della stessa stoffa della quale sono tessuti i mantelli degli Oscuri riposano sotto una gigantesca tenda. Sono tre enormi palloni, lunghi, leggeri e carenati come navi, trattenuti a terra da corde coperte di Maurr. Al loro ventre sono assicurate grandi ceste.
Un Oscuro prende posto in un curioso abitacolo di legno posto a prua della nave e gli altri prendono posto nelle ceste. Li imitano, troppo storditi dal rumore e dallo spettacolo per aver voglia di discutere. Sicuramente non esiste altro modo per valicare l'abisso delle Acque del Centro.
Si alzano in volo silenziosamente, mossi dal vento circolare che agita gli alberi affacciati sull'immane gorgo.
Klog si ritrova nella cesta con Basso Okme e un paio di arcieri Oscuri. Nessuno proferisce parola, ben conscio che comunque nel fragore delle acque che precipitano nell'abisso qualsiasi altro suono sarebbe inafferrabile.
La nave costeggia i bordi dentellati delle terre che si affacciano sulle acque del centro e si solleva verso le grandi nubi che danzano appese all'altissimo soffitto di roccia della caverna. «Si sale» si dice tra sè. «Speriamo di non andare a battere una bella capocciata. E poi finire a testa in giù nell'acqua.» Si sporge leggermente. Riesce solo a scorgere le acque bianche di schiuma che precipitano nell'ombra insondabile. «Là sotto ci sono gli altri regni dei quali parlavano gli Oscuri. Dove ci sono le ombre-locusta. Già solo il nome mi dà i brividi.» Ma forse è solo il freddo umido a farlo rabbrividire da capo a piedi.«Se cascassi a capofitto a testa in giù dove sbucherei? Mi piacerebbe chiederlo a qualcuno di questi signori-che-sanno-tutto. Dall'altra parte del mondo o semplicemente nell'increato?»

27.3.20

Il Mare Obliquo 59

Questa è la penultima puntata della prima parte de "Il Mare Obliquo". La situazione è a un punto di svolta con la fine di Artamiro e la guerra tra gli antichi popoli e i nuovi umani. Della seconda parte ho diversi appunti ma nulla di definito, ma non appena avrò qualcosa di leggibile provvederò a pubblicarlo. In ogni caso arrivederci alla prossima e ultima puntata e grazie a chi mi ha seguito finora.
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Il comandante degli Hymn, un gu'Hijirr di mezza età, pallido e sottile come un notturno fa scivolare sulle spalle l'elmo di cuoio e metallo e scende da cavallo.
– Signori, grazie! – Pronuncia inchinandosi profondamente.
Il piccolo drappello di salvatori di Ulfa si inchina a sua volta. Oakin sorride. – Gik, ked'hain golt! È stato un vero piacere!
– Io sono Malliai, degli Ziudan di Ulfa. – Si presenta l'ufficiale. – E sarò felice di scortarvi fino al palazzo della Lega. – Getta un'occhiata al Notturno, poi incapace di resistere gli si rivolge: – Signore… Siete solo?
Usif-Lizhi annuisce. – Sì sono solo.
– E da solo… – Malliai sembra deluso – I nemici fuggivano urlando il nome dei Notturni e io ho pensato… Ecco, ho pensato che fossero scesi a migliaia dalle loro rocche, per combattere contro gli amici dell'Arciduca Konstantin, usupatore del trono di Dancemarare.
– Era Artamiro il re dei Cancelli d'Occidente, quando siamo partiti. – Interviene Usimbal.
Malliai degli Ziudan scuote il capo. – A Canddermyn i soldati di Dancemarare hanno consumato il loro tradimento. Hanno ucciso Artamiro e con lui migliaia e migliaia di Syerdwin, Gu'hijirr e Lupi-Drago. Una notte è durato il massacro, poi al mattino sono venuti Deshigu e Nivel'Iun di Verhida a salvare chi era rimasto in vita. Pochi, in verità.
– … Volete dire che ora…
– Ora siamo in guerra con i Cancelli d'Occidente, Marr di Ruthen e Lö. Re Tydly il testardo regna a Farsoll e Teardraet regna a Dharlemhiun, insieme con le Marr di Therrelise marciano verso Dancemarare per abbattere l'Usurpatore. E noi…
– … Siamo stati traditi e abbandonati. Il denaro di Dancemarare corre a fiumi per queste terre, serve per corrompere funzionari e ufficiali, per comprare le armi per i popoli del Kie. Delle cinque città delle Lega ancora tre resistono. Uxsiel Flynnen è abbandonata, Villa Lou conquistata dai Semurgh. Hedra e Tiagul Jòn sono assediate e non abbiamo più loro notizie.
Il Fiduciario della Lega è un umano scuro e imponente, dalle mani grandi e dagli occhi neri come l'acqua di un pozzo. È seduto da solo al vertice del tavolo delle conchiglie e indica i posti vuoti alla sua destra e alla sua sinistra.
– La conchiglia Marill di Uxsiel Flynnen è rovesciata. Il Dach di Villa Lou è rovesciato. Forse dovrò rovesciare anche le altre conchiglie. È l'ora più oscura per le Chiuse. Ma oggi… – Allarga le braccia per raccogliere in un solo gesto i marinai della Goren e i loro passeggeri. – Oggi una strana, piccola armata è venuta a salvarci. Scesa dai quattro angoli del Mondo. Oggi ci sentiamo meno soli, meno disperati.
Un enorme urlo di gioia, un'onda di grida, canti e fischi si abbatte sulla piccola compagnia. Proviene da ogni angolo della Sala delle Intese, dai balconcini delle gilde dei mercanti, dai quali assistere agli incontri tra i rappresentanti delle città, dalle porte gremite di soldati e gente di Ulfa, dalle altissime finestre dai vetri colorati di azzurro e viola.
Con un gesto il Fiduciario Tendhai riporta il silenzio nella sala. – Ora che abbiamo sconfitto l'orda del Kie possiamo inviare aiuti alla città sorelle. Ora esiste una piccola speranza. – Il Fiduciario della Lega attende che il clamore e gli applausi cessino per dire: – Siederemo a consiglio. E domani sia giorno di festa e allegria.


