25.12.17

Una storia per Natale: Il muro delle eriche

Un racconto ripescato casualmente da un'unità esterna del PC, mentre cercavo inutilmente il racconto apparso su Fata Morgana 12, in apparenza assolutamente scomparso o forse salvato con chissaqualenome… Nella peggiore delle ipotesi lo ribatterò da capo. Quanto a questo racconto mi piace l'ambientazione in un momento dimenticato della storia europea, anche se temo che il finale – come capita spesso nella letteratura fantastica – possa risultare non all'altezza del testo. In ogni caso sono molto contento di offrirlo in lettura ai miei amici e lettori. 

 


Le finestre della cucina della servitù si aprono su un vecchio muro.
Da ragazzo andavo a spiarlo, così scuro e incombente. E l'eccitazione era più forte perché io non avrei dovuto essere lì, ed anche se Elsa mi guardava storto rimestando nel paiolo appeso sul caminetto sapevo che non avrebbe fatto la spia.
– Carlo!
Herr Däniken veniva da Potsdam e parlava malissimo la nostra lingua. Probabilmente parlava ancor peggio il latino ma non c'era nessuno nei dintorni che potesse sbugiardarlo. Nemmeno il pastore. Mi chiamava sempre una volta sola, forte come una fucilata. Non osavo pensare a cosa mi sarebbe accaduto se non l'avessi udito.
Preferiva non indagare da dove venissi e a quali bassezze mi fossi ridotto durante la sua assenza – invariabilmente dalle 19.00 del giorno precedente fino alle 14.00 del giorno dopo – per lui era lo stesso. Il tempo che non trascorrevo al tavolino davanti alla porta-finestra a studiare grammatica tedesca ed a uccidere una seconda volta gli autori classici, per Herr Däniken semplicemente non esisteva. Sogni, pensieri, incontri, rimpianti, meraviglie – che pure alle volte gli raccontavo – scivolavano sul suo viso arrossato dal freddo come acqua sulla corteccia di un vecchio albero.
Chiudeva gli occhi, ogni tanto annuiva con un gesto lentissimo che muoveva appena sul viso le ombre grigie del giorno e quando avevo finito faceva un commento, sempre lo stesso, non so se nella sua lingua o in latino, e apriva il libro.
Se fosse ancora qui ascolterebbe i commenti eccitati dei contadini, il riserbo accigliato dei borghigiani, potrebbe cogliere tutta la curiosità e la paura della piccola gente, ma questo non muoverebbe il suo volto a un sorriso di soddisfazione. Lui, prussiano, detestava la casata degli Hohenzollern e con mio padre l'ho sentito più volte affermare che dopo Federico – lui lo chiamava così – la stirpe si era guastata.

Ora posso passare tutto il tempo che desidero a fissare il vecchio muro, coperto di edera e interrato fin quasi a metà della sua altezza, dove crescono le eriche.
Fin quando non arriveranno, proprio da dietro il muro.
Il vecchio Oldenburg se ne è andato da poco e Cristiano ha cercato di mostrare come inizia una dinastia. Ma i nostri soldati non sanno più fare la guerra. Possono azzuffarsi, ringhiare come bambini arrabbiati e testardi, morire come gli altri, ma la guerra no, non sanno più farla. Quella è un'arte da popoli giovani che le dedicano tanto, tantissimo tempo e molta serietà. Ma forse questo è un bene.

Wurts mi ha lasciato la cena in caldo, patate e merluzzo.
Mi siedo a tavola senza nemmeno togliermi la giacca da caccia. Mentre camminavo nel bosco aguzzavo le orecchie per sentire il rumore dei cannoni, ponevo attenzione alle minime vibrazioni del terreno e camminavo teso come un gatto.
Ho udito solo il canto monotono di un assiolo ed il lontano richiamo di una cornacchia grigia. Tra le betulle già svestite dall'inverno anche quei suoni così poveri mi sono sembrati assurdi, falsi, quasi un'imitazione pallida e stonata del mondo che conosco fin dall'infanzia.
Sollevo il piatto rovesciato che Wurts ha appoggiato sul cibo per tenerlo caldo. Le patate sono disposte con cura, quasi con affetto. Ne mancano alcune, poche. Non mi stupisco: mi limito a considerare con curiosità quel furto quasi impercettibile, le due fettine di patata che dovrebbero essere logicamente appoggiate alle precedenti e seguenti, la cui assenza interrompe la regolarità della fila.
Se volesse nascondersi non agirebbe così. Ma so che non è quello che vuole. Sollevo la testa cercando di sorprenderlo. Sarà davanti alla porta-finestra a fissare il grande prato abbracciato dal muro basso, simile ad un vecchio molo interrato. O forse starà guardando il muro delle eriche, passandosi spesso una mano sulla fronte per allontanarne i capelli.
Mangio ascoltando il rintocco regolare del pendolo. La mia famiglia termina con me e i Prussiani saranno soltanto i miei esecutori testamentari. Non so a chi andrà la casa, se decideranno di prendersela. Forse a qualche rat venuto dalla provincia, un burocrate prussiano insignito di onorificenze, precocemente calvo, sudato, infagottato in abiti stretti e scomodi. Un topo carico di sussiego.
Ma forse neppure loro sapranno cosa farsene. Alloggeranno la truppa finché c'è la guerra e poi la lasceranno sporca, con la paglia per terra e i muri ombreggiati di umidità.
Un fruscio nelle stanze di sopra. Starà cercando qualcosa. Fruga nei miei cassetti, nervoso ma cauto. Non vuole che io salga, non vuole incontrarmi. Arrivo sempre un attimo troppo tardi, in tempo per afferrare il rumore di passi affrettati, inuguali. I passi di un ragazzo.
Dopo si impara a controllare tutto, anche il passo. Lo si rende armonico, regolare, lo si controlla, lo si ricorda e lo si attende fedelmente, sempre uguale. Diventa una parte di sé, ciò che gli altri ricordano e sanno di noi.
Mi è accaduto molte volte: unire il rumore dei passi ad un volto, ad un'immagine nota e sapere, sapere prima di vedere.
Gli stivali dei prussiani hanno una cadenza netta, sono un'unica onda dove ogni personalità è annullata.
Basta sentirli una volta per non dimenticarli mai più.


