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– Ma
come sono le fate? Intendo dire nella loro vita di tutti i giorni,
cosa pensano, sognano, desiderano?
Il
boccone che pacificamente stava compiendo il suo tragitto diretto
alla bocca del boldhovin si ferma a mezz'aria ed il proprietario
della mano che lo sorregge insieme alla forchetta sgrana gli occhi
verso il suo interlocutore. – Sul mio onore questa è una ben
strana domanda, Basso Okme. Non conosci forse Sibiell ed i suoi amici
seduti qui alla nostra tavola?
L'Uccello-di-Legno
si stringe nelle spalle con un buffo movimento a singhiozzo. – Non
posso dire di conoscere bene Sibiell. Nessuno può mai vedere una
fata se non quando è ella stessa a decidere di mostrarsi e nulla si
sa di loro se non quanto sono loro stesse a dire. Una fata è una
creatura volubile e bizzarra come la brezza vespertina e nessuno
riesce mai ad indurla a discorrere dello stesso argomento per più di
pochi minuti.
–
È vero. – Conferma Matushka nella sua veste originale, seduta sul
tavolo davanti ad una scodella di zuppa. – Sibiell è matta come
tutte le sue simili, anche se è molto gentile con noi due che chiama
i suoi familiari. Io sinceramente non credo che faccia altro che
cantare, danzare, intrecciare amori con i Silvani, raccontare storie
meravigliose, comporre ghirlande ed altri oggetti fragili ed inutili
e bere tisane parlando delle doti dei suoi amanti con altre fate.
–
Matushka! – Insorge Plinio, acciambellato su una vecchia poltrona
davanti al caminetto. – Le fate come Sibiell hanno una quantità di
compiti che noi ignoriamo, doveri, responsabilità, tristi pensieri…
–
Quali per esempio? – Lo interrompe Basso Okme.
–
Beh, ecco… Ora di preciso non saprei dire, ma senza dubbio…
Insomma avranno qualcosa di cui preoccuparsi anche loro come tutti
no?
–
Risposta insufficiente. Per quanto ne so la parola «preoccupazione»
non esiste tra le fate, proprio nel suo senso di «occuparsi prima»
o ha un significato molto diverso.
–
Hai ragione Basso Okme. – Interviene Matushka – Non ho mai visto
Sibiell affannata o nervosa o appunto, «preoccupata». Ma perché
non lasciate parlare Klog, che è l'unico di noi ad avere una
conoscenza approfondita delle fate?
Klog
che nel frattempo sta ricevendo dalle mani dell'oste la seconda
scodella di patate arrostite nel fuoco del caminetto e profumate con
ginepro, erba cipollina, scalogno e rosmarino, sussulta come uno
scolaro pizzicato dal maestro e guarda accorato le sue adorate
patate.
–
Non voglio essere scortese, miei cari amici, ma si tratta di una ben
lunga chiacchierata e temo che di essa avrebbero a soffrirne queste
meravigliose patate. Non potremmo rimandare al termine della cena?
–
Vergogna, Klog. La metà della bellezza di una cena in compagnia sta
nel conversare e l'altra metà sta nell'ascoltare la piacevole
conversazione. Se ne deduce che le tue patate non esistono. Quindi
puoi parlare senza remore.
Il
boldhovin guarda con dispetto l'uccello di legno ed annusa la
scodella. – Non esistono, eh, vecchio uccellaccio? Magari per te
che al posto dello stomaco hai ragnatele e polvere, ma per me che ho
sconfitto i temibili Syerdwin… Va bene la smetto. Allora, come
tutti sapete le Gwellyniuin sono creature di aria, nate dal vento,
dai fiori e dalla rugiada o almeno così si racconta. Mia madre
Armelinda non mi ha mai fornito schiarimenti su questo né io ne ho
mai chiesti. In realtà devo ammettere che mia madre non ha mai
dedicato alla mia educazione neppure un pensiero. Se volevo potevo
seguirla altrimenti ero libero di andare dove desideravo. Una
condizione ben graziosa per chiunque soffra per una madre troppo
apprensiva e soffocante, ma alla fin fine ben strana. È sconcertante
chiedere alla propria madre. «Posso arrampicarmi su quell'albero
altissimo e penzolarmi giù come una scimmia?» sentendosi
rispondere: «Certo», oppure «Posso attraversare a cavalcioni su un
tronco quel corso d'acqua impetuoso?» ed avere per risposta:«Ti
prego, Klog, non annoiarmi con queste piccole faccende. Fai ciò che
vuoi.»
