8.6.13

Briciole




Un racconto pubblicato nel 2006, nell'antologia «Sviluppi imprevisti» della mia ottima amica Cettina Calabrò, antologia ora finita esaurita ma che rimane nel mio cuore. 
Un racconto nato da una fotografia (Cettina è fotografa), anzi, che doveva nascere da una fotografia, quella che riporto qui sopra.  Lo stesso valeva per gli altri sei autori, ciascuno guidato da una fotografia di Cettina. Venne un'ottima antologia, esaurita in pochi mesi.
Personalmente scrissi un racconto di sf che, però, si  sviluppò eccessivamente, tanto da diventare inaccettabile per l'antologia - e che, opportunamente sistemato finì nell'ALIA autori italiani del 2008 - e in sostituzione questo. Un racconto fantastico ma non fantascientifico, nato da un incontro su un autobus che mi diede non poco da pensare. Buona lettura a tutti. 


Detesto gli assicuratori.
Nonostante si sforzino di apparire semplicemente gentili hanno sempre un che di saponoso, di sfuggente, un doppio sguardo che, mentre ti considera con una cortesia ovvia e sterile – da barbiere o da tassista – calcola mentalmente quanto ti potranno ancora spillare per una polizza vita o per un’assicurazione sulla salute.
Quando stipulai quell’assicurazione erano tempi diversi. Mi sentivo irragionevolmente ricco, tanto da fingere di preoccuparmi della vecchiaia, da costruirmi un feticcio, un alibi per l’irrazionale desiderio di possedere l’ennesimo paio di scarpe, un’altra inutile maglia o un nuovo gadget elettronico. Poi sono venuti tempi più difficili, ho dovuto tagliare acquisti e capricci, Monica e io ci siamo separati senza fortunatamente aver mai messo in pratica il delirio sempre più frequente che ci prendeva dopo qualche bicchierino. «Un bambino»; «Sì un bambino»; «Ciò che ci manca»; «Un bambino nostro».
Ho capito soltanto dopo che si trattava di un segnale d’allarme, del segno di un rapporto che aveva esaurito in fretta le parole e si nutriva di azzardi sempre più alti. Un bambino, andare via da questa città, da questo paese, vivere di poco, riscoprirci naturalmente felici. Sei mesi di pura imbecillità fino alla morte di sua sorella, lei che se ne va da questa città, le telefonate che si diradano, qualche incontro nella stazione della cittadina di provincia a metà strada tra noi. Poi la cena, più silenziosa, l’albergo più vicino alla stazione, la sua pelle opaca, i segni arrossati degli elastici di reggiseno e collant che mi disturbavano, che mi davano fastidio. Insofferenza per ciò che giudicavo trascuratezza, sciatteria. I litigi lividi, freddamente rabbiosi, le spiegazioni tardive, ripetute, sempre uguali e poco convincenti. Avevamo smesso di parlare di bambini, di vita naturale, della casa ai piedi della montagna. Lei beveva di più, io trovavo scuse per rimandare i nostri incontri. Sapevamo che era finita ma non avevamo nemmeno il coraggio di dircelo. È stato un rapporto immaturo, una somma algebrica di desideri e piccole presunzioni. Ma io non sono cambiato, forse soltanto più acido, più rattrappito.

