Un
lontano brusio di voci e rumori metallici, appena distinguibili
dall'eterno boato delle onde lo scuotono. Usif-Lizhi, la mente vuota
e levigata come uno specchio scuro fissa lo sguardo verso il limite
dell'orizzonte. Ora riesce ad udire il delicato, liquido fruscio
prodotto dalla prua di un'altra nave che fende le acque, navigando
verso di loro. Forse la curvatura dell'orizzonte o le lontane foschie
gli impediscono di distinguere le luci o forse… I pirati: lui, in
quanto notturno ne ha una conoscenza del tutto teorica, per averne
letto nella biblioteca di Adwina, a Casa Oresme.
Suo
malgrado sottilmente eccitato Usif-Lizhi aguzza maggiormente l'udito
per riuscire a distinguere qualche frase o suono che diano sostanza
al suo sospetto. Nulla da fare, la distanza è eccessiva persino per
lui. Quanto saranno lontani? Il Notturno, poco abituato a calcolare
le distanze su una superficie piana e liscia come quella marina si
sforza di vedere con gli occhi della mente un sentiero che attraversa
il grigio mare unendo la sua nave a quella dei pirati. «Almeno
trenta miglia.» Conclude, poco convinto.
Appollaiato
in punta all'albero di maestra la vedetta scruta il mare, ben lontano
dall'udire quello che lui riesce ad udire. O forse dorme, pensa
Usif-Lizhi, che la dimestichezza con gli uomini ha reso più
comprensivo verso i loro difetti ed insieme più caustico.
Dopo
un quarto d'ora il rumore si è fatto più netto ed i sospetti di
Usif-Lizhi si sono fatti più netti e precisi. Non manca molto
all'alba e probabilmente la nave pirata spera di piombare loro
addosso, quando, appena svegli e disorganizzati, non sarebbero in
grado di difendersi efficacemente.
Ora
riesce a vederlo: un veliero non troppo grande dalla forma agile e
veloce, senza luci a bordo, che naviga confuso nei sottili vapori che
la vicina alba solleva dalle acque.
Un
piccolo brivido di avvertimento gli ricorda che non è lontano il
momento in cui fuggire dalla luce del sole, ma il Notturno decide di
ignorare l'avvertimento del suo corpo e continua a scrutare la
superficie marina.
Quasi
insensibilmente il colore del cielo vira dal nero vellutato della
notte al grigio dei minuti che precedono l'alba ed in quel grigiore
indistinto scruta lo sguardo di Usif-Lizhi, combattuto tra gli
avvertimenti del suo corpo e la lealtà che sente verso i suoi
compagni di traversata.
–
Ehi, di vedetta!
–
Cooosa c'eeeè? – Risponde l'uomo.
–
Là, a sinistra, una nave pirata.
La
vedetta non replica, ma Usif-Lizhi lo vede afferrare il cannocchiale
e scrutare il limite dell'orizzonte. Un attimo dopo un possente urlo
sveglia la nave: – I PIRATI!!!!
Nel
caos di uomini e gu'hijrr che si rovesciano sul ponte Usif-Lizhi si
avvia barcollando verso la sua cabina, gli occhi doloranti ed il
corpo attraversato da un cupo malessere.
Usif-lizhi
arriva nella sua cabina con l'aiuto di Kirzil e di altri due marinai
mentre il bordo dorato del sole oltrepassa la cortina di acque e la
Tidal con tutte le vele spiegate si allontana dalla minaccia
dei pirati.
–
Come sta, mio signore? – Gli chiede Kirzil Pennarossa, una volta
adagiato sul letto l'esausto Notturno.
–
Sto benissimo. – Usif-lizhi, anche più pallido del solito, sorride
a labbra strette e afferra la mano del Gu'Hijirr.
–
Siete stato molto imprudente, signore, dovevate avvisare la vedetta e
tornare nella vostra cabina.
Il
Notturno fa segno di no con il capo. – Dovevo aspettare che anche
voi li poteste vedere, altrimenti non mi avreste creduto e sarebbe
stato tutto perduto.