Allora,
quando le gwellyniuin e le altre creature del bosco mi chiamavano
«pelosino» mi sono spesso sentito molto solo ed abbandonato, tanto
che mi era passato il desiderio di fare tutte le sciocchezze che fa
qualunque cucciolo. Stavo seduto su un vecchio albero, imbronciato, a
tirare pigne in testa a tutti quelli che passavano ed a fare domande
ad un vecchio tasso che abitava in un buco nella corteccia…
–
Un tasso! Io odio i tassi, sono così stupidi, pedestri, invadenti,
goffi e incivili! – Si intromette Matushka. – Parlano solo per
dire cose banali come «passami il sale», «fatti in là» oppure
«oggi pioverà». Io non perderei nemmeno un minuto per parlare con
un tasso. Sì, lo so, nessuno ha chiesto il mio parere, ma ci tenevo
che sapeste quanto valgono i tassi, ecco.
–
Grazie, Matushka. Puoi riprendere ora Klog? – Commenta Plinio con
un lungo sospiro.
Il
boldhovin che ha approfittato dell'interruzione per riempirsi la
bocca di patate, beve un lungo sorso di birra e guarda tristemente la
sua scodella.
–
Beh, era molto interessante ciò che diceva Matushka. Io comunque non
ho detto che il tasso mi rispondesse volentieri, ho solo detto che
gli parlavo. Il più delle volte Grial, questo era il suo nome, mi
ignorava o sbuffava come una teiera e solo di tanto in tanto mi
rispondeva con strane frasi che mi obbligavano a ponzare per delle
ore. Una volta gli ho chiesto «Ma è giusto che le Gwellyniuin
ignorino così la sorte di noi pelosini?» Ed egli mi ha risposto:
«Solo chi non è contento di se stesso fa continuamente domande
stupide.» In quell'occasione ho pensato per tre giorni di seguito
senza più parlare né con Grial né con nessun altro. Credo che
questo fosse il suo scopo, tutto sommato, ma i suoi indovinelli mi
hanno fatto bene. In capo a tre giorni avevo trovato la risposta alla
mia stessa domanda ed era una ben strana risposta… Scusate.
Il
Boldhovin si china sulla sua scodella mentre Edalan l'oste versa
birra e latte nelle scodelle di tutti, fatta eccezione per Basso
Okme, Bariton'Onodio e Maestro Selestin che non vivono di cibo
materiale ma di musica e riflessioni profonde.
–
Dicevo: la risposta era ben strana un po' perché credo fosse la
prima riflessione vera che facevo un po' perché riguardava la natura
stessa delle Gwellyniuin. Molte volte avevo avuto prove del fatto che
la Fata Armelinda mi amava, un po' per i suoi baci, un po' perchè mi
stringeva al suo petto che sapeva di fiori, d'erba e di vento e
giocava con me come una bimba, un po', infine, perché non mancava di
farmi raccomandazioni o raccontarmi delle strane cose che vivevano e
soffrivano nel grande arco del mondo. Ecco il fatto è che le fate
sono creature del Vento e come il loro padre non hanno casa né
confini, qualcosa da conquistare o qualcosa da perdere. Esse passano,
come ogni cosa di questo mondo senza preoccuparsi di lasciare un
segno, un ricordo, senza costruire né distruggere, senza fare del
male e senza fare del bene. La loro mente non si ingombra di progetti
né di ricordi: esse sono il Presente e anche quando fingono di
parlare del Futuro o del Passato lo fanno solo per assaporare il
momento nel quale parlano o ascoltano. I loro discorsi non hanno
inizio né fine e non vanno in nessuna direzione, sono fatti per
incantare e divertire, per stupire e per giocare. Nella loro lingua
non esistono parole come «dovere» o «obbligo», ma nemmeno
«dubbio» o «rimorso». Quando ho capito questo, ed ero un pelosino
non più tanto piccolo, ho provato un grande affetto per mia madre
Armelinda che non ha mai cercato di rendermi diverso da come sono,
non ha mai cercato di guidare le mie emozioni né i miei pensieri,
lasciandomi libero come nessun'altra madre avrebbe saputo fare.
