25.5.07

Per leggere vogliamo la legge



Chiedo scusa, ma questo è un intervento necessario, che ha a che fare con il mio lavoro.
Un appello che potete trovare sul sito www.librinuovi.info e che riguarda la possibilità di avere anche in Italia una legge sul prezzo del libro simile a quella che esiste in Francia, Germania e Spagna.
Essendo un libraio indipendente sono piuttosto sensibile al tema, non soltanto perché le politiche di alti sconti di Feltrinelli e compari rischiano di metterci sul lastrico, ma perché il prezzo dei libri è altro proprio per poter praticare questo genere di politiche.
Sembra assurdo, ma non lo è. Basta pensarci un momento.
La deregulation nel settore dell'editore dell'editoria libraria può avere effetti catastrofici sulla lettura:
scomparsa di una rete estesa sul territorio di piccoli punti vendita indipendenti.
alti prezzi di copertina ai quali fanno in apparenza da argine alti sconti, in genere applicati, tuttavia, soltanto sui titoli «ad alta rotazione». Se in Gran Bretagna, dove non esiste nessuna legge di tutela del libro, è possibile trovare Harry Potter a 4 sterline è perché molti altri titoli costano parecchio di più che da noi. E niente sconto.
– «non si fa perché non si vende. O almeno perché noi non lo acquisteremo». La distribuzione è in grado di determinare la produzione editoriale. Alla faccia della libertà di stampa.
Tutelare il prezzo fisso può significare, come in Spagna, Francia e Germania, la possibilità di salvaguardare (ed estendere) la rete dei piccoli punti vendita. Prezzi di copertina stabilmente più bassi, dal momento che finirà il giochetto «costa dieci, ma per due mesi lo puoi pagare sette» come cesseranno le sciocche e stucchevoli campagne pubblicitarie esclusivamente centrate sulla riduzione del prezzo di copertina. Indipendenza da grande distribuzione e catene librarie che «salvano una tiratura» ma possono anche impedirla.
Tre ottimi motivi per sostenere questa legge.

15.5.07

Condominium

Nonostante abbia letto già in (relativamente) giovane età l'omonimo romanzo di J.G.Ballard, una ventina di anni fa circa comperai – anzi comperarono i miei genitori – la casa nella quale io e mia moglie abbiamo abitato per quindici anni più o meno.
Periferia ma non troppo, vicina a un parco cittadino – anche se per arrivarci bisognava superare uno dei viali che conducono alla tangenziale – ma anche in un condominio.
Mi sembrava un problema irrilevante, anzi un non-problema, finché non ho partecipato alla mia prima assemblea di condominio.
Non esprimerò giudizi né considerazioni. Chi ha partecipato sa. Sa che nulla come un'assemblea di condominio fa emergere il cervello rettiliano, l'homo homini lupus, il Raskol'Nikov che dorme dentro di noi. Non solo: crea partiti, frazioni, sette, guelfi e ghibellini, bianchi e neri, Montecchi e Capuleti.
Io e mia moglie ne fummo stupiti e nauseati. Non abbastanza da vendere. Non, perlomeno, dopo la prima riunione. Ce ne vollero una dozzina, senza contare quelle alle quali non partecipammo per nausea delegando vigliaccamente l'amministratore.
Tutto questo discorso è una premessa a un libro curioso da poco arrivato in libreria che, cotravvenendo alle mie stesse norme, ho leggiucchiato qua e là con il sorriso un po' storto e un po' speranzoso di chi spera che l'autore sia capace di portarti a spasso.
Il titolo è Un certo senso, l'autore Francesco Fagioli, l'editore Marsilio.
In apparenza un carteggio a senso unico tra condomino e amministratore. La forma impiegata, almeno negli inizi delle lettere, quella ingessata e grottesca delle Raccomandate A.R. che perorano cause meschine e sostengono rivendicazioni futili. Salvo che dopo un po' le lettere deragliano, deviano sull'assurdo, sul delirio e, disastrosamente, sulla narrazione personale, sulla memoria, il rimorso, l'affabulazione senza freni.
Non potrei dire se si tratta o meno di un buon libro ma apprezzo l'idea. In fondo siamo circondati da una semiosfera fatta di spettabile e di con osservanza mi firmo Suo, solo che come per i fantasmi e gli alieni non vogliamo credere che tale semiosfera esista davvero finché non ci cadiamo dentro.
Adesso vivo in un appartamento in affitto. Non mi sento strangolato dal padrone di casa e non mi devo preoccupare se qualcuno ha sporcato il pianerottolo del 3° piano o se la signora del quinto ha comprato un cane. I soldi che paghiamo d'affitto sono perduti, è vero, ma li considero ben spesi se mi permettono di non incontrare il volto belluinamente meschino dei miei simili.
Ne conservo così un parere migliore.

