29.9.10

Oro!


È un po' difficile riprendere a scrivere sul questo blog quando si ha la sensazione che le cose stiano correndo troppo velocemente, che la situazione precipiti con una rapidità inattesa.
Esagero?
Me lo auguro.
Ma il problema è la sensazione che ogni giorno le cose slittino senza ritorno verso un gradino più basso.
Provate a ripensare a ciò che riempie i giornali ogni giorno.
Agli insulti a un'etnia o a un popolo, che siano i «porci» romani o i «ladri» Rom.
Alle insinuazioni sul possesso o meno di una casa.
Ai deputati pagati perché passino dall'altra parte.
Alle rovine de L'Aquila che tali rimarranno, a quanto pare, a lungo.
Alla scuola deturpata dai ridicoli simboli leghisti. Detto per inciso la svastica nazista aveva una storia molto più ricca e una grafica decisamente più notevole di un risibile fiorellino da esercizio con il compasso.
Al cemento che avanza, agli omosessuali picchiati, alle donne vendute ai sessanta-settantenni cocainomani, alle tangenti proprie e improprie... e mi fermo qui.
Tutte cose che in altri tempi avrebbero suscitato furiose esistenze, vivaci polemiche, rabbie che sarebbero esplose per le strade e in TV.
Ma non ora.
Ora non più.
Ci abituiamo. Chiniamo la testa.
«Con la testa vuota si annuisce meglio», come ha scritto qualcuno su uno striscione affisso sul retro della facoltà di fisica.
Con la testa vuota, si può aggiungere, e il portafoglio pure.
L'ha scritto di recente l'IRES-Cgil. Negli ultimi dieci anni gli stipendi dei dipendenti sono diminuiti di 5.000 e passa euro.
E così sorge la necessità di fare cassa. Di vendere i beni di famiglia, raggranellando qualcosina per spese impreviste. Vendersi l'oro.
Vicino a dove abito - quartiere di civile abitazione, zona Nizza - hanno aperto di recente tre negozi specializzati nell'acquisto di oro. Tre, in un quadrato di 200 m2 di lato.
L'oro si è molto rivalutato, di recente, causa crisi economica. Commerciare in oro conviene, molto di più di quanto convenga venderlo.
Cosa metterà la gente nei cassetti svuotati, nei piccoli , nascosti anfratti, nei miniscrigni dove conservava l'orologio d'oro ricevuto dal nonno nel giorno della comunione o la collanina ricevuta dalla zia per il proprio compleanno?
Altro denaro che passa di mano, dal moribondo ceto medio alla classe di neofeudatari che ha comprato l'Italia. Coloro che promettono di scacciare i Rom che minacciano i nostri cassetti ormai vuoti, l'oro che non possediamo più.
Quelli che i vecchietti stupidamente indignati per «le nigeriane che salgono sul pullman con la carrozzina» voteranno ancora.
E ancora.
Senza riuscire a capire chi li sta derubando.


6.9.10

Altre letture

L'estate è giudicata un ottimo momento per leggere, e indubbiamente lo è.
Non solo per leggere i libri preferiti ma anche per leggere «quel libro là, che m'incuriosisce ma...», per affrontare «quel librone che non trovo mai il tempo per...» o per gettare un occhio a «quel libro unico, inimitabile, fantastico...» che un conoscente ti ha suggerito di leggere. Libri, libri, ancora libri, quasi da averne le tasche piene. Già, perchè l'estate è anche il momento per girare, vedere luoghi nuovi, fare nuove esperienze e, nel contempo, rinvigorire i rapporti trascurati, dedicare tempo alla famiglia, visitare gli anziani genitori, risentire i parenti e rivedere antichi amici persi di vista.
Totale, il tempo dedicato teoricamente ai libri evapora come l'acqua abbandonata sul fuoco e i libri scelti sono stati - ancora una volta - letti nei ritagli di tempo, trascurando i capolavori e i tomi particolarmente voluminosi e impegnativi per dedicarsi, ancora una volta, ai libri più (volumetricamente) leggeri.
Il risultato è quello che leggerete di seguito, cioé un piccolo concentrato dei miei difetti e delle mie manie.