–
Scusatemi ma è un ben strano modo di amare, questo, messer Klog. –
L'oste Edalan sedutosi al loro tavolo, l'unico occupato nella
«Locanda della Felce d'Argento», ride e solleva la caraffa per
versargli altra birra. – Mia madre, Donna Leonora di Ranvessel, era
più prodiga di sberle che di parole con me, eppure non credo di
essere venuto su particolarmente male ed ora ringrazio e benedico la
sua mano ossuta e legnosa che mi ha insegnato i doveri, gli obblighi
e quanto serve a fare di un ragazzo un uomo. Scusatemi, ma penso che
se voi siete una creatura di cuore nobile e di mente agile questo si
debba alla vostra indole e non al luogo dove siete nato e cresciuto.
L'oste
è un uomo grande come un lupo-drago, dai capelli color del miele e
dalla barba folta di una sfumatura di un colore leggermente più
scuro. Ha occhi grigi come una mattino nebbioso e qualcosa nel suo
passo, nel suo modo di muoversi e di sorridere sprigiona un'istintiva
simpatia e fiducia, evoca la quiete di una serata trascorsa a
chiacchierare davanti al caminetto mentre fuori il vento e la neve
scuotono la terra. Klog annuisce educatamente alle sue frasi,
cercando di capire se il dubbio che l'ha colto dal momento in cui ha
visto per la prima volta l'oste corrisponda alla realtà oppure no.
–
Non posso negare che vi sia del giusto nel vostro discorso Mastro
Edalan, ma non è detto che si debbano percorrere le stesse strade
per giungere nello stesso luogo. La natura di mia madre era quella
che ho appena descritto, simile a quella di tutte le altre fate che
ho conosciuto. Se esse nascano così o lo diventino stando con le
altre gwellyniuin non saprei dirlo. So di fate che finiscono con
l'invecchiare vivendo con le altre creature, che divengono amare e
maligne e dimenticano la loro lingua, imparando a pensare con quella
dei Syerdwin o degli Uomini. Questo dimostrerebbe che la loro natura
non è così definitiva come sembra, cosa in fondo vera per noi
tutti. Io ho quasi dimenticato la loro lingua, che ahimè non serve
nel mondo dei re e dei mendicanti. A che pro dire «Le tue parole
disegnano un lungo, tiepido momento, simile al colore del tuo diadema
di petali e di profumo.» Così non parlano neppure gli artisti,
tra la gente.
–
Disegnare, «durwaldee». – Interviene Maestro Selestin. – È uno
dei pochi verbi delle Gwellyniun, ho sentito dire. Esse non hanno
quasi verbi, non vogliono mai, ma assistono, guardano e giocano. Se
solo potessi trasformare in musica la loro lingua sarei il musicista
più felice del mondo e tutti verrebbero ai nostri concerti per
provare la felice singolarità di ogni momento, che adesso ingoiamo
di fretta, senza appetito e senza piacere.
–
Tu sei un vero saggio, Maestro Selestin, e la tua musica possiede già
questo dono. – Edalan solleva la coppa ed indica l'anziano
uccello-di-legno. – Io bevo al migliore dei musicisti ed al più
saggio degli uccelli. Chi è d'accordo con me beva, altrimenti
affoghi.
Come
un sol uomo tutta la numerosa compagnia alza la coppa o tuffa il muso
in una ciotola per festeggiare a gran voce Selestin e persino gli
altri due uccelli-di-legno presenti fingono di bere per onorare il
loro maestro
–
Bene! E adesso che abbiamo giustamente festeggiato il così degno
Selestin vorrei chiedere agli altri se il racconto di Klog ha
esaurito l'argomento o no. – Continua l'oste. – Se qualcun altro
ha qualcosa da aggiungere lo faccia subito: la notte è ancora
giovane.
