7.7.18

Questo è un discorso aperto su FB…


… e che ho promesso di riprendere anche sul blog. 
Una piccola premessa: ciò che apparirà in questo post non ha nulla a che vedere con qualunque riferimento al mio livello attuale di scrittura. In sostanza qualunque riflessione o osservazione su me stesso sarà condotta puramente e semplicemente sui motivi profondi della scrittura e non sul modo più o meno corretto e ragionevole di disporre le parole, le frasi, la punteggiatura (ah, la punteggiatura…), i ritorni a capo, gli incisi, il monologo interiore, il backup, la metonimia…
Aggiungo che saranno sostanzialmente due chiacchiere in libertà, su un hobby particolarmente interessante (per me). 
«A parte il Lego»
Sht, sht, silenzio. Non è…
«Prova a dire che non è vero.»

Allora. 
Parliamo del mio hobby PREFERITO, ovvero scrivere righe dopo righe per mettere insieme, costruire e infine disporre in bell'ordine racconti, romanzi e altre cose simili. 
Ciò che ho scritto su FB è stato: 

«Il fatto è che scrivo, con alterna fortuna, ma non è questo il punto. Il dato interessante – perlomeno per me – è quando avevo tra i trenta e i quarant'anni scrivevo come se non esistesse un domani.Ricordo di aver scritto un romanzo in tre mesi, di aver condotto una prima stesura di seicento pagine per un fantasy (NON tolkeniano) interminato e impubblicato, altri tre lunghi romanzi di sf, dozzine di racconti, una sceneggiatura e sicuramente dimentico qualcosa. E, all'epoca, lavoravo per una decina di ore al giorno e con ritmi che non mi permettevano di scrivere qualcosa in libreria.
Adesso, una volta superati i sessant'anni per scrivere una (1) pagina mi ci vuole almeno un paio d'ore, tre ore contando le correzioni che faccio a ritroso sul testo. Per scrivere un racconto mediamente lungo (cinquantamila battute) ho speso la bellezza di sei mesi e, per la verità, non lo considero nemmeno terminato da un punto di vista formale. Una volta scrivere era una gioia e una liberazione ed ero ansioso di far sentire a chi aveva la relativa fortuna di conoscermi un brano delle mie sudate carte (
sic), mentre adesso scrivo soltanto dietro pressione da parte del mio famoso SuperIo e non leggerei una riga di qualcosa di mio a nessuno, a meno di considerarla in qualche modo terminata.
Sono diventato più saggio o mi sto allegramente rimbambendo? 
»

Il megapippone continuava poi elogiando un certo numero di autori che mi sono particolarmente cari e che ammiro senza riserva e sottolineando il valore di hobby e/o passatempo per la scrittura, una volta stabilito oltre ogni limite ragionevole che guadagnare all'incirca in media 200 € / anno mi permetterebbe di sopravvivere per pochi mesi in qualche sperduta isola dell'Oceano Indiano ma certo non in Europa. 
Quindi non essendo uno scrittore in senso proprio, posso autodefinirmi un libero autore, decente come estensore di storie, ma non un professionista. 

Solo un piccolo chiarimento prima di proseguire, anche per rispondere a un'osservazione particolarmente interessante nata dalla discussione avvenuta su FB. Non posso onestamente dire di aver perduto la passione per la scrittura con il trascorrere degli anni, semplicemente (e qui tocco un altro aspetto interessante della discussione) mi rendo conto che altri hanno dedicato molto più tempo (o molto più impegno) di me a tale esercizio ovvero – e qui tocco un altro aspetto molto delicato – erano semplicemente molto più dotati di me nella scrittura. Ovvero avevano un maggior talento. O semplicemente avevano talento mentre io non ne ho. 
Il Talento, una delle aporie assolute che appaiono in forma quasi clandestina, pronunciata a bassa voce in qualsiasi gruppo di Scrittura Creativa, l'elemento che è bene non citare, lasciando che ognuno si illuda di possederlo, mentre si spendono parole per glorificarlo. Uno dei vantaggi del tempo che passa è lo scolorarsi del terrore di non possedere talento. In realtà un'onesta applicazione può surrogarlo con una certa efficacia, si scopre, e si arriva a pensare che il talento può non essere definitivo, che può apparire in certe storie e scomparire in altre, che una storia talentosa la possono scrivere in molti, ma da questo a durare nel tempo ce ne corre. E ciò che si apprende – con sgomento – è che la mancanza assoluta non solo di talento ma di semplice capacità di raccontare una storia appena decente e magari un minimo originale è una «dote» che accomuna decine e decine di scriventi, tutti seriamente convinti di aver raccontato una bella storia, agendo sotto l'effetto della suggestione di storie viste al cinema, su striscie o (molto raramente) in racconti o romanzi. Leggere e rileggere un racconto o un capitolo del nascituro romanzo continuando a trovarla praticamente perfetta è la maledizione di chiunque scrive, compreso il sottoscritto.  L'unica soluzione è quella di nascondere il manoscritto – anzi farlo nascondere da una persona fidata – pregandola di restituircelo soltanto un mese dopo. O due. O tre…