Uno dei libri che mi ha accompagnato quest'estate è sicuramente un testo curioso e apparentemente troppo limitato di argomento per risultare interessante. Parlo de La purpurea meraviglia, Storia del pomodoro in Italia, Garzanti editore, autore David Gentilcore, eminente storico britannico. E invece nulla di tutto ciò. Come capita spesso nei volumi dedicati alla «microstoria», l'angolatura peculiare permette riflessioni e considerazioni molto più vaste di quanto, teoricamente, consenta l'argomento.
Così, la lettura di questo ottimo volume mi ha permesso di conoscere talune curiose abitudini quotidiane della nobiltà italiana del XVI secolo, apprezzare la bellezza puramente ornamentale delle piante di pomodoro, distinguere i pomodori - o pomidoro o pomidori - dai tomatl, ortaggi andini che poco hanno in comune con i primi, tranne l'origine comune e la confusione creata nella botanica molto poco sistematica dei nostri antenati. Mediante il pomodoro ho potuto conoscere una parte rilevante della storia della pasta e più in generale dell'alimentazione aristocratica e popolana degli ultimi secoli. E chi avrebbe immaginato il difficile rapporto del pensiero fascista con il pomodoro, insieme marinettiana vedura futurista e complice dell'orrore pastasciuttaro? O che il leggendario «Patto d'acciaio» tra Italia fascista e Germania nazista avrebbe potuto comodamente ribattezzarsi «Patto di pomodoro», dal momento che parallelamente venne fissata la quota dei pomodori esportati oltre il Brennero, pari all'incirca al 90% della produzione nazionale. Così fino ad oggi, dove si convive, secondo Citati (e Carletto Petrini) con un pomodoro dall'anima industriale, poco saporito e acquoso, oggetto misterioso di origine cinese. Difficile dare loro del tutto torto, detto di passata. Prima di prendere una posizione in proposito, comunque, è consigliabile leggere questo interessantissimo libro, magari accompagnando la lettura con un piatto di tagliatelle «pomodoro e scalogno» (ricetta originale di Rachele Mussolini) o anche con una semplice insalata di (buoni) pomodori. Buon appetito e buona lettura.
Meno singolare - o forse di più, dipende - il libro di Yang Yi, Un mattino oltre il tempo, fazi editore. In apparenza un libro di autore cinese, probabilmente pubblicato all'estero, dedicato al giorni di Tien An Men. Due studenti di campagna catapultati nella capitale a cercare un'affermazione nella turbinosa Cina contemporanea. Due amici che, iscritti all'università, finiscono per interessarsi troppo a temi e problemi come la democrazia, la libertà di opinione, il futuro del loro paese e, come milioni di loro contemporanei, hanno visto morire ogni speranza in un mattino di giugno.
In apparenza, dicevo, perché il libro è stato scritto in giapponese e ha ricevuto, caso unico nella storia della letteratura nipponica, il premio Akutagawa, un premio vinto, tra gli altri, da Kobo Abe, Murakami Ryu, Oe Kenzaburo, Inoue Yasushi e Yu Miri. Insomma, un romanzo scritto da un'esule che, dalla propria patria di adozione, racconta l'amara disillusione di chi ha sognato una nuova Cina per poi doverla abbandonare, come tanti altri hanno fatto.
Un romanzo scabro, sincero e dotato di una inattesa grazia che lo rende una lettura non solo gradevole ma anche appassionante. Consiglio gli interessati al personaggio (nome reale: Liu Qiao) un passaggio sull'intervista pubblicata sul Japan Times. Ultimissima nota, l'editore italiano riferisce che l'autrice «
-->Inizialmente non conosce nemmeno una parola di giapponese: si appassiona alla lingua ascoltando ripetutamente "una cassetta della cantante Matsuda Seiko, raccolta casualmente all’immondizia». Non c'è motivo per dubitare sull'attendibilità di questa notizia - anche se l'autrice non la cita nel corso dell'intervista - e, in ogni caso, direi che è confermata l'utilità delle canzonette d'amore, se non altro per apprendere una lingua.
Steampunk è un termine che, perlomeno per i lettori di LN, dovrebbe avere un significato chiaro e inoppugnabile. Per chi non fosse lettore di LN riassumerò le caratteristiche del «genere» con queste parole, non mie ma di Davide Mana: «Lo steampunk è una rivisualizzazione del passato, attraverso le percezioni ipertecnologiche del presente». Ovvero: prendete un personaggio-tipo di Jules Verne, dotatelo di un'astronave in versioni art-deco e lanciatelo nello spazio: l'avventura che vi sarà narrata sarà fatalmente steampunk. Un tipo di esercizio che ho condotto anche personalmente con un racconto lungo pubblicato su Fata Morgana 4, «Nuvole» con il titolo «La testa fra le nuvole» firmato da Giulio Maria Artusi. Si trattava, in quel caso, del racconto di un personaggio tipicamente Verniano che incontrava sulla sua strada l'anziano capitano Nemo. Chi fosse interessato a leggerlo potrà scaricarlo da «Visione e letture» nello spazio «Le mie storie».