–
Io mi ritengo soddisfatto. – Dice Basso Okme. – Sibiell e le
altre fate non avrebbero potuto essere meglio descritte di come il
boldhovin ha fatto parlando di sua madre Armelinda. Le gwellyniuin
hanno il dono della felice inconsapevolezza che è comune al pazzo
come al saggio. Se il mondo dovesse perderle sarebbe una ben grave
perdita.
–
È vero. Le fate amano senza chiedere in cambio nulla, senza
pretendere nulla, senza gelosia e senza dolore e insieme non sono di
nessuno, nessuno le possiede. Un po' come noi gatti.
Chiunque
conosca un poco i gatti sa quando stanno sorridendo ed in quel
momento Plinio sta proprio sorridendo, la pancia piena e la groppa
riscaldata dal fuoco.
Klog
approva e si volta verso Edalan, aspettandosi di incontrare il suo
sguardo pieno di calore e di simpatia. Ma l'oste si è rabbuiato, i
suoi occhi si sono fatti remoti e inespressivi, come se cercassero di
celare violente emozioni.
–
È assolutamente vero, Plinio, e rendo omaggio al tuo acume ed alla
tua sfacciataggine. Ma le tue parole mi hanno ricordato una storia
così antica che dubito che qualcuno qui abbia mai sentito…
Anche
se voce di Edalan suona allegra e potente come sempre Klog avverte in
essa un'incrinatura sottile, come un cristallo che abbia perduto la
sua leggerezza.
–
Racconta, racconta! – Lo scongiura Matushka. – Le tue storie sono
sempre così affascinanti.
–
In questo caso mi duole di non ricordare una storia più allegra, ma
anche di queste storie è fatta la vita. Un tempo, non lontano da
qui, viveva un potente mago. Il suo nome era Holmen il Luminoso ed
egli era giovane allegro e tanto abile dall'essere divenuto mago ad
un'età nella quale la maggior parte degli apprendisti stanno ancora
faticando tra provette, alambicchi ed antichi volumi. Il suo maestro
era un mago anziano, poco noto, di nome Lanneberd. In quel tempo il
seme dei Notturni non si era ancora indebolito ed egli era un Neek,
cioè il figlio di un Notturno e di una donna umana. La magia dei
Notturni è la più potente e la più segreta del mondo, ma il suo
maestro la conosceva in buona parte, come era costume per i Neek che,
seppure già molto meno numerosi che nei tempi antichi, erano ancora
forti e possedevano terre e castelli. Holmen, addestrato di nascosto
alla potente magia dei Notturni, era ben presto divenuto uno dei
maghi più richiesti e più amati nel vasto arco del mondo. I
Syerdwin, i Gu'Hijirr, gli Uomini, i Lupi-Drago lo conoscevano e lo
stimavano ed i loro Re e Signori lo chiamavano nei quattro angoli del
mondo per salvare raccolti, catturare rari animali, togliere fatture
di maleficio, curare i mali della mente e del corpo, conquistare il
cuore di fanciulle o liberarsi di amanti divenuti sciocchi e noiosi.
Non aveva mai il tempo neppure di riposare Holmen e soprattutto non
aveva più il tempo per riflettere, meditare. Giovane, potente,
ricco, sicuro di sé, egli era l'incarnazione della buona sorte,
della fortuna e tanto aveva udito ringraziamenti e benedizioni che la
sua stessa non comune intelligenza non riusciva più a tener dietro
alla vanità ed alla sicumera. Poi un giorno, al culmine della
potenza e della fama, mentre si allontanava dalla Foresta Sacra di
Anndhuil, dove era stato eletto dagli altri maghi nel Settimo Segreto
della loro Gilda, una carica che mai nessuno della sua età aveva
ricoperto a memoria del Mondo, incontrò una povera creatura, un
bimbo d'uomo che piangeva desolato appoggiato ad un albero.