Le assi del pavimento scricchiolano leggermente.
Perché è tornato? Cosa vuole da me?
Allontano il piatto vuoto e bevo un sorso di birra.
Questa casa ha i giorni contati. Questo pensiero mi solleva, ma è un'ironia amara sorridere al coltello che taglia il filo consumato della vita venuta a noia, quando il tempo comincia a ripetersi.
Adesso tengo gli scuri delle finestre sempre aperti. Forse è per lui, o forse per poter sentire la paura quando fisso l'oscurità, appena oltre il vetro.
Le emozioni sono tutte alle mie spalle, nei cinquant'anni di vita che ho attraversato senza fermarmi, senza cercare amore né amicizia.
So che mi spia, nascosto dietro le porte socchiuse, dietro le tende, guardandomi dagli alberi del giardino. Mi rimprovera, ma di cosa? Ho accudito mio padre anziano e paralizzato – o forse dovrei dire nostro padre – anche quando smaniava per l'erba non tagliata, le vacche che nessuno aveva munto, per il vecchio Södeberg che gli avrebbe portato via la terra e che avrebbe condotto le sue bestie a pascolare fin davanti alla nostra porta. Certo gli ho parlato il meno possibile, anche quando piangeva per la mamma, in silenzio e senza pudore come fanno i vecchi.
Non me l'ha mai detto ma sapevo che era per lei, morta dieci anni prima, e mi prendeva una furia silenziosa a vederlo. Mia madre era stata sua moglie e lui la piangeva come si piange un amore, una donna qualunque che si stacca imbarazzata da un abbraccio quando qualcuno entra nella stanza .
Anche tu l'hai odiato, no? Lo saprai, lo sai.
Anche tu conosci il vuoto delle frasi che scambiavamo con lui. Ma era soddisfatto, pacificato. Non me ne volevo andare di lì e lo sapeva, non so come, ma lo sapeva.
È di questo che mi rimproveri?
Sollevo gli occhi. Sull'orlo del muro di cinta sosta ancora il riflesso della luce serale. C'è un vento leggero, muove appena i rami più sottili sulle piante schierate ai lati dello stretto viale per il cancello.
Ma non ho impedito a Söderberg di portare le sue vacche nei nostri terreni. Wurts e il mezzadro brontolavano e qualche volta hanno fatto di testa loro, le hanno scacciate a bastonate ed urla.
A me bastava non sapere, non sospettare nemmeno.
Mi bastava sfogliare gli atlanti del mondo, guardare il Brasile o il Giappone o l'America del Nord per sognare, per sentirmi lì. Dei giornali leggevo solo le notizie dall'estero e di quelle solo i reportage di scoperte geografiche, di torbidi in Asia o di massacri in America.
Con la testa piena di quelle emozioni non mie attraversavo il bosco di corsa, mi sforzavo di riviverle, simulavo inseguimenti e sparatorie. Come un ragazzino.
Ho sempre cercato di non sapere nulla di fatti minuti, di cose di tutti i giorni. Reagivo rabbiosamente, firmavo quello che c'era da firmare, rispondevo a monosillabi.
Un rumore più forte e subito dopo il cigolare di un cassetto chiuso in fretta. Non troverà nulla che non conosca già, che non abbia già visto mille volte. Tutto in questa casa è stato visto mille volte, ogni cosa è consumata dagli sguardi.