Il riferimento a me stesso è in realtà un avviso per il lettore. Come dire che non potrà attendere da me una recensione freddamente seria di un libro steampunk. Per quanti difetti possa avere il libro il sottoscritto non potrà non presentare almeno qualche pregio, reale o immaginario...
L'autore è Scott Westerfeld (autore del buon «L'impero di Risen», pubblicato in due volumi negli Urania Mondadori e di «Brutti», un discreto romanzo per adolescenti, pubblicato sempre da Mondadori) e il titolo è Leviathan, Einaudi Stile Libero. Piccola nota, utile dal momento che nel libro l'esistenza del secondo volume compare soltanto in calce (nella postfazione dell'autore), a Leviathan ha fatto seguito Behemoth. Il terzo volume della serie, Goliath, risulta tuttora in corso di scrittura.
Quindi sarà bene prendere nota che inizierete a leggere il libro senza sapere di preciso come andrà a finire la storia. A qualcuno questo darà fastidio, è evidente. Tanto più che Einaudi nasconde il particolare a pagina 400 su 402... Tutto ciò detto, resta il fatto che il libro di Westerfeld è divertente e decisamente godibile. Si tratta di un juvenile, altro particolare da non trascurare, come testimoniato dalle numerose e pregevoli illustrazioni di Keith Thompson e dal fatto che i due protagonisti - il principe Aleksander d'Asburgo e Deryn Sharp dell'aviazione di sua maestà Britannica - sono due adolescenti di 15-16 anni. Le illustrazioni, tra l'altro, giustificano il peso non indifferente del volume, pubblicato su una carta adatta alla stampa di immagini.
L'avventura dei due giovani, ambientata in un Europa «alternativa» di inizio XX secolo, li obbliga a misurarsi con un gravoso compito da adulti e viene condotta separatamente fino a metà circa della vicenda, fino a quando i due non si troveranno loro malgrado uniti nel difendere la pace in un Europa divisa tra potenze Darwiniste e Cigolanti. Domanda: che cosa significano questi due neologismi? La prima - darwinista - rappresenta una forma di sviluppo economico basata sull'ingegneria genetica che permette di creare una raffinata tecnologia su basi biologiche, come è il caso di Gran Bretagna e Francia. «Cigolanti», viceversa, sono tutte le tecnologie metallurgico-meccaniche, sulle quali si basa la tecnologia di Germania e Austria-Ungheria. Questo spiega, tra l'altro, il curioso incontro di Alek e Deryn, il primo alla guida del suo «camminatore» sospinto da motori Daimler e armato di un pezzo da 37 mm e la seconda imbarcata sul dirigibile-balena Leviathan. Alek inseguito dai malefici tedeschi - il posto del villain è ovviamente appannaggio del Kaiser Guglielmo - e Deryn nei panni di un ufficiale apprendista maschio, dal momento che le donne non possono aspirare a un posto in marina. A noi lettori non rimane che attendere l'uscita di Behemoth, ambientato nell'Impero Ottomano, per verificare lo sviluppo della situazione, storica e personale, di Alek e Deryn, oltre che quella di Nora Barlow, protagonista della trilogia, bioingegnere e nipote di Charles Darwin.
Passiamo a tutt'altro tema.
Un terzetto di libri che io non sono minimamente in grado di recensire, ma dei quali parlo volentieri per indurre qualcuno più preparato di me a leggerli e riflettere sulla situazione della cultura attuale in Italia.
I tre libri, editi tutti e tre da Laterza, sono: Alberto Asor Rosa, Il grande silenzio; Giulio Ferroni, Scritture a perdere e Tullio De Mauro, La cultura degli italiani. I primi due pubblicati nel 2010, il terzo pubblicato per la prima volta nel 2005 e recentemente ristampato. Ferroni e Asor Rosa sono docenti di Letteratura Italiana presso l'Università di Roma La Sapienza, mentre il più anziano De Mauro, noto linguista, è stato ministro della (pubblica) istruzione e ha diretto per nove anni la fondazione del comune di Roma «Mondo digitale», fin quando non gli sono state richieste le dimissioni dal sindaco Alemanno. Una vicenda molto laterale rispetto al libro qui presentato ma che merita comunque una piccola diversione.
