Un racconto, scritto nel 1999 e pubblicato nel 2001 su Fata Morgana 4, «Nuvole». Un racconto... beh, diciamo di sf, sottogenere catastrofico, tanto per sgombrare il campo, anche se inevitabilmente un po' ballardiano nell'approccio e nella storia raccontata. Nato da un frammento mal ricordato di una vecchissima canzone (1971) scritta da un gruppo praticamente sconosciuto e tratto da un album dal nome profondamente suggestivo (per me): «Alpha Ralpha Boulevard». Nel brano qualcuno cantava: «... E rido con i miei cani / ebbro di felicità...»
Stamattina,
verso le cinque, sono arrivati altri due camion.
Ho
sentito gli uomini aprire le porte, scaricare le vecchie coperte
color polvere, li ho sentiti parlare troppo forte, scherzare ad alta
voce. Hanno messo in posizione la gru montacarichi senza preoccuparsi
di quelli che dormivano. Siamo rimasti in ben pochi, in questo
quartiere.
Li
ho spiati dalle fessure delle serrande che lasciavano entrare una
luce lattiginosa. Si muovevano velocemente, ma con una sorprendente
cautela, con la sicurezza dei gesti di chi è abituato a utilizzare
l'intero corpo, nel lavoro, e insieme con l'attenzione di chi non
vuole scuotere la terra, di chi cerca di passare inosservato.
Siamo
in molti, ormai, a farlo. Molti a muoverci - in ritardo - con questa
nuova cautela. Molti a camminare sulla terra con la gentilezza che si
ha nell'appoggiare il passo su un pavimento antico, fragile e
incerto.
Qui,
molto vicino al nuovo limite della costa noi superstiti abbiamo
cessato di usare la macchina. La corrente elettrica arriva solo per
due ore al giorno e per comunicare non ci sono rimasti che i telefoni
cellulari, almeno finché vi saranno ancora ripetitori.
Dalla
finestra, al quarto piano cominciano a scendere i mobili. Mobili
scuri, lucidi e rotondi come carapaci di scarabei. Specchi, sportelli
chiari di cucina, lavatrice, frigorifero, lavastoviglie, scrivanie,
scaffali smontati, tappeti arrotolati. Da una finestra aperta una
donna, con il viso coperto da un foulard, assiste alla morbida
discesa dei suoi mobili, la gru montacarichi ronza, gli uomini
lanciano le coperte, spostano, caricano, danzano attorno ai loro
camion. Il cielo si schiarisce a oriente, oltre i tetti delle
fabbriche affondate.
Conoscevo
quella donna? Non smettevo di osservarla. Alle sue spalle il buio, la
luce arriverà più tardi, verso le otto.
Era
giovane? Sì era giovane, poteva essere una sorella minore della
padrona di casa o una figlia già grande. Indossa una vestaglia da
notte, un pigiama, ancora tiepido? Sentirà l'odore del proprio sonno
salire dalla fessura chiara tra i seni?
L'odore
intimo del proprio sesso, per l'ultima volta nella giornata. È
sottile, magra. Si volta per parlare con qualcuno dentro casa.
Scompare.
Vieni
a vestirti, vieni ad aiutare, ci sono i bicchieri da imballare, ci
sono i piatti da salvare.
Scende
una televisione, solenne, lucida. Gli uomini la trattano con
rispetto, l'avvolgono nelle coperte come un nuotatore valoroso e
stanco.
Un
uomo anziano, con un cagnolino li osserva, ai bordi del giardino.
Nessuno ha più potato i cespugli che lo separano dal marciapiede.
Tra le crepe crescono piante verdi e forti. Il vento porta il leggero
odore del mare.
Il
suono di una radio accesa. Ineguale, proviene dai finestrini aperti
di un'auto che gira nelle vie vuote, zigzagando tra i marciapiedi non
più protetti da una doppia fila di veicoli. Sono fuggiti verso
l'interno, verso la terra che inavvertibilmente sale, che promette di
farsi costa e isola.
Sono
usciti per ultimi, portando le valigie e gli ultimi oggetti, i più
cari. Sono saliti in auto e hanno atteso, con il motore acceso, che
gli uomini terminassero le operazioni di carico.
La
mia stanza si accende. È arrivata la corrente, sono le otto. Non
spengo più le luci, che bisogno ho di farlo? Devo andare a cucinare
sul fornello elettrico le poche cose che mangerò oggi e nei prossimi
giorni. Un'ora di elettricità adesso e un'altra alle otto di
stasera, per mangiare.
La
mia casa è semivuota, poco per volta l'ho svuotata gettando via ogni
cosa: mobili, abiti, libri, elettrodomestici, come se, una volta resa
più leggera, potesse galleggiare.