– Da dove venite? E qual'è la vostra destinazione, signori?
– Le nostre strade si sono incontrate come i nostri destini. Io vengo da Therrelise, oltre il Grande Circo dei Monti Nuovi, per cercare i nemici che minacciano le nostre terre. Io e il Barone Enklu cerchiamo i fantasmi di un'antica profezia. Khude il Silvano e Mahaderill la fata ci accompagnano. Loro e il Notturno Usif-Lizhi devono giungere al cospetto di Fiediun la Pietra, re di pietre e cristalli che vive oltre le Montagne dell'Orlo. Oakin il marinaio ci ha accompagnati fino qui.
– E non credete, Duca, di aver qui finalmente trovato i vostri nemici? E voi, Oakin, non pensate che il vostro viaggio sia terminato? E in quanto a voi, Khude, Mahaderill e Usif-Lizhi quale strano compito vi spinge tanto lontano in un'impresa tanto disperata? – Il Fiduciario Tendhai disegna forme rotonde con le mani, come ad accarezzare le parole. Sorride quietamente, affascinante come il dio-serpente della gente del Kie. – Ulfa e la Lega hanno bisogno del vostro coraggio e del terrore che i soli vostri nomi possono risvegliare nei nemici. Vi chiediamo un mese, forse due. Quanto basterà perché arrivino i rinforzi da Prospera, da Verdevima e dalle Terre di Godren. Gli ambasciatori di re Tydly sono già venuti e sono stati onesti. Hanno detto: «Il regno dell'Estuario dovrà combattere a fianco di Therrelise e Dharlemhiun contro l'Usurpatore. Ma nelle terre meridionali il generale Djugh Kai dei Rombodoro di Bracewell sta raccogliendo un'armata che risalirà il Drew per venire a voi. Dovete resistere per qualche settimana. Djugh Kai è un grande generale e uomini e gu'hijirr corrono già sotto le sue bandiere». Così ci hanno promesso. E noi dobbiamo attendere e resistere. Le genti del Kie sono numerose ma non sono abituate a combattere insieme. E hanno pessimi ufficiali.
– Abbiamo visto quanto valgono i guerrieri del Kie e delle rocche Muscose. Ma un esercito rapido a disperdersi è altrettanto rapido a tornare sotto le bandiere quando la promessa di bottino è grande. Un'armata nata per rapina non rischia disillusioni e un'orda di attaccabrighe trova sempre un accordo quando si tratta di rubare.
– Non avrei potuto esprimermi meglio, Barone Enklu. Ora sono terrorizzati per aver provato ancora una volta la punta delle lance degli Hymn e soprattutto per aver incontrato sulla loro strada un'immaginaria armata di Notturni. Di Antayul, come li chiamano loro, gli antichi signori del Kie. Ma tale paura scomparirà presto se voi ve ne andrete. È una preghiera, quella che vi rivolgo. Le Chiuse vi debbono troppo per ordinarvelo, ma possono pregarvi. Restate al nostro fianco.
– Che ne è stato della gente di Uxsiel Flynnen?
Nessuno si era accorto che la piccola Moridee non aveva abbandonato la sala con gli altri della Goren. La bambina, seminascosta nel'oscurità, era rimasta accanto alla fata Mahaderill per tutto il tempo, attendendo soltanto un istante di silenzio per porre la sua domanda.
Se il Fiduciario è stupito per la sua presenza si guarda bene dal mostrarlo. – Sono arrivate voci della sorte della gente di Uxsiel Flynnen. Un incantesimo che tuttora non riusciamo a comprendere li ha spinti ad abbandonare la loro città. Ne abbiamo paura perché questo dimostra che grandi forze combattono dalla parte dei nostri nemici. Qualcuno mormora che anche Queidhen l'Unico sia alleato di Konstantin. Comunque la gente di Uxsiel è stata portata alle Rocche Muscose ed è prigioniera dei Semurgh. Così si dice.