Ritorniamo al punto.
Tema principale dei libri dei due letterati è lo stato della cultura e il ruolo degli intellettuali nell'Italia berlusconiana. Più mirato sulla produzione letteraria contemporanea il breve libro di Ferroni, più centrato sulla decadenza e la scomparsa del ceto intellettuale in Italia il libro-intervista di Asor Rosa. Come dicevo prima non sono minimamente in grado di esprimere qualcosa di adeguato in merito, posso soltanto consigliare i lettori di leggerli tutti e tre. Anche non di corsa, lasciando passare tempo tra una pagina e l'altra. Il libro di De Mauro perché è affascinante ripercorrere la gioventù e la maturità di uno degli inventori della scienza linguistica in Italia e «leggere» l'Italia e le sue istituzioni di formazione - scuola e università - nel corso degli anni narrate da un protagonista. Ovviamente su alcune cose si scoprirà di non essere d'accordo, ma riflettere su motivazioni e intenzioni di un ministro - e non di una demente sciagurata armata di enormi forbici - si rivelerà estremamente interessante. Non sarà facile dimenticare questa semplice, schietta riflessione sulla situazione attuale di scuola e università: La politica di costoro è dissennata [...] Non credo che possiamo riuscire a convincerli del danno che stanno facendo. Se non riusciamo a liberarci presto di costoro, i danni per la ricerca e l'università li pagheremo per decenni.
Più netto, rabbioso anche se a tratti un po' maliconicamente autoreferenziale il breve saggio di Ferroni. Una rapida rassegna sul panorama della letteratura italiana contemporanea, una narrativa «a perdere», destinata sì a crescere «una letteratura che si moltiplica e contemporaneamente arretra», ma assediata dalla «degradazione del linguaggio e della vita civile».
La rabbia sconfortata di Ferroni si scatena e insiste su alcuni apparenti «fenomeni» del narrare contemporaneo come l'ossessione per il «noir» o il successo di autori come Giordano, Scarpa, Mazzantini. Le recensioni di Ferroni ai loro libri hanno qualcosa di comicamente irato - anche se fatalmente un po' sterile - come le reazioni di un buon insegnante davanti a temi apparentemente ben scritti ma desolatamente vuoti e supponenti. A questi Ferroni contrappone «Qualche strada praticabile, dal racconto all'autofiction», ovvero la frequente (e crescente) disponibilità di antologie: «la forma "breve" del racconto [...] è oggi la più adatta a toccare la frammentarietà e la pluralità dell'esperienza» e i libri «atipici», come Gomorra di Saviano o La vita bassa di Arbasino.
La conclusione - inevitabile - di Ferroni è che: lo scrittore è qualcuno che appare, e il libro deve prima di tutto saper apparire; in piccolo la società letteraria finisce per riprodurre gli stessi meccanismi in atto nel mondo della politica: anche in essa, ormai [...] viene messo in primo piano chi ha più audience e vende di più.Ho lasciato per ultimo il libro di Alberto Asor Rosa perchè il più complesso e aggiornato - e forse quello a me più vicino - tra i tre presentati. Un appassionante saggio-intervista condotto magistralmente da Simonetta Fiori della redazione de «La Repubblica» in compagnia dell'ultrasettantenne Asor Rosa, immancabilmente polemico come è suo costume e tradizione. 170 pagine che ho letteralmente «divorato» in una sola mattinata di assenza di clienti (dato non nuovo a Torino, di questi tempi), apprendendo la lunga, complessa e tormentosa esperienza di Asor Rosa nella sinistra e poi nel PCI degli anni '60 e '70, inevitabilmente polemico (e rissoso) anche a distanza di anni e anni. Non è molto probabile che al termine della lettura Asor Rosa vi risulti simpatico. In apparenza troppo reciso e liquidatorio nei confronti di pensatori come Zygmunt Bauman o di politici come Achille Occhetto - solo per citarne due di una nutrita schiera - ma anche sincero, nitido e a suo modo audace, come raramente accade.