Il
comandante della nave, Eak Liddhen, entrato nella cabina proprio in
quel momento annuisce – Dormite bene, Signore Usif-Lizhi. E
grazie.– Il notturno fa un cenno vago del capo e chiude gli occhi.
Mentre
salgono i gradini verso il ponte Kirzil Pennarossa osserva: – Senza
i suoi occhi saremmo già in bocca ai pesci, lo sai Eak?
Il
comandante annuisce gravemente. – Questo non basterà a togliermi
la sensazione che sento tutte le volte che lo vedo, ma almeno, sacri
dei, ho un buon motivo per nasconderla. Non è vero?
–
Ben detto. Sarebbe ottimo avere uno di loro su tutte le navi, non è
vero?
–
Dev'esserci qualcosa di veramente grave a spingerlo. Io non ho mai
sentito di uno di loro che sia salito su una nave, e tu?
–
Nemmeno io. – Il Gu'hijirr esita un istante, scuote il capo e
conclude. – Sono strani tempi, Eak, e ancor più strani ne
verranno.
La
pioggia cadeva da alcuni giorni: sottile, grigia, eterna, velando di
umidità argentea il bosco appena oltre il viale e penetrando ovunque
nelle stanze della rocca, fredde e scure, e lasciando la traccia del
suo passaggio: odore di muschio e di vecchie stoffe bagnate.
Dama
Maldanea di Wessiun aspira felice quegli aromi mentre attraversa i
lunghissimi corridoi della rocca. Avvolta nei suoi lunghi veli verdi
e argento, che esaltano il pallore del suo volto di Syerdwin, fa
trasalire i membri umani della servitù, che appena la vedono
scomparire alle loro spalle fanno scongiuri e rozzi incantesimi e
proseguono borbottando ed imprecando a bassa voce verso le loro
destinazioni.
Dama
Maldanea ode le loro parole ed indovina i loro gesti, ma non si adira
per quel buffo comportamento. La diverte, anzi, in una maniera
riprovevolmente infantile, vederli sobbalzare quando li incontra ad
una svolta e sentirli maledire a bassa voce la sua gente.
Gli
uomini, coloro che non conoscono Cambiamento, che temono le acque e
la solitudine, che non sanno tacere né ascoltare, che confondono le
ombre con la realtà, la realtà con i desideri ed i desideri con le
paure la affascinano, la incuriosiscono.
Il
suo vecchio Aio, Corcodiun, Cambiato ad una età molto veneranda,
dopo aver visto migliaia e migliaia di suoi coetanei Cambiare, fino
al punto da pensare di essere un Moeld, un Sempre-Uguale, le aveva
insegnato a diffidarne, ma anche a studiarli con attenzione. «Gli
uomini erediteranno il grande cerchio del Mondo, Debah, e noi
cesseremo di Cambiare. Così sta scritto.»
La
chiamava con il suo nome di Allieva, il nome che al termine della sua
istruzione nessuno avrebbe più usato con lei. Ora, da un paio d'anni
divenuta
Maldanea,
si sente ancora molto Debah, una Debah molto più libera di parlare e
di intromettersi, di curiosare e dire ad alta voce le sue idee.
Nessuno
della sua gente ha l'abitudine di uscire dai propri appartamenti se
non la notte per la Cerimonia della Marea, tanto meno lì, molto
lontani come sono dalle loro isole, nessuno tranne lei.
Al
termine del corridoio che sta percorrendo c'è l'uscita per le scale
della Torre del Simileun, dai gradini stretti e ripidi.
Non
le è vietato raggiungerla e salirla: ormai per Dama Maldanea non
esistono più divieti ma azioni più o meno sconvenienti. Nel novero
di queste sono ovviamente comprese tutte le azioni che richiedono uno
sforzo fisico non essenziale per uno scopo ben preciso, il tipo di
cose, insomma, che Debah adora fare.
Una
porta massiccia, di legno rosso non lucidato la separa dal terrazzo
che conduce alla torre. Un ultimo scrupolo trattiene la mano
appoggiata sulla maniglia di metallo nero.