Quello che riporterò più avanti è un brano tornatomi in mano in questi ultimi mesi, parte del primo romanzo che scrissi «seriamente» a un'età compresa tra i venticinque e i trent'anni.


Kreb si alzò in piedi a sua volta, pallidissimo: – Il Conducator non se ne andrà. – La voce del Vicario aveva una sfumatura sovracuta, come nell'imminenza di un attacco isterico: – L'ho invitato io, IO! Se viene allontanato lui, io lo seguirò. Io sono il Vicario e posso apportare cambiamenti ad ogni struttura e creare deroghe ai regolamenti!

Chiarisco che si tratta di un brano tratto da una scena a forte impatto drammatico, che cambierà l'ordinamento politico del governo da un status autoritario – ma che permette la sopravvivenza di un'opposizione politica – a una brutale dittatura militare. 
Aggiungo che uscivo in quegli anni dall'esperienza (catastrofica) della Nuova Sinistra e, reduce da un viaggio in Polonia, mi proponevo, scrivendo, di denunciare «ogni forma di dittatura», dal capitalismo selvaggio al socialismo di stato, tanto è vero che il pianeta dove si svolge la vicenda ha non pochi punti di contatto con uno dei paesi del «socialismo reale». 
Ultimo particolare, nella faticosissima riscrittura di questo romanzo – che non so se vedrà mai la luce – le quindici / venti pagine raccontate saranno eliminate, e non perché abbia cambiato idea politica ma semplicemente perché raccontare una vicenda complessa come un colpo di stato puntando su pochi «caratteri», sia pure esasperati, semplicemente non funziona, né può funzionare. 
Perché?
Rispondere non è facile e, almeno in parte, mostra quanto profonda sia la convinzione della possibilità di utilizzare in modo retorico una narrazione, ovvero di convincere i lettori di una causa che si ritiene urgente e importante.
Ho profondo rispetto per la retorica come strumento di dibattito, ma ne ho ben poco per il suo utilizzo in campo narrativo. Ho vissuto abbastanza anni per rendermi conto che anche coloro che vedono il mondo in modo antitetico al mio hanno bisogno di un lungo percorso – in realtà non troppo diverso da quello che dovrei compiere anch'io – perché arriviamo a condividere un'analisi e una conclusione. La narrativa è un ottimo strumento di ascesi ma un pessimo strumento di convinzione e non si dovrebbe scrivere sapendo esattamente dove si vuole giungere


Il brano riportato, a parte i suoi difetti di carattere stilistico, ha il grosso limite di cercare di indurre il lettore a schierarsi, non facendo appello a quel substrato di emozioni, ricordi, intuizioni, complicità, comprensioni e riflessioni che tutti condividiamo, ma solamente al nostro io quotidiano, quello che ci fa giudicare frettolosamente il mondo per categorie.
Un racconto o un romanzo non sono un volantino né un volantone e le nostre buone ragioni hanno bisogno di un soccorso più profondo, più intenso per risultare credibili, facendo appello alla nostra carità per costruire un teatro dei sogni che possa interessare anche chi non condivide le nostre idee.  
Direi che a questo punto è forse più chiaro perché un tempo «scrivere era una gioia e una liberazione» mentre ora è divenuta una fatica autoimposta, una chiamata alle armi della coscienza e comunque non una facile e ardita discesa in campo contro gli incubi. 
Ciò che scrivo adesso non è affatto detto sia migliore, più godibile o più comprensibile di ciò che scrivevo un tempo ma, pur restando una gioia profonda, mi obbliga a riflettere e a cercare di comprendere. Come risultato sono diventato molto più lento nella scrittura e paradossalmente molto più spietato, ma sono arrivato a credere nella complessa innocenza feroce dei miei personaggi, esattamente come credo nella mia. 
In ogni caso posso dire che compiere tutto questo percorso mi è stato utile.
Il che non è poco, in fondo.