Abito
al pianterreno, quando arriverà, l'Onda, entrerà dalle mie porte e
dalle mie finestre. Finché potrò la guarderò, forte e limacciosa,
poi salirò di un piano, di un altro, di un altro ancora. Attenderò
che il mare tiri il fiato prima dell'ultimo assalto. Ci vorranno
mesi.
I
camion vengono chiusi, si accendono i motori. Un braccio si sporge
dall'abitacolo del camion, fa segno all'auto di precederli. L'auto
scivola sotto le pareti lucide, colorate di giallo e azzurro degli
autocarri, proietta la sua ombra sulle grandi ruote. Prende la strada
che porta fuori dal quartiere. Alzo le serrande e saluto l'ennesimo
piccolo convoglio che fugge davanti al mare.
Nessuno
mi risponde, cerco di ascoltare il suono dei motori, di separarlo,
finché è possibile, dal silenzio.
Nel
cielo le nuvole sono immobili, fotografate dalla luce del sole come
particolari di una scenografia. L'aria è ferma, senza odore. La
strada, davanti alla mia finestra è vuota.
Potrebbe
arrivare di notte, lo so. Entrare urlando dalla finestra, travolgermi
senza che neppure me ne accorga.
Non
riesco a trovare preoccupante, questa possibilità. Mi addormento
ascoltando il silenzio della terra.
L'acqua
che sale dai rubinetti, solo due volte al giorno, già da mesi è
meno limpida e ha un sapore che ricorda quello delle docce sulla
spiaggia.
Sono
rimasti pochi rumori, le finestre sono serrate, come se fosse
possibile ritornare, ripercorrere al contrario la strada che ci ha
portato a questo punto.
Per
due ore al giorno ascolto la radio, le stazioni che poco per volta si
sono ridotte a una sola, che trasmette sulle onde medie. Che dà
informazioni sul traffico, sui villaggi di accoglienza, sulla legge
marziale, sulle fucilazioni, sulle bande armate che attaccano i
convogli diretti verso l'interno, sulle dighe in costruzione, sulle
terre divenute fondali marini, sui terremoti e le frane.
Poca
musica, quasi esclusivamente classica, inserita tra un comunicato e
l'altro dell'autorità straordinaria che regge quel che resta della
nazione.
Qualcuno
è rimasto. Nella via alle mie spalle ci sono dei panni stesi ad
asciugare. Il vecchio con il piccolo cane che circola in bicicletta,
la bestiola seduta nel cestino. Gli sciacalli vengono di notte,
entrano nelle case svuotate, distruggono gli infissi, sporcano,
qualche volta accendono fuochi. Ma ormai non c'è più nulla da
rubare e nulla da distruggere.
Dormo
protetto da una porta corazzata e da una pistola. Ma finora non hanno
bussato alla mia porta.
Nell'appartamento
abbandonato tre giorni fa una luce è accesa. Strano, una delle
ultime abitudini civili è di staccare l'interruttore centrale della
corrente, come quando si parte per una lunga vacanza.
Nella
luce del crepuscolo cerco di individuare un movimento, il passaggio
di un'ombra dietro le serrande non completamente chiuse. Un paio di
volte ho la sensazione di vedere qualcosa di chiaro che scorre veloce
dietro le finestre.
Prendo
la torcia elettrica ed esco. Attraverso la strada per raggiungere il
palazzo di fronte. Il portone è aperto, salgo le scale fino al terzo
piano. La porta dell'appartamento è spalancata, fili elettrici
pendono dalle scatole degli interruttori strappate dai muri. La casa
è completamente vuota, non solo: il filo che porta la corrente al
contatore è stato tagliato.
Mi
affaccio alle finestre. Il mio appartamento è ben visibile, da lì.
Riconosco la mia finestra aperta, un angolo del letto non fatto, la
poltrona.
Eppure
stamattina molto presto la luce era accesa, proprio in questo
appartamento.
Prima
di uscire scardino le serrande delle finestre affacciate verso di me.
Esco, cercando di convincermi di aver sbagliato piano.
La
luce è incerta, puntiforme. Passa oscillando davanti alle finestre
spalancate seguendo un passo lento e regolare ma non riesco a
scorgere chi la tiene in mano. La luce di una candela o forse di una
piccola torcia. Potrebbe trattarsi di uno sciacallo, di un
visitatore, ma perché in quella casa, al terzo piano, dove non c'è
più nulla, anonima e uguale a tutte le altre che la circondano?
Il
vecchio se ne sta da solo sul marciapiede. Tiene la bicicletta
inclinata con una mano, chiama a intervalli regolari: «Rigolò?