«Che
hai, bimbo?» Egli chiese, ma il piccolo non rispondeva. Poi, con
infinita pazienza lo indusse a confidarsi ed il bimbo gli disse che
sua madre adottiva, una Gwellyniuin, stava morendo. La sofferenza
delle fate era un fenomeno bizzarro e singolare, talmente unico che
Holmen sentì che quell'incontro era una sorta di sfida che il
destino metteva sulla sua strada, un sigillo alla sua grandezza che
credeva senza limiti.
Seguendo
il bimbo giunse alla casa della fata e la trovò adagiata su un letto
di petali di fiori e di teneri germogli, con gli occhi chiusi,
pallida come la morte stessa. Non era la prima volta che incontrava
una fata, ma quella era di una bellezza talmente abbagliante e
perfetta che Holmen cadde innamorato di lei senza speranza e senza
memoria di altre donna conosciute prima. La fata si svegliò dopo
pochi attimi, avvertendo la sua presenza e gli sorrise. «Buongiorno,
mago Holmen.» Disse e quelle parole, pronunciate dalla labbra
esangui della fata, simili a petali di rosa bianca, furono il
lucchetto che chiuse per sempre la serratura del cuore del Mago.
Holmen non avrebbe mai più potuto innamorarsi di un'altra creatura
in questa o in un'altra vita. Senza perdere tempo egli estrasse dalla
sua borsa magica tutti i suoi strumenti e le sue pozioni, anzi, fece
di più: fece divenire la sua borsa una porta che si apriva sul suo
laboratorio in modo da poter disporre di quanto gli serviva e si mise
al lavoro. Il bimbo, orfano di due boscaioli che vivevano ai bordi
della foresta si mise immediatamente al suo servizio e Holmen non ci
mise molto a capire cosa avesse fatto ammalare Loredil la Gwellyniun.
Ella era preoccupata, semplicemente preoccupata per la sorte di quel
povero bimbo ed il pensiero del suo futuro in un mondo che non aveva
pietà dei bambini. Ella aveva fatto violenza alla sua natura per
prenderlo con sé ed ancor più ne faceva preoccupandosi del suo
destino. D'altro canto il bimbo, di nome Eld, non aveva mai avuto una
madre così bella, allegra, fantasiosa, capace di raccontare fiabe
così meravigliose e rispondeva con tutto il suo affetto a tanta
attenzione. Il problema non era facile, come si vede. Holmen avrebbe
potuto ridare la salute alla fata solo allontanando da lei il bimbo,
ma così facendo avrebbe spezzato il cuore di entrambi e non avrebbe
mai potuto ricevere l'amore della fata.
–
Bel problema, non c'è dubbio. – Osserva Bariton'Onodio. –
Perlomeno all'altezza della sua abilità.
–
Infatti. Ma per quanto si scervellasse Holmen non riusciva a trovare
soluzioni ed il bimbo, vedendolo tanto prodigarsi aveva preso ad
amarlo come un padre, rendendogli impossibile allontanarlo da lì per
salvare la vita di Loredil. La sua amata tuttavia, forse per le sue
cure o meglio per i motivi che fra poco vi dirò, sembrava
migliorare, sia pure debolmente. Lentamente i suoi occhi riprendevano
lucentezza, il suo incarnato colore, le sue membra forza. Nel vedere
che i suoi rimedi avevano qualche effetto Holmen prese a prodigarsi
anche più di prima e Loredil ogni giorno sembrava stare meglio del
giorno precedente. L'unico neo della cosa era che ella ora trattava
con distrazione e senza attenzione il piccolo Eld, che sempre più
spesso trascorreva il suo tempo con Holmen. D'altro canto anche verso
il mago il suo atteggiamento era cambiato. Ora ella rideva spesso
della sua serietà, lo canzonava quando egli parlava d'amore,
raccoglieva fiori e sorrideva senza rispondere quando lui le apriva
il suo cuore per descrivere i suoi sentimenti. Holmen continuava,
perplesso a somministrare alla fata le sue pozioni, ma qualcosa in
lui si era come spezzato: il sorriso con cui lei l'aveva accolto non
era mai più tornato sul suo volto ed ora gli tornava alla mente ogni
istante, egli lo paragonava ai sorrisi distratti o buffi che ora lei
gli indirizzava ed ogni volta era come se una freccia si piantasse
nel suo cuore. I suoi sonni si fecero agitati, dolorosi e i risvegli
rabbiosi e cupi. Giunse ad odiare la sua levità, le sue piccole
vanità, il suo infantile ridere di ogni piccola cosa ed egli divenne
geloso di ogni momento che ella viveva da sola. A tratti sul volto di
lei si accendeva nuovamente quel sorriso e quello sguardo ed in quei
momenti Holmen ridiventava l'uomo più felice del mondo, ma quei
momenti duravano poco perché egli non si saziava mai di quei pochi
istanti e cercava disperatamente nuove conferme del suo amore che la
fata, distratta e immemore, non poteva dargli.