«Dama
Maldanea non sale le scale di corsa. Non guarda la pioggia dalle
feritoie della torre tutta da sola. Non ascolta il rumore delle gocce
sulle vecchie tegole della torre e non spia le civette. E tanto meno
parla con loro.» Si dice a bassa voce. «Che creatura noiosa questa
Dama Maldanea.» Commenta dopo un attimo aprendo la porta ed uscendo
sotto la pioggia.
Prima
di salire alla torre sosta per un attimo a guardare giù dai tetti
resi lucidi dall'acqua. Si abbassa il cappuccio dal viso esponendolo
alle gocce, delicate come piccole carezze. Oltre il bordo dei tetti
il verde della radura, che sembra brillare di luce propria, contrasta
con il buio umido della foresta. Guarda con una punta di inquietudine
Il suo cupo intrico, la sua finta quiete, simile a quella del
selvatico che raccoglie le forze per colpire.
Non
esistono quasi gli alberi sulle loro isole, solo l'erba bassa,
l'erica e le rocce coperte di muschio e licheni. I boschi si trovano
dall'altra parte del breve mare che li separa dagli Uomini. Il suo
Aio Corcodiun era uno dei pochi Syerdwin che conoscesse la botanica e
riuscisse ad sostare in un bosco senza farsi venire il batticuore ed
un'irragionevole paura. La cosa gli era stata più volte di
vantaggio, soprattutto quando voleva evitare qualche incontro poco
gradito.
Quando
era ancora Debah lei lo aveva seguito in qualcuna delle sue
escursioni, sfidando la paura e la sensazione di soffocare che le
dava l'intrico dei rami scuri sopra la sua testa, anche se non era
mai arrivata a condividere l'entusiasmo del suo maestro quando si
imbatteva in una forma di vita sconosciuta o in una traccia che non
sapeva ricondurre a nessuna specie nota.
Un
movimento al limite del bosco, colto con la coda dell'occhio, la
allontana dai suoi ricordi. Si tratta di una carrozza scortata da una
ventina di cavalieri ed altrettanti fanti, vestiti di un lungo
mantello grigio dall'orlo nero che risale al centro della schiena a
formare il disegno di una T rovesciata. «Questioni di guerra»
Decide Dama Maldanea, che di quella guerra tra i due Grandi Re degli
Uomini non si è mai curata, disapprovando, senza averlo mai dato a
vedere, il coinvolgimento di loro Syerdwin in quel pasticcio.
«Chissà
chi viaggia in quella carrozza?» Si chiede oziosamente, quasi a
cercare una scusa per rimanere lì sotto la pioggia. La carrozza si
avvicina velocemente al fossato scavato davanti al castello, fino a
scomparire sotto il bordo dei tetti.
Nell'avvicinarsi
Dama Maldanea riconosce la stessa T rovesciata, nera su fondo grigio,
dipinta sugli sportelli della carrozza. Dalla sua posizione non
riesce più a vedere nulla ma ode, attraverso il delicato scroscio
della pioggia, il rumore del portone aperto ed il rotolare delle
ruote fasciate di metallo sull'assito del ponte.
Dopo
essersi sporta un paio di volte Maldanea, ormai definitivamente
tornata Debah, fa le spallucce ed abbandona la sua postazione
marciando verso la torre.
Mentre
sale i gradini resi viscidi dall'umidità, nel buio solo a tratti
illuminato dalla fioca luce di una feritoia profondamente scavata nel
muro, la Dama Syerdwin sembra contrariata e procede veloce, senza
nemmeno godersi fino in fondo la sua piccola trasgressione. Quando
arriva in cima alla torre, nella piccola stanza circolare subito
sotto il tetto, ha un po' di fiatone, gli abiti in disordine ed il
viso ornato di segni scuri, lasciati dalla mani che ha passato sui
muri per mantenersi in equilibrio.
–
Ehi, ci siete? – Chiede appena spuntata sulla piattaforma.
Dal
buio della stanza una voce acuta e molto composta risponde: –
L'avete fatto ancora, Dama Maldanea.