Devo pagare la rata dell’assicurazione. Una delle poche cose che mi legano ancora a quel tempo. Mettere insieme il denaro, adesso, non è più facile come allora. Per telefono il «dottor Mambri», come lo chiama la sua segretaria, ha tentato il solito colpo: «Sarebbe il caso di aumentare il premio…»; «Non se ne parla neppure»; «Mi piace, lei, dottor Arena, è proprio un duro»; «Grazie, ma non ho intenzione di aumentare il premio»; «L’aspetto, nella Wolfsschanze, venga pure».
La Wolfsschanze, la tana del lupo. Il rifugio di Hitler.
Disseminare i suoi discorsi, sospesi tra il paterno e il complice, con i lustrini di una cultura raffinata che non possiede, è parte del suo talento. Lo detesto, probabilmente, perché sa come lusingarmi. Come un prostituta abilissima mi fa sentire prezioso, al centro dell’attenzione.
Per arrivare al suo ufficio ho preso l’autobus. Passa sulla riva sinistra del fiume, nella striscia sottile che separa la sponda dalle vie che salgono alle pendici della collina. È una linea non troppo frequentata e attraversa una zona delle città che conosco molto poco. Ho scelto l’autobus per questo, oltre che per l’illusoria convinzione di non accrescere l’inquinamento in città. Piove, una pioggia sottilissima che potrebbe continuare per giorni. Un inverno lunare, secco e freddo, e una primavera grigia e umida. Nel Nord metropolitano in lento degrado.


A metà mattina sull’autobus c’era pochissima gente. Un paio di studentesse che hanno saltato scuola, tre o quattro pensionati con minuscole sporte, sei o sette immigrati, per lo più donne. Badanti o prostitute nere in libertà. Un solo bambino in braccio alla nonna. Il percorso è più lungo di quanto lo ricordavo. Pochi salgono o scendono. Qualcuno chiacchiera troppo forte, molti tacciono e guardano dai finestrini con l’attenzione vuota di curiosità di chi ha già compiuto quel percorso molte altre volte.
Sale scuotendo l’ombrello, vestita di una cerata rossa che la rende ancora più giovane. La osservo soltanto per un istante prima di allontanare lo sguardo. Wilma. Vent’anni almeno che non la vedo. Un paio di sere con lei è tutto il nostro passato sentimentale. La prima un fiasco completo, la seconda nervosa, inutilmente aggressiva. La guardo mentre si tiene alla sbarra accanto all’uscita. Bionda, i capelli ricci, la pelle chiarissima, gli occhi grandi, da miope, tanto chiari da essere quasi incolori.
Non so se sarei contento che mi riconoscesse. Non abbiamo mai avuto molto da dirci. La guardo ancora, lei solleva gli occhi e torno a fissare l’erba grigia che scorre oltre il finestrino rigato di polvere.
No. Qualcosa non va. Non è Wilma, non può essere lei. Non può essere identica alla Wilma del mio ricordo, come se il tempo non fosse passato. Io sono cambiato: molti capelli sono diventati bianchi, sulla fronte e intorno agli occhi si sono schierate le rughe, cerco di ignorare nei e altri difetti della pelle, piegare la schiena mi provoca brividi e dolori ancora indistinti. Ogni tanto mi assalgono paure indefinite se non riesco a ricordare un nome o un incontro. Sono invecchiato, anche se mi illudo di essere ancora me stesso al 99 per cento. Una questione di percentuale. La percentuale di me stesso dentro il mio corpo che scende inesorabilmente. Sarò l’ultimo a capirlo, comunque.
Wilma-non-Wilma guarda verso di me. Ha la sensazione di avermi già visto? Più giovane, certo, molto diverso. Mi sento osservato da un fantasma. Una sensazione assurda. Non è Wilma, è una ragazza che le assomiglia, tutto lì. Una sorella minore. Una figlia prematura. Lei stringe gli occhi, da miope che ha tolto gli occhiali per non bagnarli.
Scendo alla fermata successiva, aggregandomi d’impulso a due slavi in abiti da muratori. Sotto la pioggia la osservo ancora una volta, privo di energie.