Rigolòooo?»
Il
piccolo cane non c'è. Generalmente compariva strisciando sotto un
cespuglio, arrivava zigzagando, il ventre sporco di terra e di
frammenti di foglie. Il vecchio lo rimproverava, lo ripuliva con il
suo fazzoletto e lo caricava nel cestino della bicicletta.
Probabilmente lo portava a vedere il nuovo mare, appena oltre la
vecchia stazione.
Ci
sono andato solo una volta a vederlo: un mare color cenere,
limaccioso, gonfio. A emergere dalle acque sono rimasti gli ultimi
piani di un palazzo lontano e le torri della vecchia centrale
elettrica, simili a scheletri di ombrelli spezzati e conficcati
nell'acqua. All'ultimo piano il palazzo, reso più chiaro dalle
piogge, ha ancora le antenne paraboliche, puntate verso il cielo come
funghi rovesciati. Non ci vive più nessuno.
«Rigolò,
Rigolò?»
Come
nome cretino per un cane. Può essere una storpiatura di Rigoletto o
di Regolo, Attilio Regolo. Il vecchio non si stanca, continua a
chiamare.
Stamattina
alle otto la corrente non è più arrivata.
Il
quartiere è ufficialmente morto. Anche il vecchio è scomparso. Di
notte i cani abbaiano e ululano. Abbandonati, attraversano le vie
ancora esitanti, giunti sul marciapiede si fermano ad annusare il
vento, abbassano la testa e corrono via.
Sono
tornato all'appartamento di fronte. Ci sono macchie di fango fresco,
orme incerte e confuse. L'aria sa di vecchie alghe, di legna marcia
di salsedine asciugata dal vento.
Ieri
ho bruciato il mio primo palazzo, a un paio di isolati dal mio. È
stato un lavoro faticoso. Ho fatto la spola tra il vecchio
distributore di benzina lungo la via principale portando due taniche
per volta, sono salito in cima alle scale e ho rovesciato la nafta
sui pavimenti e le scale. Ho ripetuto l'operazione più volte. Alla
fine, morto di stanchezza, ho atteso che calasse la notte.
All'inizio
dalle finestre aperte usciva solo fumo, un fumo grigiastro che sapeva
di plastica. Poi il fuoco ha attaccato le porte e gli infissi e le
fiamme sono apparse dietro alle finestre. I vetri hanno cominciato a
esplodere per il calore. Contemplavo lo spettacolo sentendo la faccia
bruciarmi. Alle mie spalle i cani. Guardavano a turno me e il rogo,
seduti, intenti e affascinati. Abbiamo fatto qualche passo indietro
quando le fiamme hanno cominciato ad alzarsi più robuste.
Il
palazzo ha impiegato diverse ore a bruciare completamente. Ogni tanto
un pavimento crollava e una corona di scintille si alzava verso il
cielo. Urlavamo, allora, e io ridevo, ridevo e bevevo. I cani si
allontanavano da me di qualche passo, senza perdermi d'occhio.
Ho
trovato delle pile, oggi, e le ho inserite nella radio. Nulla, nessun
segnale disturbava il fruscio del quadrante.
Nelle
ore più calde della giornata, quando anche i cani dormono, ho
sentito delle voci. Voci quiete, tranquille, inafferrabili. Nulla di
convulso, eccitato, nervoso. Chiacchiere a tavola, tranquille storie
del dopopasto.
Mi
sono trasferito nel palazzo di fronte, al terzo piano.
Il
trasloco è stato svelto, sotto una pioggia battente. Ho portato qui
le mie poche cose e mi sono affacciato alla finestra. I cani per
strada mi hanno guardato, come passanti sorpresi. Non scodinzolano
mai, questi cani e non hanno paura del fuoco. Non si avvicinano né
mi aggrediscono, si limitano a sorvegliarmi, a seguirmi.
Ho
atteso il buio seduto, la schiena appoggiata a una parete.
Sono
qui, dicevo a intervalli regolari. Non udivo la mia voce da giorni e
non riuscivo a trovare il tono giusto per parlare. Ora urlavo, ora
bisbigliavo. Le parole mi sembravano senza senso e mi venivano
restituite, ancora più insignificanti, dalle pareti spoglie.
La
luce mi ha svegliato, un raggio sottile che disegnava le pareti.
La
luce di una torcia elettrica.
Nell'oscurità
un respiro affrettato, un'ombra indistinta che ha atteso che fossi
sveglio per fuggire silenziosamente. Mi sono alzato in piedi,
disorientato, cercando di seguire la direzione dei passi.
Mi
sono affacciato alla finestra. Credo di aver visto qualcosa, una
forma china, aggobbita, nascosta dalle chiome degli alberi.