–
Ma come poteva ignorare così la natura delle fate? Tutti gli uomini
sanno che innamorarsi di una gwellyniuin è una follia.
–
È vero, Klog. Ma Holmen pensava di essere il migliore degli uomini.
Ma la sua superbia fu anche la punizione di se stessa, come vedrete.
Un giorno che era nel suo laboratorio in compagnia del piccolo Eld,
divenuto suo allievo, Holmen decise di andare a trovare la fata di
sorpresa per portarle una pietra di opale che gli era costata molto
lavoro e molta fatica. Prese per la porta magica che univa il suo
laboratorio alla casa della fata e, emozionato al pensiero di quanto
lei avrebbe gradito quel regalo, la oltrepassò senza annunciarsi.
Oltre la porta magica la bella Loredil giaceva tra le braccia di un
Erbano, ridendo ed accarezzandone il volto legnoso. Quando vide il
mago ella lo salutò con il consueto sorriso e pronunciò il nome del
Silvano. In quel momento tutto il mondo di Holmen si spezzò come si
spezza uno specchio. Egli prese a urlare ed a minacciare, gettò la
pietra di opale contro il muro, spezzandola in mille frammenti di
ogni colore, mentre la sua mente lavorava furiosamente cercando una
formula che gli desse la vendetta più crudele e orribile. Ma le
altre fate percepite le sue emozioni intervennero e cancellarono
parte della sua memoria con un antico sortilegio. Egli, stupito,
imbarazzato, si trovò improvvisamente al cospetto di una coppia
innamorata nella più imbarazzante e inopportuna delle situazioni. Si
scusò con i due, prese con sé Eld, che aveva assistito alla scena
in silenzio, oltrepassò la porta magica e la chiuse per sempre. Da
quel momento, senza nemmeno sapere il perché egli cessò di
frequentare il mondo, scomparve con la sua magia nascondendosi in
un'antica foresta e solo nei sogni, confuso e strano, egli vide
ancora il sorriso della fata che aveva voluto possedere e a quella
vista nei sogni seguiva sempre una sensazione di vergogna e di
dolore.
–
Una ben triste storia, Mastro Edalan, però perfettamente adeguata
alla nostra conversazione precedente. Sapete se ora quell'uomo vive
ancora, sapete se è felice, se ha trovato pace?
–
Pace… Beh in un certo senso sì, Messer Klog. La sua magia ora
serve a rendere la gente amica, a rendere più felice il soggiorno
nella sua locanda, talmente nascosta ed appartata che ben pochi la
frequentano.
–
Capisco, Mastro Edalan. Certo una leggera magia in certi luoghi o in
certi volti non si può ignorare. Sapete anche quale fu la sorte del
giovane Eld?
–
Il suo nome adesso è Sealghan, il grande evocatore al servizio di Re
Barstodesch.– Sorride l'oste. – Una bella riuscita per un'orfano.
–
Permettetemi di bere alla vostra salute, allora, per festeggiare una
così degna fine della vostra storia.
–
Alla vostra, Messer Klog ed a tutti coloro che hanno udito questa
storia così istruttiva, dovunque essi siano.
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