A svegliarmi è la luce grigia del mattino.
Oggi ci incontreremo. Quanto può essere lunga una giornata?
Quanti attimi contiene? E si è sempre completamente se stessi per ogni attimo o si attraversa il tempo distratti, appena partecipi, tiepidi spettatori, tenuti uniti solo dal proprio profilo, dall'ombra che sfila silenziosa davanti alle finestre illuminate?
Ciò che provo a fare – e lui lo sa – è rimanere me stesso, chiuso in un attimo di immobilità completa.
Mi alzo e ripercorro il filo di gesti di ogni mattina di solitudine.
Wurts è già uscito. Ci incontriamo sempre meno. Anche lui attende, ma la sua è un'attesa quieta, indifferente. Mi avrà lasciato una tazza di latte intiepidita dall'attesa, il pane tagliato a fette, il burro giallo.
Le eriche hanno un colore più forte e intenso, sembrano difendere un angolo dimenticato di autunno. Dopo la colazione mi siedo nella vecchia cucina della servitù e aspetto.
Verrà, ne sono certo. Il richiamo per questo vecchio muro ci unisce, come ci unisce il rimpianto per un peccato inafferrabile, degno soltanto di uno sbuffo o di uno scrollare le spalle.
Wurts mi ha lasciato sul tavolo una lettera. L'ho letta sorridendo. Portava le firme di Södeberg e di altri proprietari, preoccupati dell'arrivo dei Prussiani.
Consigliano di scrivere all'Hohenzollern chiedendo il rispetto delle proprietà avite "Fondamento di ogni Legge Umana e riflesso di quella Divina".
Padroni più brillanti e giovani sostituiscono i vecchi.
Dovremmo esserne felici, come vacche munte con più cura e più spesso.
Il pendolo accompagna i miei pensieri disordinati. Per una volta mi sento sollevato dal loro peso intollerabile del loro ripetersi. Nessuna sensazione di soffocamento, di ansia, nessun sottile senso di colpa. Il loro termine è a portata di mano.
Non si sentono rumori mentre la luce acquista forza e disegna di un rosa più intenso i piccoli fiori dell'erica, affondandone nell'oscurità gli steli disordinati.
Anche lui sa dell'incontro, ma forse vuole sfuggire, nascondersi ancora una volta.
Il silenzio e il canto scandito del pendolo mi cullano.
Lascio che il mio sguardo sul muro delle eriche si annebbi e l'immagine scompaia.
Quando mi sveglio è a pochi passi da me. Eretto, sottile come un folletto, i capelli ben pettinati e molto corti, che lasciano in vista la nuca sottile da uccello.
Tiene le mani incrociate dietro la schiena e un leggero tic gli solleva una spalla ad intervalli irregolari.
Porta ancora i calzoni corti, che si fermano sul ginocchio a pochi pollici dalle calze rigorosamente bianche. Tiene il capo appena sporto in avanti ed i talloni non sono del tutto appoggiati a terra, come se dovesse fuggire da un momento all'altro.
Respira affrettatamente, e so anche senza vederlo e toccarlo che ha il viso arrossato dal vento autunnale e le ginocchia dure e fredde come pietra.
Vorrei parlargli, interrogarlo, ma la sua concentrazione così intensa, la sua rabbiosa malinconia mi spaventano. Mi alzo dalla poltrona e fuggo nei campi, cercando di nascondermi al suo sguardo.


Torno che è già sera. Sono sceso al villaggio, ho bevuto e ascoltato le chiacchiere degli artigiani e dei pochi cittadini scesi fin qui per commercio. Due giorni, al massimo tre e saranno qui. Troppi, per me.


Per la prima volta la sua presenza mi tormenta anche di notte. Quando mi sono svegliato l'alba era ancora lontana ed il silenzio completo, ma il ricordo vago di un rumore mi ha spinto fuori dal letto. Ho disceso le scale di corsa ed attraversato lo studio e la grande sala immersa nel freddo e nell'oscurità.
Quando ho fatto un po' di luce per terra c'era una giovane ghiandaia con le ali ripiegate, il collo spezzato. Da una finestra rotta entrava una bruma pallida.
– Perché? – Ho urlato con tutte le mie forze. – Perché l'hai fatto? Mi senti? – Sapevo di avere la mente infiammata da un furore assurdo ma non riuscivo a perdonare quella piccola, inutile morte. – Bastardo, mi senti? – Doveva essere da qualche parte lì vicino, immerso nell'oscurità.
Un sibilo, forse una parola. La rabbia scompare, mi sento debole, stanco. Mi chino a raccogliere il minuscolo corpo.
Sembra fatto di polvere e ritagli di stoffa. Lo osservo a lungo tenendolo disteso nelle mani unite. Non è la prima volta. Da ragazzo salivo a cercare le uova ed i pulcini nei nidi intravisti alla biforcazione dei rami. Tenevo le dita strette sui loro corpicini morbidi e mi capitava di stringere troppo scendendo o nella corsa fino a casa per mostrarli ad Elsa.
Mi fermavo di colpo, stupito da una morte tanto leggera, inavvertibile. Non avevo più il coraggio di alzare gli occhi al cielo e mi sentivo incerto, confuso, come se mi fosse sfuggita la frase più importante di un lungo discorso.
Il freddo della notte di febbraio mi prendeva lentamente, senza colpirmi né ferirmi.
– Swindells. – È la sua voce, a pochi passi da me.
Conosco quella parola, ovviamente la conosce anche lui. Non significa nulla, forse l'ho letta in qualche atlante o in qualche articolo di giornale, ma non mi ha mai abbandonato, come certe canzoncine stupide udite chissà dove che rinascono all'improvviso in un attimo di distrazione o di silenzio.
La sensazione di essere nuovamente solo e il freddo, divenuto insopportabile.
Mi vuole uccidere, soltanto adesso l'ho capito.