Ritorno a casa in taxi. Mambri non c’era. Ha lasciato l’incarico di raccogliere il mio assegno alla segretaria, falsa bionda stretta in jeans di una misura inferiore al necessario. Non mi ha sorriso, pallido e fradicio dovevo sembrare entrato lì per caso, un increscioso estraneo nel mondo dell’investimento e della ricchezza paziente.
Evito la riva sinistra e passo costeggiando il futuro mancato di Italia ‘61. Stanno restaurando, cercando di trasformare il sarebbe-potuto-essere, il trapassato futuro, come lo chiamavamo con Monica, in un monumento all’inutile. Trapassato futuro aveva una sua imbarazzante dignità, i suoi eredi – rivisti, ripuliti e riutilizzati – non avranno neppure quella.
Mi sento sollevato per avere evitato l’incontro con Mambri, ma il falso incontro con Wilma continua, tormentoso, ad accompagnarmi. Un errore, un falso riconoscimento, che altro? Sono poi così certo di avere conosciuto una ragazza di nome Wilma? Che pensiero idiota. Certo, mi ricordo perfettamente la sua biancheria lucida di falsa seta. Sorprendente per una ragazza di nemmeno vent’anni. La radio del taxi trasmette una vecchia canzone. Non ricordo il nome del gruppo e nemmeno il titolo della canzone. Eppure era una canzone che ricordavo perfettamente. Ne avevo tradotto il testo. Era una delle canzoni che amavamo di più, io e… il mio amico, il mio miglior amico. Il suo nome si nasconde da qualche parte, oltre la pioggia. Vicino e inafferrabile. Insieme al nome del gruppo, al nome della canzone, a tutto il passato che sta scivolando via dalla memoria. O ritornando inatteso e falso. – Scendo qui, grazie –, balbetto.

Il mio piccolo appartamento odora di fumo e di acido. Apro le finestre, lascio entrare la pioggia e l’aria. Due stanze più il piccolo bagno. Sarebbe un perfetto pied-à-terre e dell’alloggio da week-end con la segretaria ha anche il prezzo e il contratto rinnovabile ogni due anni. Invece ci vivo davvero, senza nemmeno una segretaria da sbattere.
Devo essere grato a mio padre che è riuscito a trovarmi ancora un posto presso una concessionaria d’auto dopo il fallimento dell’agenzia viaggi. «Non è stata colpa mia», mi ripeto nelle ore della prima luce, quando, già sveglio, non posso impedire al mio io di istruire un processo sommario al mio fallimento e dichiararmi ogni volta colpevole. «Non è stata colpa mia», ripeto. Non riesco a convincermene, non sono mai riuscito a convincermene.
Tolgo le scarpe e scivolo in camera da letto nella luce grigiastra della pioggia. È quasi mezzogiorno ma potrebbero essere le sette del mattino o le cinque del pomeriggio. L’odore acido è più forte, insopportabile, c’è fumo. Corro ad aprire la finestra. Il piano di plastica del comodino è annerito e piegato, il libro che stavo leggendo ieri sera prima di addormentarmi per metà bruciato. Smarrito, soffio e dal piano annerito si alza una nube di frammenti di carta bruciata. Di fianco al libro il portacenere di cristallo, ingiallito ma ancora intero. Stamattina ho acceso una sigaretta prima di uscire, l’ho appoggiata sulla scanalatura del portacenere e poi mi sono ricordato di non essermi fatto la barba. Sono uscito senza ripassare dalla camera. Tutto qui, una sciagurata trascuratezza che poteva creare danni molto più gravi.
Torno in cucina a prendere uno straccio, dell’acqua. Pulisco, elimino i resti di cenere e le ombre. Del libro, che ho l’abitudine di posare a copertina in giù, sono bruciate, per un curioso capriccio della fisica, soltanto le pagine successive al segnalibro. Circa metà del libro che non leggerò. Pazienza, un libro mediocre che trascinavo per non ammettere di avere sprecato i miei soldi. Lo infilo in un sacchetto di plastica per gettarlo via. La stessa sorte cui andrà incontro il comodino, che sostituirò provvisoriamente con uno sgabello.