Tanto per dare un'idea dell'atmosfera del libro, riprendo qui parte della presentazione della Fiori:
(...) All'evoluzione istituzionale, etica, culturale del berlusconismo è dedicata una parte importante dell'intervista, tra la "morte dell'opinione pubblica" e le vulgate dei "nuovi reazionari", il trionfo dell'antintellettualismo e la sostanziale liquidazione della tradizione risorgimentale e resistenziale, l'indifferenza degli eterni "apoti" e il conformismo dei nicodemiti di sempre.
Due libri di narrativa, insoddisfacenti (per me), sia pure per diversi motivi.
L'ultimo libro di Zoran Zivkovic, è stato presentato al pubblico come "Nuovo Borges" (The New York Book Review), dotato della leggerezza di un Calvino (Publishers Weekly), autore di un avvincente thriller che ricorda alla lontana Il nome della rosa, (Nordwest Zeitung), proprio come nei racconti di Kafka (Time out).
Pur se innegabilmente intimorito da un simile fuoco di fila, non nasconderò a coloro che mi leggono che L'ultimo libro è un giallo molto modesto, con un finale pseudofantascientifico sinceramente grottesco e irritante. Narrato in prima persona da un ispettore ultraletterario, si avvale del contributo di un'ovvia libraia - con la quale l'ispettore avrà inevitabilmente una storia - e di alcuni figuranti, defunti compresi. Il nome della rosa può forse venire in mente per via della misteriosa setta di incappucciati che compare a due terzi del libro, ma la vicinanza con Borges è del tutto incomprensibile. Un vero, genuino bidone.
La fortezza della solitudine di Jonathan Lethem è un ottimo romanzo, non ne dubito nemmeno per un attimo. Ma 550 pagine scritte in corpo 10, con interlinea minima e margini disperatamente sottili sono veramente un po' troppo. Sono giunto a pagina 84 - equivalenti a circa 200 di un libro normale o a tre romanzi di Alessandro Baricco - e mi sono arreso.
Ho abbandonato Dylan Ebdus e la sua scassatissima e allucinata famiglia, il quadrilatero di strade dove si sforza di crescere, il ritmo lento, pensoso, onirico e nitido del libro di Lethem con la silenziosa e non infondata speranza di rivederci ancora. Ma per quest'estate basta così.
Passando alle letture di fantastico, delle quali parlerò necessariamente in breve, vista la lunghezza ormai insostenibile di questo post.
Comincerò con un libro che Fanucci offriva al prezzo straordinario di 5 euro per il primo mese dall'uscita. Si tratta di La legge del nove di Terry Goodkind. Potrei limitarmi a riprendere uno dei commenti venuti da parte di un cliente affezionato: «Un simile pacco potevano anche venderlo per 5 eurocentesimi», ma non lo farò. L'ho letto in una settimana. Decente più o meno fino a terzo della vicenda per poi precipitare in un ridicolo sabba di sesso e morte. Più o meno un morto ammazzato a pagina e un ritmo sbrigativo e affannato, come se l'autore avesse dovuto terminare il libro entro una ben precisa data per evitare di trovarsi i cattivi del libro davanti alla porta di casa. Ovviamente inesistenti i personaggi e sinceramente risibile il suo racconto della Terra alternativa, dove i telefonini - come tutto il resto - funzionano grazie a una non meglio specificata magia. Da dimenticare.
Breve nota: Terry Goodkind è l'autore del ciclo della Spada della Verità, ciclo che non ho mai letto (e che non leggerò mai), considerato con stima e considerazione da non pochi lettori di Fantasy. Quindi mi scuso per il trattamento inflitto a Goodkind e al suo romanzo, anche se sottolineo che un giudizio non troppo diverso (opera parassita di altre, con evidenti riferimenti - o debiti - nei confronti di Koontz e Donaldson) si può trovare in rete.
Meritevolissima di lettura l'antologia Controrealtà, a cura di David Hartwell e Kathryn Cramer, 26 racconti di, tra gli altri, Nancy Kress, Terry Bisson, Cory Doctorow, Gardner Dozois, Rudy Rucker, Joe Haldeman, Gregory Benford, Michael Swanwick, Ian MacLeod e Stephen Baxter. 462 pagine di sf pura, a dimostrazione che: 1) la sf è ben viva, 2) il racconto resta una forma di narrazione più che notevole.