Nuvole
gonfie, malate passano sulla terra, il mare non le riflette. Il mare
dorme con un occhio aperto, assaggia i suoi nuovi confini. L'acqua è
gelida, vischiosa. Oggetti irriconoscibili danzano sul pelo delle
onde lente. Cerco di ricordare la stagione, il tempo, ma non ho più
calendari né orologi. Tre cani mi hanno seguito fino alla
massicciata della ferrovia, la nuova, temporanea costa. Mi guardano
da lontano. Ho tirato loro le pietre macchiate che ci sono tra i
binari e li ho inseguiti gridando. Sono fuggiti ma poi sono
ritornati. Stanno seduti sulle zampe posteriori, tra loro c'è anche
Rigolò, o forse Regolo.
Piove:
seduto sul letto, la schiena appoggiata al muro freddo cerco da
qualche minuto di distinguere le gocce, di distinguere il loro
percorso, ma le perdo di vista, le riafferro e le perdo nuovamente.
Scendo
nel giardino e urlo con tutto il fiato che ho in gola.
-
Vieni fuori! Vieni! Vieni!
Lo
attendo acquattato all'ultima rampa di scale, che conduce al
terrazzo, alle antenne televisive, ai fili grigi dove secoli fa
qualcuno stendeva i panni ad asciugare.
La
mareggiata di ieri ha portato l'acqua nelle strade: rigagnoli, rivoli
che scorrono a fianco alle strade. L'acqua sale dai tombini
scoperchiati. Appoggiando l'orecchio a terra si distingue il suono
delle onde, come ascoltando in un'enorme conchiglia.
Attendo,
immobile, immagino passi, voci. La nostalgia mi prende di sorpresa,
mi schiaccia contro il pavimento. Il nostro tempo è passato per
sempre, era fatto di nulla, di risate, occhiate, sogni confusi con i
ricordi, tentativi di fuga, di mascheramento, vanterie e vergogne,
ansie, rimorsi e sollievo, piccole e grandi abitudini. Scandito dal
tempo, dal nome dei giorni, dei mesi, degli anni. Il mare ha
cancellato tutto, ha bagnato i nostri segni e noi non avevamo altro,
io, come tutti, non avevo altro: solo il tempo.
Questo
tempo senza limiti ci è nemico, ci soffoca, ci annulla anche prima
che lo faccia il mare. Immane, infinito si estende da ora fino al
termine dei soli.
Credo
di essermi addormentato, la mente arroventata dalla sensazione di
perdita, dal suono vuoto delle scale deserte.
Il
passo è esitante, trascinato. Gli fa corona il ticchettìo delle
zampe dei cani. Decine di cani, che salgono le scale, che scivolano
in silenzio sul marmo lucidato a piombo solo pochi mesi fa.
Mi
affaccio alla tromba delle scale: una sottile lama di luce si
arrampica sui muri, svolta ai pianerottoli, sale ancora, marcia verso
il mio nascondiglio. I cani riempiono completamente il passaggio,
affondano nel buio delle scale, procedono a muso basso annusando i
passi di chi li precede.
Non
mi alzo, li attendo accucciato a terra. Il minuscolo raggio di luce
termina l'ultima curva e mi lambisce. Loro respirano, a decine, a
centinaia. Mi guardano già con nostalgia. L'uomo-cane lascia cadere
la piccola torcia elettrica nella tromba delle scale. La sento
rimbalzare sulle ringhiere, vedo la sua luce impazzita illuminare per
l'ultima volta i soffitti, le scale rovesciate, le finestre sporche
di pioggia.
Adesso
è definitivamente caduto il buio e la caccia è terminata.
4 commenti:
Bello per alcuni passaggi mi ha ricordato Stazione delle Maree di Swanwick.:)
Credo che raccontare le attese sia uno dei tuoi punti di forza, "costringi" a seguirti nell'attesa fino in fondo:) Complimenti!
@Nick: WOW,questo sì che è un complimento. Mi è sempre piaciuto Swanwick per il suo dono di saper saltare da un lato all'altro dello spettro fantascientifico e fantastico. Compreso un incredibile e inarrivabile romanzo di fantasy con i peggiori elfi che si possono immaginare: Cuore d'acciaio, a suo tempo pubblicato da Fanucci.
@Marcella: "obbligare" i lettori a seguirti fino alla fine della storia è una di quelle caratteristiche fondamentali che chiunque scriva deve porsi come obiettivo. Non penso di riuscirci sempre, sia chiaro, né che le mie storie siano sempre meritevoli di essere lette fino alla fine. Ma qui si transita nell'estetica del racconto ed è tutto un altro paio di maniche...
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