Penultimo o forse ultimo giorno.
Mi sono svegliato più tardi del solito, umido di sudore gelido, più debole e stanco. Mi lavo di malavoglia, sentendo sulle mani il calore eccessivo del viso.
Al piano inferiore lui sta percorrendo il salone avanti e indietro. Non si preoccupa di fare piano, anzi avverto una determinazione insolente nel posare i piedi con forza, cercando di sollevare quanta più eco possibile.
Mangio in fretta e controvoglia. Mentre mi vesto brividi insopportabili mi scuotono. Esco nella nebbia spinto dalla paura.
Lungo il viale continuo a udire il fruscio di un passo che a tratti mi segue, talvolta mi precede. Per la prima volta da giorni mi sento davvero senza speranza. Tutto sembra scivolare via, la casa è alle mie spalle, scura e sicura, ma è scomparsa dal mio mondo, come una nave che non si rivedrà più una volta scesi a terra.
Mi sta svuotando, derubando dal mio passato, e sono sempre di più un naufrago aggrappato ad un esile filo fatto di pochi giorni.


Nel pomeriggio la febbre è ancora salita.
Mi rifugio nella mia stanza e chiudo a chiave la porta.
Crollo sul letto senza svestirmi.
Passano ore scure, incerte. Nel dormiveglia agitato ho l'illusione di vederlo: sta con la schiena appoggiata all'armadio, le braccia conserte. Mi fissa tenendo le labbra incurvate a disegnare un muto fischio divertito.
Cado nel torpore della febbre e quando riapro gli occhi lo trovo ancora lì, nella stessa posizione.
Non ha fretta, il mio tempo è suo ormai.
Riesco ad alzarmi solo a sera inoltrata. Wurts se ne è andato, la stufa è spenta, la sala buia e nessuno ha apparecchiato la mia cena. Non sento rabbia, nella mia condizione più nulla è strano o ingiusto.
I Prussiani devono ormai essere vicini. Mi siedo tremando e mi sforzo di ascoltare il buio, udire il rumore dei passi cadenzati, il rotolare degli affusti dei cannoni, l'acciottolio degli zoccoli.
Ancora silenzio, ma lui è nel buio ad attendermi.
Dovrei alzarmi, accendere la stufa o almeno il caminetto, ma non importa. I brividi hanno smesso di tormentarmi.
Mi preparo a dormire ancora, in equilibrio miracoloso su questi ultimi brevi istanti.
Il suo sguardo non ha pietà né comprensione. So che ha ragione, che deve odiarmi di un odio così intenso da mantenerlo vivo ancora per molti anni.
– Avanti, il tempo è tuo ora.
È più vicino. Le sue mani mi sfiorano, mani giovani, ancora acerbe ma forti. Vorrei chiudere gli occhi ma mi sforzo di vederlo, riconoscerlo, anche se non temo nessuna sorpresa.
– Ci sono quarant'anni tra noi – mormoro. – E non sono diventato nulla. NOI non siamo diventati nulla. Sognatori inconcludenti, aridi come le rocce della luna. Tu diventerai come me e ci incontreremo ancora. Altrove, ma ci incontreremo. E sarò io a chiederti conto di tutti i momenti scivolati via, le occasioni perdute, gli amori rifiutati. Dove vai? Perché proprio tu dovresti riuscire a sfuggire? Perché tu?
Non risponde.

Non rispondo.
Mi osservo reclinare il capo sulla spalla e affondare nell'incoscienza, come mio padre dopo un pasto troppo abbondante.
Sono di nuovo solo, con il mio futuro segnato.


15.12.17

Cose che passano


È un po' che manco da qui, vero? 
Sempre ammesso che qualcuno se ne sia accorto. 
Niente da fare, il mio rapporto con il blog sembra essersi appannato senza, al momento, speranza di riprendere. 
Ma ho anche un motivo che in parte può spiegare questa situazione. Infatti sto scrivendo un romanzo...
«Sai che novità.»
Beh, è vero. Non è un fatto nuovo. Mi è già successo più volte di scrivere qualcosa, per ALIA o per il re di Prussia, senza scomparire dai radar. 
Probabilmente è qualcos'altro a bloccarmi. 
La sensazione di scrivere inutilmente? Ovvero di affermare male cose che altri affermano con sicumera e indiscutibile assenso generale? O generale riprovazione, che poi, come insegna Vespasiano Gonzaga «Sive bonum, sive malum, fama est». Temo di sì. 
È un problema che ho la sensazione di cogliere, scorrendo i blog dei quali tengo memoria nella colonna a dx del mio blog. Pochi quelli che sono aggiornati, molti quelli che accumulano polvere virtuale, con da «4 settimane fa» fino a «un anno fa». Ma, d'altro canto, chi ha voglia di parlare di attualità o di politica, di questi tempi. E voi, pochi o tanti che siate, avete già deciso se votare? E per chi votare? Lasciamo perdere, via. Tanto temo che sull'argomento ritornerò prima del 4 marzo. 
Parliamo d'altro. 