11.5.07

finzioni

È accaduto!
Incredibile, ma è uscito un libro dal titolo: «Come parlare di un libro senza averlo mai letto».
L'ha scritto Pierre Bayard, psicanalista e professore di Letteratura francese pubblicato l'editore excelsior 1881, piccolo editore neonato & raffinato.
Conformemente a quanto ho annunciato all'inizio di questa seconda vita del Blog Fronte&Retro sto parlando di un libro che non ho letto, ma ho la sensazione che ci sia qualcosa di paradossale in questa affermazione. Come sostenere che A contiene B e, contemporaneamente, B contiene A.
Nello stesso universo.
Paradossi e impossibilità logiche a parte, "parlare di un libro senza averlo letto è un'arte", dice Bayard.
Verissimo.
Per motivi di lavoro almeno una volta al giorno qualcuno mi chiede: "questo l'ha letto?".
Tutti o quasi credono che si possa umanamente leggere una porzione significativa dei libri che escono. Che, perlomeno in Italia, sono oltre i 50.000 (cinquantamila) all'anno.
Personalmente leggo tra gli 80 e i 100 libri all'anno, ovvero tra lo 0,0016 e lo 0,0020 della produzione editoriale annua. In altre parole esiste 1 probabilità su 500 che alla domanda: "questo l'ha letto?" io risponda: "sì".
E magari aggiunga: "ma non è granché".
Se uno ci imbrocca meriterebbe il libro in omaggio, viene da pensare.
Quindi per le restanti 499 volte si tratta di fingere. Non dichiarando spudoratamente: "Sì l'ho letto" se non è vero, ma imparando a girare intorno al libro, mettendo insieme tutte le proprie nozioni su quella particolare letteratura, ricordando qualche recensione letta di fretta, qualche notizia afferrata qui e là, sforzandosi di ricordare la scheda informativa dell'editore e, infine, cercando di portare gradualmente il discorso su un titolo affine ma personalmente letto o del quale si possa riferire impressioni di persone (per me) fidate spacciandole come proprie.
Lo so che non è bello, ma molti lettori vivono nella speranza di trovare un buono zio che guidi le loro letture e nell'incarnare tale zio benefico non faccio del male a nessuno. Se non altro a lavorare in libreria si sviluppa un certo fiuto, si conoscono e riconoscono le politiche editoriali e si ha un'idea a priori (comunque spesso fondata) sul valore possibile di un romanzo o di un saggio.
Quindi non solo non ho letto il libro di Bayard, ma credo anche che non lo leggerò.
Potrei scriverne uno io, anche se non sono un cattedratico di Francia.
Ma non mi pare il caso.
No, non è il caso.

8.5.07

scrivere oscuramente


Ogni tanto penso che questa sarà il mio destino.
Quando mi accanisco a scrivere e passo ore davanti al PC.
Per scrivere mezza pagina. Riscrivere una frase. E non sentirmi mai del tutto soddisfatto né pacificato.
Ma a che diavolo serve scrivere?
Certo si può scrivere per sè (fatto), scrivere per pochi, volutamente (fatto), scrivere se si ha poco da dire (fatto) e se si crede di aver molto da dire (fatto, fatto!!!), scrivere se qualcuno ti chiede di farlo (fatto) e se nessuno ti chiede di farlo (quasi sempre). Scrivere se piove (il momento migliore), se è notte (non ce la faccio quasi mai) se c'è il sole (invece di andare a fare jogging). Scrivere sta al posto di vivere, ogni tanto penso. Un modo per governare un mondo che, almeno quello, ti deve ubbidire. Il mondo di Perky Pat (cfr. Philip Dick) , il gioco dei soldatini o delle bambole (praticamente la stessa cosa, a pensarci bene) che non ti stanchi mai di fare e rifare. E ogni volta viene un po' diverso. Qualche volta ti soddisfa, altre ti skifa. Ancora di più a distanza di tempo.
Eppure non riesco a smettere... Tanto è vero che scrivo pure qui.
Scrivere non è un lavoro. O meglio, scrivere sinceramente, onestamente, mettendoci dentro se stessi non può essere un lavoro. Al massimo un compromesso, un aggiustarsi per continuare a giocare senza doversi preoccupare di lavorare. Farlo senza essere famosi è un delirio. Una cosa da nascondere. Un vizio, una debolezza. Pura stupidità.
Ma impossibile da interrompere.
Ci sono altri coatti in giro?
Non gente che ha scritto un raccontino e frigge dal desiderio di farlo sapere a tutti. Ricevo tutti i giorni lettere di questo genere di autori. Faccio l'editore, sia pure piccolo come una mosca piccola, quindi è normale. No, scriventi oscuri che hanno scavato per anni e anni senza mai o quasi vedere la luce. Ma che non si sono scoraggiati.

5.5.07

Grazie Lucia


Non è una fotografia, credo.
O forse lo è. Rappresenta il lago Nagasaka che, dal nome, direi sta in Giappone.
Viste le dimensioni non si riconosce una piccola nave che passa tra i rami e i tronchi degli alberi. Inosservata, invisibile ma carica di vite possibili.
Ho inserito questa immagine perché, nella sua ambiguità, mi è parsa la più adatta a commentare un brano di una poesia che tra poco inserirò in questo blog.
La poesia non è mia, rilassatevi. È di Lucia De Marchi. E tutti subito a dire: «ma chi è?».
Beh, una poetessa. Categoria che non si conquista scrivendo frasi che vanno troppo spesso a capo e non si acquista stampando sillogi a spese proprie. Discende direttamente dal levigare le parole fino a renderle diafane e risonanti.
Come si fa?
Bella domanda.
Però chi legge se ne accorge, del lavoro fatto, anche se non saprebbe dire quasi sono stati i passaggi, l'origine e il fine. La scrittura come lavoro e fatica non è una categoria che si comprenda facilmente, anche se a scribacchiare siamo in parecchi.
Poi, infine, il lavoro fruttuoso è una cosa, l'accanimento sterile è un'altra.

Lucia De Marchi è morta. Prematuramente, come si dice.
Dal momento che, oltre che libraio, sono anche editore, pubblico la sua raccolta postuma.
L'hanno curata alcuni amici dell'autrice e noi, CS_libri, abbiamo fatto il resto del lavoro.
Un buon lavoro.
Credo.
Ma buono soprattutto perché ha permesso a me e agli altri che hanno lavorato su questa raccolta di leggere a sbafo le poesie di Lucia.
Un frammento:

Miriadi di cose abitano questo buio
questa fetta oscura
nella mia tazza di cristallo

il pianeta che preferisco è la luna
così generosa con chi non ha vinto
la battaglia.