Stella doppia 61 Cygni di Hal Clement non è una novità, in nessun possibile senso. Pubblicato nel 1953 negli USA e tradotto da Urania nel 1954 - e riproposto nella collezione Urania a luglio di quest'anno - è un rappresentante di un sf «dura» (ovvero ricca di riferimenti scientifici) amichevole e divertente. Il suo pianeta, un ovoide con tre volte la gravità terrestre all'equatore ma che giunge a un valore pari a settecento «g» ai poli, con per abitanti una sorta di intelligenti aragoste, è animato, in qualche caso spassoso, sempre divertente e istruttivo. Curiosa la scelta, non troppo comune in quegli anni, di affidare il punto di vista principale a un alieno, l'ottimo e brillante comandante Barlennan. Immagino non sia facile ritrovarlo ancora adesso, a settembre già iniziato, ma se vi capita non perdetelo.
Da segnalare, sia pure velocemente, 35 miglia a Birmingham di James Braziel, raffinatissimo e un po' (troppo) steinbekiano romanzo ambientato negli Stati Uniti del prossimo futuro, resi per buona parte praticamente invivibili dalla scomparsa dello strato di ozono. Lettura non esattamente agevole, incentrata sul rapporto irrisolto tra padre e figlio e con una trama piuttosto letargica. Non so se è il caso di consigliarvelo. Anche se... Ma su questo punto ritorneremo.
In questo momento sono impegnato nella lettura di due corposi libri. Uno è il Premio Hugo 2007, Vernon Vinge, con il romanzo Alla fine dell'arcobaleno, il secondo è Anathem di Neal Stephenson, edito da Rizzoli. Stephenson - autore di titoli come Snowcrash, Zodiac, L'era del diamante, Cryptonomicon - ci presenta un affascinante e barocco pianeta - Arbre - dove i rapporti tra scienza e tecnologia sono complessi e indiretti, dove la separazione tra saggi e mistici - gli avout -, che vivono in conventi (i «concenti») e l'umanità comune - i saecular - è reale e profonda. Un romanzo piuttosto complesso (per il momento, intorno a pagina cento, soltanto complicato) con i riferimenti storici, di costume e tradizione, filosofici ed etici che debbono essere afferrati e compresi controllando il formidabile corpus di note storico-linguistiche riportate nella cinquantina o giù di lì di pagine in calce al volume. Non sono sicurissimo di riuscire a terminare, né se riuscirò mai ad arrivare al secondo volume ma sono curiosamente convinto che il libro meriti tanta fatica.
In quanto al libro di Vernon Vinge... Beh, sono arrivato più o meno a metà e ho la sensazione di un libro un po' svitato, assurdo, senza capo né coda, confuso, frammentario, incerto tra un tono allegro e un po' surreale e quello di un thriller acido e freddo. Poi mi è capitato di leggere un interessante dibattito sulla pagina del blog di Urania, dove, per l'appunto si parlava del libro di Vinge e del fatto che l'edizione italiana sia uscita un po' ridotta rispetto a quella originale. Ipotesi che veniva poi confermata - in maniera brusca e urtante - da un intervento di Giuseppe Lippi, direttore di Urania. Per poter uscire in Urania - e poter rimanere nel numero di pagine previsto - i romanzi possono essere decurtati di un 15%, un taglio "non strutturale", ovvero che non riguarda vicende o personaggi, ma soltanto la forma del testo. Come dire che «Rispose agitato», diventa «Rispose» e «Osservò amaramente», si riduce a «Osservò».
Il motivo di questa scelta è che Mondadori vuole mantenere a tutti i costi basso (scusate l'involontario bisticcio di parole) il prezzo della rivista. Preferisco non esprimermi, anche se mi dico perfettamente d'accordo con Vincenzo Oliva nel commento riportato nel suo blog Allontaniamoci da Omelas. Ciò che afferma Iguanajo nel suo blog rende perfettamente il senso di ciò che avviene nel mondo mondadoriano. Credo anch'io che la politica di Mondadori nei confronti della SF rischi di essere suicida. Ma, ahimé, per i lettori italiani al di fuori di Urania rimane ben poco...
Conclusione: ho interrotto la lettura del libro di Vinge. Credo che se l'autore (che NON HA CONFERMATO l'accordo con Mondadori per il tagliuzzamento del suo libro) ha scelto di scrivere «Rispose agitato» e «Osservò amaramente» esista un motivo che ha a che vedere con la natura profonda della narrativa.
...
Per questa volta ho finito.
Finalmente.
Un post troppo lungo, lo so.
Aspetto i vostri commenti. O, meglio, le vostre osservazioni amare.