Sto leggendo il quarto volume della serie di Canopus di Doris Lessing, «Un luogo senza tempo». Ho letteralmente divorato  i precedenti due volumi, «Un pacifico matrimonio» e «Una donna armata». Avete idea di che cosa significa leggere della buona fantascienza – lo so, la Lessing la definiva Space Fiction, ma si tratta di buona, vecchia sf – senza dover subire un pessimo italiano e storie vecchie anche quando si svolgono in un futuro più o vicino? La mia benamata Lessing scrive bene, cribbio, ed è riuscita a creare un universo credibile con personaggi spessi e vitali. Dio mio, come mi mancava un autore come lei… Piccolo dolore, l'edizione del quinto volume non è mai uscita in italiano, il che comporterebbe la necessità di leggerlo in lingua originale. Leggere in inglese è possibile, certo, ma con un cambio di velocità netto rispetto all'italiano… ma ci penserò a suo tempo.
Ovviamente una volta digerito il grosso boccone ne parlerò diffusamente qui e/o su http://librinuovi.net/.
Altri libri altrettanto succulenti non ne ho letti, a essere sincero, se si esclude «Specchi neri» di Arno Schmidt che sto centellinando per la paura di consumarlo troppo presto. Ho tentato di leggere l'ultimo Greg Egan pubblicato, «Un razzo a orologeria» ma ho gettato la spugna prima di arrivare alla parola «fine». Orrendo? No, sinceramente non posso dirlo, ma se ho voglia di fare un veloce ripasso della fisica studiata in quinto liceo prendo il mio vecchio manuale di fisica e me lo ristudio da capo. Indubbiamente la possibilità di studiare una fisica diversa, nella quale la luce non abbia una velocità costante ma presenti diversa velocità in rapporto allo spettro cromatico, è molto suggestivo ma il problema è quello di renderlo efficacemente attraverso lo strumento narrativo e non attraverso un addendum alla fisica studiata a scuola. D'altro canto se Egan riuscisse a scrivere insieme una relazione su una fisica di un universo parallelo e contemporaneamente i moti dell'animo di alieni abitanti di quell'universo sarebbe – come dire – troppo bravo per il metro umano e incarnerebbe alla perfezione un'Intelligenza Artificiale prossima a conquistare il mondo.
Sono abituato agli alti e bassi della narrativa di Egan e non mancherò di acquistare anche il prossimo libro, nonostante tutto. E non è detto che prima o poi non riprenda mano il manuale di fisica e lo rilegga, in compagnia del libro di Egan.  


Ho anche altri libri che mi ronzano dalle parti della scrivania, tra cui i due testi scritti da Davide Mana – grazie Davide! – e sei o sette testi che mi aspettano per una lettura non casuale ma in vista di eventuali recensioni o per un'eventuale pubblicazione in ALIA Arcipelago. Temo che se ne riparlerà nel periodo di ferie (ferie?!?) in montagna. Senza contare che sto accarezzando l'idea di far uscire in e-book cinque racconti appartenenti al ciclo della Corrente, a suo tempo usciti sui vecchi ALIA o su Fata Morgana e dovrei fare qualcosa di più che sbatterli tutti in una cartella informatica e episodicamente guardarli. 
La vera novità è che mia moglie, Silvia Treves, ha presentato la domanda per la pensione e se non sorgono problemi con l'autunno del 2018 dovrebbe smettere di lavorare. A scuola. Ciò che la fanciulla non ignora è che da quel momento sarà mio ostaggio per tutto ciò che riguarda il lavoro per ALIA e per LN.
Altra novità è che con l'anno nuovo partirà il lavoro per ALIA Evo 3.0 in forma stampata. Ma di questo penso riparleremo presto. Intanto posso mostrare al pubblico la bozza (è una bozza… non cercate di capire che cosa c'è scritto).


Per il momento comincio a fare i miei migliori auguri di buone feste e di un 2018 almeno un po' migliore dell'anno in corso. In fondo non ci vorrebbe molto.
Ovviamente se riappaio qui vi ribeccherete gli auguri un'altra volta.

6.11.17

Nuove letture o quasi


Il tempo passa e i libri si sommano sull'angolo di libreria dove tengo i libri terminati e non ancora sistemati al loro posto. Arriva un momento nel quale la piletta comincia a dare segni di un'obesità eccessiva e, dal momento che lo spazio disponibile è piccolo, mi vedo costretto a decidere se recensirli, passarli direttamente in libreria o abbandonarli su una panchina.
Due libri che passerò direttamente in libreria senza abbandonarli – giusto perché potrei sempre rileggerli – sono Oltre l'invisibile (Time and again) di Clifford Simak e Domani il mondo cambierà (Stations of the Tide) di Michael Swanwick. 
Per spiegare la decisione per il testo di Simak mi limito a riportare il giudizio che appare nelle pagine di Wikipedia

Simak mette molta carne al fuoco ma non ne cura la "cottura": l'amico invisibile, i superpoteri di Sutton, le creature di 61 Cygni, il viaggio nel tempo, la guerra nel futuro, il valore quasi salvifico del libro che Sutton è destinato a scrivere, la rivolta degli androidi, il destino... sono spunti di valore, che tuttavia non vengono sviluppati a sufficienza. Ciò si traduce in una narrazione un po' zoppicante che lascia molti, forse troppi interrogativi irrisolti.