Un fremito, il rumore dei cuori che esitano prima di battere un'altro colpo, segue le parole del Fiduciario. Queidhen l'Unico, il viaggiatore della Terra-tra-molti-istanti è schierato con Konstantin contro di loro. La gente di Ulfa sembra loro anche più coraggiosa di quanto avessero pensato. O forse semplicemente più testarda, ciecamente testarda.
– Ma Teardraet, il re dei Syerdwin, è un potente negromante, un nemico all'altezza di Queidhen. Non tutto è perduto, noi non abbiamo perduto ogni speranza. – Il Fiduciario esita , lascia che i salvatori di Ulfa dispongano di qualche secondo ancora per riflettere. – Allora, miei signori, posso tornare a rivolgermi la mia – anzi la nostra – preghiera? Rimarrete accanto a noi per liberare la Lega delle Chiuse dalla minaccia del nostro comune nemico?
– Dipende. Voi, fiduciario, siete ufficiale di re Tydly? – Chiede Oakin.
L'uomo sorride. – Certo, sono la maggiore autorità del regno dell'Estuario a sud di Bracewell.
– Allora, per quanto riguarda me e i miei marinai sarà sufficiente un vostro comando. Ma io devo fedeltà e la mia parola ai nostri passeggeri. È pur vero che non dispongo al momento della mia nave e fuori da essa non possiedo alcuna autorità, ma una parola è una parola. Non solo, noi tutti siamo debitori a questa bambina, Moridee, della promessa di trovare e salvare suo padre. Vedete in quanti modi siamo vincolati, mio signore?
– Forse… – Per quanto la sua voce non suoni forte e decisa quanto quella di un Lupo-Drago, il silenzio permette a tutti di udirla chiaramente e Usif-Lizhi esita, poco abituato com'è ad essere al centro dell'attenzione. – Forse, dicevo, è possibile trovare un accordo, una soluzione. Noi tutti dobbiamo ritrovare il padre di Moridee e alcuni di noi hanno molto viaggiato per giungere a sapere ciò che ora sanno: "che venti tanto forti da scuotere Ruthen e Lö" vengono da Dancemarare.
– Ciò che avremmo potuto ben scoprire anche solo con alcune spie ben pagate nel palazzo reale di Dancemarare. – Commenta amaramente Enklu. – E, a quanto sembra, mentre avveniva il tradimento eravamo troppo lontani e quindi inutili.
– Qui abbiamo combattuto e vinto la nostra battaglia contro l'usurpatore. Non ti crucciare, Enklu. D'altro canto – continua Usif-Lizhi – Non credo esista altro modo per salvare il padre di Moridee se non sconfiggere il Kie e liberare gli uxieliti prigionieri. E infine, penso che, senza una buona e potente scorta, sia impossibile per noi tre. – il notturno indica se stesso, il silvano e la fata – giungere fino alla dimora di Fieduinn la Pietra. Ora, siccome è impossibile chiedere una potente scorta ai nostri amici di Ulfa, impegnati in una guerra dura e difficile, non resta a noi altro da fare che sconfiggere quanto prima i guerrieri del Kie, liberare così il padre di Moridee, tagliare le unghie del nemico di Ruthen e Lö e ottenere l'aiuto degli Hymn per giungere da Fieduinn.
– Questo si chiama parlare! – Il Fiduciario raggiante di gioia si inchina al notturno non osando abbracciarlo. – Per le scarpe della dea Ghudrun, ho davvero assistito a un esempio rimarchevole di uso del cervello. Potrete contare sulla più potente e agguerrita scorta che si sia mai vista attraversare queste terre, mio signore. Una volta sconfitti i predoni, metà degli Hymn saranno al vostro seguito, pronti ad accompagnarvi fino al mare obliquo e oltre, se necessario. 

 
– Grazie. Ci conto. Il nostro compito è estremamente importante. Voi sapete del Cambiamento?
Il fiduciario annuisce aggrottando le sopracciglia. – Una grande magia, un incantesimo terribile che scende dalle terre del nord, così ho udito dire. Rende la terra e quanto la abita simile a sterile cristallo.
– È la manifestazione visibile, tangibile della fine del nostro mondo. – Non siamo chiamati a combatterlo, ma a comprenderlo. – Interviene Mahaderill. – I Notturni sono stati i primi a sentirne l'arrivo. Essi l'attendono come un uomo troppo anziano attende la morte amica. Non si tratta di un incantesimo, credo, ma del respiro del mondo. Solo chi ha visto susseguirsi molti respiri del mondo potrà dirci se dobbiamo temere il Cambiamento oppure no.
Il fiduciario annuisce, anche se dalla sua espressione smarrita non è difficile intuire che ben poco ha compreso delle parole della fata. – Bene, allora. Farò subito preparare delle stanze per voi qui, in questo palazzo. Se siete d'accordo, domani qui, terremo consiglio di guerra.