L'interpellata
ride a bassa voce. – Mi annoiano tanto le altre Dame, cara Diffy. E
poi è così bello qui.
–
Non è bello. È freddo ed umido. E poi il mio nome è Difaduanna,
cara la mia Syerdwin.
–
Hai ragione. Posso sedermi?
L'interlocutrice
di Debah apre le ali e si posa su un vecchio mobile di legno scuro
abbandonato nella stanza della torre. Ruota la testa per mettere a
fuoco l'immagine e dopo un attento esame ruota la testa contro il
muro.
–
Non fare così, Diff…Difaduanna, lo sai che mi fai impressione.
La
civetta non si volta e commenta. – Anche voi fate impressione,
Dama, anche se non per gli stessi motivi.
–
Se non mi chiami Debah io continuerò a chiamarti Diffy. –
La
civetta si volta di colpo con gli occhi spalancati. – La tua
educazione, Debah, mostra sempre più ampie lacune, devo constatare.
Da cosa fuggivi questa volta?
La
syerdwin si siede su un mucchio di paglia, dopo aver raccolto l'ampio
abito intorno ai fianchi, gesto che provoca un altro moto di
disapprovazione della civetta, e spiega.
–
Non un motivo particolare. Ma adesso che ci sono ospiti ne ho a
bizzeffe, penso. Le mie zie mi staranno sicuramente cercando, in
questo momento, per andare a salutare il cortese ospite del castello:
«T rovesciata».
–
Come hai detto?
–
Il nome non lo so. È arrivato poco fa e l'unica cosa che so è che
sulle porte della carrozza ha un simbolo che sembra una T rovesciata.
Ha quaranta uomini di scorta, un numero abbastanza impressionante,
non credi?
La
civetta alza la testa di scatto come se si fosse ricordata
improvvisamente di una minaccia sospesa sulla sua testa.
–
Cosa non ti piace, Diffy?
–
Hai detto una «T», vero?
–
Proprio così.
–
Teardraet, non ti dice nulla questo nome?
–
Non credo.
–
Pronuncialo al contrario, dall'ultima lettera alla prima.
–
Vediamo T…E…A…R…Ho capito, Diffy! Che nome curioso, si legge
anche rovesciato.
La
civetta apre le ali e scuote nervosamente la testa. – Crede di
essere spiritoso, evidentemente.
–
Ma chi è?
–
Non ne te ha mai parlato il tuo Corcodiun? Per molto tempo è stato
molto più di un problema per voi Syerdwin.
Debah
fa un gesto vago con la mano. – La storia non è mai stata il mio
forte, Diffy. Ad essere sincera mi interessavano solo le storie dove
i protagonisti erano eroi solitari votati ad una causa nobilissima,
mentre le storie di guerra e di complotti, le successioni, gli
usurpatori, le congiure mi annoiavano molto e dimenticavo subito i
nomi di gente così spregevole.
–
Male, in questo caso ricorderesti Teardraet il Sempre-Uguale,
Conte-Mago delle Isole Baran e di Verhida.
–
Diffy temo che tu stia per insegnarmi un po' di storia. Non credo che
resisterò a lungo. – La syerdwin estrae da una profonda tasca
dell'abito uno specchio di metallo lucidato e se lo pone davanti al
volto. – Dio d'Acqua, ma hai visto la mia faccia? – Esclama dopo
un istante.
Difaduanna
la guarda aggrondata e preferisce non fare commenti. Debah la spia,
fa un grave cenno di assenso e estrae dalla stessa tasca un
fazzoletto che comincia a passarsi sul volto. In Debah la linea
sottile e lunga del viso, tipica dei Syerdwin è meno pronunciata ed
il suo naso volto all'insù ha una curva meno netta, quasi graziosa.
Le sue labbra hanno una tiepida tonalità di grigio rosato e non
hanno l'aspetto scuro e coriaceo di molti altri della sua razza e
così i suoi occhi, grandi e profondi, che non sembrano vuote pozze
di oscurità come quelli di altri syerdwin.
–
Sono pronta Difaduanna, annoiami pure.
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