Per quanto riguarda Swanwick, vincitore con questo romanzo del Premio Nebula e autore che ho in diverse occasioni apprezzato, non posso che rimandare al blog «Il Rifugio di Taotor» di Federico Russo che spiega meglio di quanto potrei fare io i motivi delle mie formidabili perplessità su questo romanzo.
In sostanza devo ammettere che questi due libri non mi hanno lasciato letteralmente nulla. Vaghissimi ricordi che entro qualche mese avrò comunque cancellato, il che, per me, è un limite grave. 
E adesso cominciamo con i libri letti e ricordati. 

Federico il Grande di Alessandro Barbero è, in realtà, una rilettura, nel senso che avevo letto il libro [allora di proprietà della libreria] nel 2007 nella collana «Alle 8 della sera» per ricomprarlo ultimamente, nella collana «La memoria» scoprendo che si trattava di un libro già letto. Ma non è stata una sofferenza rileggere la frizzante biografia scritta da Barbero dove si racconta di un personaggio comunque unico nel suo genere: musicista raffinato, abile flautista, amico e protettore di Voltaire e cultore della filosofia, sia pure di una filosofia che non mancava mai di mostrare il suo disprezzo nei confronti dell'umanità – ma insieme un uomo cinico e amorale e un abile e geniale comandante militare che riuscì a vincere tredici battaglie su sedici combattute: un record.  
La domanda che ha perseguitato i tedeschi negli anni successivi alla seconda guerra mondiale – ovvero se Federico il Grande è stato il fondatore della politica militarista prima prussiana poi tedesca, da Sedan fino ad Hitler – non trova risposta nemmeno in questo saggio, comunque. Barbero preferisce non affrontare il tema, limitandosi a mostrare l'unicità del personaggio e la sua sorprendente modernità. 
Per ulteriori particolari rimando alla recensione a suo tempo pubblicata su LN-LibriNuovi e che ho ripescato per l'occasione. 


Due Sicilie, di Alexander Lernet-Holenia racconta la storia di sette sopravvissuti del reggimento di ulani «Le due Sicilie», i cui componenti erano chiamati «Sizilien-Ulanen». Il reggimento è stato disciolto con la caduta dell'impero Austroungarico ma i sei reduci, sei ufficiali e un sottufficiale, continuano a frequentarsi. Nel 1925, nella Vienna ormai ex-capitale di un impero scomparso i sei ex-ulani sono ospiti di un ricevimento dove uno di loro, Engelshausen, viene ritrovato strangolato. Ma il dubbio che il romanzo voglia vestire i panni di un poliziesco è destinato a essere presto smentito. Uno dopo l'altro quattro dei membri del gruppo di reduci muoiono o scompaiono ma senza che appaia un possibile colpevole. Il secondo a svanire è il sottotenente Fonseca, perdutosi un un quartiere sconosciuto e in apparenza scomparso e dopo di lui è il maggiore Lukawsky a morire di una sorta di consunzione o forse di un crollo nervoso. È poi la volta del colonnello Rochonville, investito da una carrozza e del tenente Silverstolpe, in apparenza intossicato dal contatto con un cadavere A rimanere vivi fino alla fine del romanzo saranno il capitano Von Sera e il caporale Slatin e sarà in loro presenza che il romanzo troverà un'apparente soluzione finale, presto mutata in un ulteriore mistero. 
Alexander Lernet-Holenia fa parte di quel gruppo di autori di lingua tedesca e nazionalità austroungarica che comprende tra gli altri Leo Perutz, Alfred Kubin, Arthur Schnitzler e Hugo Von Hoffmanstahl accomunati dall'essere stati testimoni della fine dell'Impero austroungarico, narratori di un passato perduto e di un presente fantasmatico, sfuggente e onirico. Due Sicilie è, da questo punto di vista, un esempio perfetto di questo doppio sguardo verso il recente passato, svanito da un giorno all'altro, e verso un presente minaccioso, confuso, indegno di essere raccontato senza fare ricorso a categorie peculiari del narrare come il sogno, l'incubo, la visione. Questa è la forza e insieme la debolezza di Lernet-Holenia, spesso accusato di essere un esteta di un fantastico onirico fine a se stesso, senza un profondo legame materiale con i personaggi. 
Personalmente devo ammettere di apprezzare il suo modo peculiare di narrare, l'eleganza dello stile, ben resa dal traduttore Cesare De Marchi e la sottile sensazione di perdita definitiva che riesce a trasmettere nei momenti di rifessione dei personaggi: 

Ma anche lo stesso reggimento e persino il periodo in cui Marschall [Von Sera] era stato negli squadroni di cavalleria, ore gli sembravano non essere mai esistiti. La terra battuta delle piazze d'armi era come avvolta nel velo delle piogge novembrine, le lunghe scuderie con le groppe dei cavalli in fila come immerse nella luce irreale dei sogni. Rivedeva le trincee argillose, i campi di battaglia, gli zampilli di terra sollevati dalle granate – pure questi però non erano più gialli come argilla, ma grigi e irreali.