Raggiungo la concessionaria a piedi. A metà strada mi rendo conto di non aver portato con me il libro per gettarlo via. «Come si chiamava l’autore?» Nebbia. Nacht und nebel, «notte e nebbia», avrebbe detto Mambri in uno dei suoi accessi di cultura. Come si chiamava l’autore? Il panico non arriva ancora a stringermi la gola, sono soltanto sorpreso. Alzheimer. Ricordare il passato remoto e non riuscire a ricordare il passato recente. Giro l’angolo prima della concessionaria. Autore: «Enrico Volpato», titolo «Saluti e baci». Niente Alzheimer, per il momento.


Detesto trattare con i clienti. Mi hanno assunto per occuparmi dei rapporti con i fornitori, lo stesso lavoro che facevo in agenzia. Ma le macchine sono qualcosa di solido: modello, tipo, cilindrata, anno di produzione, accessori eccetera. I viaggi qualcosa di volatile, capriccioso, intrinsecamente idiota. Qui sono chiamato a trattare con pochi fornitori non a destreggiarmi tra offerte mirabolanti e sconti inquietanti. Non sono brillante, ma macino il mio lavoro senza infamia e senza lode. Uno dei venditori non è venuto a lavorare. Dovrò sostituirlo. Piove, se sarò fortunato non capiteranno clienti. Che fretta c’è? Perché comprare un’auto proprio oggi?
Dimentico sempre che il cattivo tempo immobilizza le auto più vecchie o fa nascere desideri, anche se vaghi e informi, di qualcosa di nuovo. Odore di un’auto mai usata, colore di vernice cromata, di rapide ombre metalliche sotto il cielo limaccioso. Un pomeriggio di lavoro, pochi affari e moltissime chiacchiere. Un bordello dove si chiedono i prezzi, si ammirano cosce e seni ma non si scopa. Vorrei riuscire a condividere la passione esegetica con la quale certuni discettano di carburatori, cilindri e prestazioni. Ma non me ne importa nulla. Sorrido e annuisco, fingendo di riconoscere genuina competenza. Vanno via contenti, alle spalle un altro pomeriggio inutile.
Arriva tra gli ultimi, quando manca un quarto d’ora alla chiusura e io sono quasi riuscito a dimenticare l’incontro con Wilma.
Stefano, lo riconosco senza esitazioni. I capelli lunghi come li portava allora, il sorriso incerto, i modi cauti, tra l’aristocratico e l’ingenuo. Non lo vedo da anni. E nemmeno adesso lo sto vedendo, ne sono certo. Rimango immobile seduto alla scrivania fingendo di consultare qualcosa al computer. Spero se ne vada, che sia entrato qui per errore. Stefano non è il tipo da battere i pugni sul tavolo e gridare: «Sono qui!» E infatti, si guarda intorno per qualche istante e fa dietrofront. La porta automatica scivola silenziosamente quando la fotocellula avverte la sua presenza.
Si volta ancora e mi fa un cenno prima di scomparire nel crepuscolo grigio.



Come ho perso di vista Stefano, Wilma, gli altri?
Come si perdono di vista amici e conoscenti di un’altra età. Impossibile stabilire un momento. Quando certi legami si fanno deboli è sufficiente un’estate per perdersi. Diventano vita alle spalle, ricordi poco frequentati, immagini confuse. Ci si rassegna facilmente, a certe perdite, e ritrovarsi è imbarazzante. Quando si è smesso di fare fronte comune contro la vita che ci aspetta non ci sono più parole né desideri comuni.
Finalmente di nuovo solo, sul tavolo una pizza ancora avvolta nel cartone caldo che non mi decido ad aprire e mangiare. Mi alzo, vado ancora una volta in bagno, in piedi davanti all’unico specchio che posseggo. Sono io, con tutti gli anni che mi spettano. Troppo stanco del passato per aver davvero voglia di un futuro. Un caso. La memoria che mi fa brutti scherzi. Suona il telefono. Mia madre che mi ricorda che tra due giorni è il compleanno di mio padre. «Dov’è adesso?»; «Fuori con il cane»; «Sta bene?»; «Certo, che sta bene»; «Me ne ricorderò, stai tranquilla»; un sospiro. Prima ero presuntuoso, troppo sicuro di me. Adesso non sono più sicuro di nulla, di me meno che mai. Mia madre non se la sente di chiedermi se ci sono donne nella mia vita e cerca di non pensare che la sua vecchiaia sarà vuota e secca. Nella sua voce si nasconde un rimprovero sempre più flebile. La pizza è ancora tiepida, la mangio in pochi bocconi. Se accendo la televisione dovrei riuscire a dimenticare questa giornata assurda.
Dimenticare, per lasciare posto a che cosa?
Sono immobile, seduto al tavolo troppo alto che avrei voluto cambiare da molto tempo.
Nella stanza d’albergo, l’ultima volta che mi vidi con Monica, c’era un lampadario di cristallo a gocce, le lampadine a risparmio energetico troppo grandi, troppo alte. Le abat-jour con i paralumi di raso color nocciola con qualche macchia più scura. La parte macchiata girata verso il muro. Il sesso tra noi era diventato affannoso, frenetico. Lo facevamo con enfasi, come se i nostri gesti fossero tanti punti esclamativi, lo facevamo per dovere verso il nostro rapporto che cadeva a pezzi. Sul divano, sotto la doccia, sulla moquette dall’odore di plastica acida. Siamo stati trasgressivi, perversi. Siamo stati disperati. Non eravamo più capaci di essere soltanto vicini, soltanto felici. Increduli, ma testardi, non sapevamo rassegnarci.
Non voglio questo genere di ricordi. Li ho evitati con cura per tutto questo tempo. Nuda, sdraiata sulla moquette, i capezzoli piccoli e chiari, quasi invisibili nella luce verdastra delle abat-jour, la consideravo con distacco, immaginando di provare desiderio. Il suo sguardo era assente, forse paziente, forse distratto.
Briciole di momenti senza sapore, consegnate all’infinito temporaneo del ricordo.


Il libro bruciato è appoggiato sulla cassettiera, di fianco al letto.
Lo estraggo dalla busta, lo scuoto.
Scorro le pagine già lette.
Come sempre non mi ricordo i nomi dei protagonisti.
Ah, sì. Mariano. Un nome idiota. Ieri sera Mariano… Che cosa stava facendo? Guidava sulle colline toscane cercando la casa di Enrico. Si erano persi di vista da tempo, ma…
Nelle pagine bruciate ci sarà il loro incontro. L’incredulità e la constatazione del tempo ormai perduto. Dell’età che ci fa percorrere traiettorie diverse. Sempre più lontane. Forse. O forse si tratterà di un felice incontro, di una nuova amicizia che nasce dalla vecchia. Per saperlo mi basterebbe andare a comprare un’altra copia dello stesso libro. Domani.
Ma domani mi sembra un tempo infinitamente lontano. Da tempo non c’è stato davvero un «domani», ma soltanto un oggi interminabile, un tempo amorfo e immobile da percorrere in tutte le direzioni senza riuscire a trovare un’uscita.
La pioggia è cessata. I balconi umidi del palazzo di fronte al mio stanno perdendo il debole riflesso di luce regalato dall’umidità.
L’ultima parola che ho letto ieri: «transizione». Nella pagina di fronte si distinguono, sui limiti estremi del nero opaco della bruciatura, una «f» e una «o». Folla, follia, folaga, fottere.
Basterebbe comprare un’altra copia dello stesso libro.
Basterebbe.
Se soltanto potessi riavviare la piccola sveglia sul comodino, immobile sull’ora ottimista dei pubblicitari: le dieci e dieci.
Se soltanto il mio orologio, abbandonato sul tavolo, riprendesse a macinare secondi, minuti, ore.


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