Un libro forse tradito dai troppo frequenti cambi di prospettiva e di personaggi e nel quale il falso e il vero si scambiano a volte con eccessiva disinvoltura le parti, ma comunque meritevole di attenzione e capace di una prosa in qualche passaggio intensa e malinconica. 


...
Il poliziotto di Shangai di Qiu Xiaolong non si può definire «Un nuovo caso per l'ispettore Chen Cao» ma è una curiosa e inattesa biografia del personaggio, seguito dalla giovinezza, segnata dalla persecuzione del padre, un «mostro nero» in quanto ex-piccolo imprenditore, la cui situazione trasformò l'intero nucleo familiare un una «famiglia nera», condizione che rendeva proibitiva qualsiasi speranza del giovane Chen Cao. Con la morte di Mao Zedong e l'ascesa al potere di Deng Xiaoping ha termine la rivoluzione culturale aprendo al giovane futuro ispettore la possibilità di dedicarsi alla sua più profonda passione: lo studio e la composizione della poesia. Il giovane si laurea nella facoltà di lingue straniere all'università di Pechino ma finisce con l'inciampare in una delle pianificazioni previste dal governo comunista:

La pratica dell'assegnazione statale ai laureati era da tempo considerata uno dei vantaggi del sistema socialista, dunque i giovani non avevano la possibilità di compiere scelte autonome. [...] Nel caso di Chen, ogni anno il dipartimento di polizia di Shangai riceveva la sua quota di laureati [...] E Chen non aveva potuto rifiutare, altrimenti l'avrebbero stigmatizzato da un punto di vista politico, e reso inidoneo al lavoro per anni. 

Ma il lavoro di investigatore ha comunque un suo fascino e non passa troppo tempo prima che Chen Cao diventi una sorta di mostro di belle speranze per l'ispettore Ding, il capo del suo ufficio. Dal ruolo di traduttore di manuali di procedura penale americani – l'unico posto che la polizia di Shangai era riuscita a escogitare per un laureato in lingue – il giovane riesce a guadagnare la stima dei colleghi e a divenire membro attivo della squadra. Questo senza perdere la passione per la poesia e per la buona cucina.
Libro curioso, viene da dire: un modo per l'autore di indagare il passato del suo personaggio preferito, dall'adolescenza fino all'età adulta. Ovviamente in tono minore rispetto agli altri gialli con protagonista Chen Cao, ma comunque piacevole.


...
Ultimo libro di questo giro, Occhi nello spazio (Far-Seer) di Robert J. Sawyer, edizione originale 1992, primo volume della Quintaglio Ascension Trilogy
Quintaglio è il nome della razza di dinosauri della quale fa parte Sal-Afsan, giovane apprendista astrologo alla corte di Len-Lends, imperatrice della Terra dei sauri. 
Ad aver stimolato la curiosità di immaginare e mettere in scena una forma di dinosauri carnivori di intelligenza paragonabile a quella umana è stata probabilmente una domanda senza risposta: «Se i dinosauri non si fossero estinti per la caduta di un'asteroide alla fine del Cretaceo, avrebbero evoluto una specie intelligente?». E la risposta di Sawyer è sì. Presumibilmente salvati da una civiltà più avanzata, i nostri predecessori vivono su un corpo celeste vicino a un pianeta di tipo gioviano e i Quintaglio ne sono divenuti la specie dominante. 
Ma non mancano i problemi nemmeno tra i sauri. I più preoccupanti sono una religione particolarmente soffocante, terremoti sempre più frequenti e violenti e, last but not least una prossemica attentamente studiata e cerimoniale e qualche accesso di follia omicida, dovute al loro retaggio di carnivori. Ma sulla Terra – il modo con cui i sauri chiamano il loro pianeta – sta comunque crescendo una visione del mondo legata alla ragione più che alla superstizione, più o meno come nel '500 europeo, e il giovane Afsan è il portatore di nuove idee e una nuova visione del proprio mondo. 
Un viaggio intorno al mondo su una nave a vela fa scattare l'interruttore nella mente di Afsan, che si troverà però ben presto a difendere la sua posizione laica nei confronti della religione ufficiale del pianeta e del potere politico. 
Una lotta che si rivelerà più dura di quanto il giovane astrologo – un Galileo Galilei caudato – avrebbe ritenuto possibile e con finale giustamente interlocutorio, come è normale per la prima parte di una trilogia.
Nell'insieme un buon romanzo di agevole lettura, in qualche passaggio appassionante e che riesce a donare al lettore il punto di vista di un dinosauro carnivoro, risultato a suo modo rilevante. A questo punto non posso che ammettere di attendere con una certa ansia l'uscita dei volumi successivi. 
...
E per questo giro ho finito. Ci sarebbe ancora l'ottimo I ragazzi di Barrow di Fergus Fleming, eccellente storia di viaggi, scoperte, clamorosi errori, follie, ghiaccio, sabbia e testardaggine che l'editore presenta così: 

un'epopea [...] che Fergus Fleming ha trasformato in ciò che, in realtà, era fin dall’inizio: una commedia nera, percorsa dalla tensione quasi smaniosa che anima tutti i suoi personaggi, protagonisti o comprimari che siano.   

Ma per oggi l'ho già fatta troppo lunga. Alla prossima!

16.10.17

Libri: metterci una pietra sopra.


I dati del rapporto 2017 sullo stato dell'editoria in Italia sono disponibili presso il sito dell'Associazione Italiana Editori [AIE] all'indirizzo dedicato a cifre e numeri dell'editoria
Vi sono stato richiamato da un articolo uscito su «Linkiesta» del 14 ottobre. 
Il primo dato che salta all'occhio è la percentuale di lettori sul totale della popolazione italiana. Pare infatti che tale numero sia sceso nel 2016 al 40,5% degli italiani. Nel 2015 i lettori in Italia erano il 42% della popolazione, nel 2013 il 43%, nel 2012 il 46%, nel 2010 il 46,8%. E mi fermo qui. In sostanza dal 2010 ci siamo persi per strada qualcosa come 3 milioni di lettori. Nonostante l'offerta non sia in calo – i libri cartacei sono stati 66.000 tra novità e ristampe, mentre gli e-book hanno raggiunto il numero ragguardevole di 81.000 titoli disponibili – sono in calo i lettori. 
Si possono, inevitabilmente, incolpare gli smartphones o i tablet, i social media o Netflix o le scie chimiche o il gomblotto del Gruppo Bildenberg o quello che preferite, ma resta il dato di fatto che i principali paesi europei hanno percentuali di lettori che viaggiano intorno al 70% e oltre, e, che io sappia, non sono affatto privi di internet o di social network. Anzi. 
Altri dati? Il fatturato totale dell'industria libraria ha raggiunto nel 2016 i 2.561 milioni di euro, nel 2011 era stato di 3,1 miliardi... Il numero di titoli in e-book è aumentato di un 30% per un fatturato totale di 63 milioni di euro anche se il numero di lettori su e-book è passato dal 4,7% del 2015 al 4,2% del 2016... Buone notizie per un piccolo editore di e-book, direi. 

Altri dati: 

Nel 2016 il numero di persone che dichiarano di aver letto almeno un libro non scolastico (con più di 6 anni) ha ripreso a calare, con un preoccupante -3,1%. La lettura di libri è diminuita tra i lettori deboli e occasionali (-4%) e tra i forti lettori (più di 12 libri all’anno: -0,4%), tra le donne e tra i bambini e ragazzi (che leggono libri comunque più della media della popolazione).

Di particolare interesse il dato di fatto che i membri di gruppi professionali e dirigenziali non leggono nemmeno un libro per il 39%, stessa pratica (o mancanza) per il 25% dei laureati... 
Ultimo dato, a suo modo interessante, lo spostamento di classe di età dei forti lettori:

Fatto 100 il numero di lettori complessivi, la fascia d’età in cui si registra la crescita maggiore è quello degli Over60 (e dei “giovani anziani”) con un +9,6% rispetto al 2010, mentre cala la quota di lettori nella fascia tra i 25 e i 44 anni con un -25,4%. Segno delle trasformazioni demografiche, invecchiamento della popolazione, onda lunga della scolarizzazione degli anni Sessanta e Settanta. [da Il Sole-24 Ore, 26 gennaio 2017].

Ultimissimo particolare: il 18,5% della popolazione non ha svolto alcuna attività culturale nel corso del 2016:


circa un quinto degli italiani non ha letto un libro o un giornale, non ha visitato un museo, una mostra, un sito archeologico, e non è andato a teatro, al cinema, a un concerto. (da Il Libraio.it)

Diminuiscono i bambini lettori, invecchiano i forti lettori... un panorama che non è esagerato definire catastrofico. 
Certo, riuscire a trovare un momento da dedicare alla lettura con un lavoro incerto o temporaneo ma comunque faticoso è un elemento che in minima parte può spiegare la situazione, così come la diminuzione di lettori tra i giovanissimi può trovare una spiegazione nel numero crescente di bambini stranieri che hanno rapporti non facili con la lingua italiana. Ma la realtà è che stiamo perdendo – o più probabilmente abbiamo già perso – il treno di una ripresa reale, prima ancora civile che economica. Le percentuali di lettori – come gli investimenti nella scuola o in cultura – sono, non a caso, quelle che ci avvicinano di più ai paesi in coda della UE: Grecia, Portogallo... La politica della cultura in Italia sembra ormai indirizzata unicamente alla preservazione e valorizzazione del patrimonio architettonico e museale, cosa sacrosanta, sia chiaro, ma che nasce dalla necessità di aumentare il fatturato del settore turismo. Se poi gli italiani rimangono ignoranti, beh, non è un problema che tocchi la classe politica contemporanea. Gli italiani possono sempre essere ottimi camerieri o membri di un efficiente personale di servizio o, perché no?, splendidi centurioni... L'Italia è un bel paese, in fondo.