Un racconto pubblicato nel 2006, nell'antologia «Sviluppi imprevisti» della mia ottima amica Cettina Calabrò, antologia ora finita esaurita ma che rimane nel mio cuore.
Un racconto nato da una fotografia (Cettina è fotografa), anzi, che doveva nascere da una fotografia, quella che riporto qui sopra. Lo stesso valeva per gli altri sei autori, ciascuno guidato da una fotografia di Cettina. Venne un'ottima antologia, esaurita in pochi mesi.
Personalmente scrissi un racconto di sf che, però, si sviluppò eccessivamente, tanto da diventare inaccettabile per l'antologia - e che, opportunamente sistemato finì nell'ALIA autori italiani del 2008 - e in sostituzione questo. Un racconto fantastico ma non fantascientifico, nato da un incontro su un autobus che mi diede non poco da pensare. Buona lettura a tutti.
Detesto
gli assicuratori.
Nonostante
si sforzino di apparire semplicemente gentili hanno sempre un che di
saponoso, di sfuggente, un doppio sguardo che, mentre ti considera
con una cortesia ovvia e sterile – da barbiere o da tassista –
calcola mentalmente quanto ti potranno ancora spillare per una
polizza vita o per un’assicurazione sulla salute.
Quando
stipulai quell’assicurazione erano tempi diversi. Mi sentivo
irragionevolmente ricco, tanto da fingere di preoccuparmi della
vecchiaia, da costruirmi un feticcio, un alibi per l’irrazionale
desiderio di possedere l’ennesimo paio di scarpe, un’altra
inutile maglia o un nuovo gadget elettronico. Poi sono venuti tempi
più difficili, ho dovuto tagliare acquisti e capricci, Monica e io
ci siamo separati senza fortunatamente aver mai messo in pratica il
delirio sempre più frequente che ci prendeva dopo qualche
bicchierino. «Un bambino»; «Sì un bambino»; «Ciò che ci
manca»; «Un bambino nostro».
Ho
capito soltanto dopo che si trattava di un segnale d’allarme, del
segno di un rapporto che aveva esaurito in fretta le parole e si
nutriva di azzardi sempre più alti. Un bambino, andare via da questa
città, da questo paese, vivere di poco, riscoprirci naturalmente
felici. Sei mesi di pura imbecillità fino alla morte di sua sorella,
lei che se ne va da questa città, le telefonate che si diradano,
qualche incontro nella stazione della cittadina di provincia a metà
strada tra noi. Poi la cena, più silenziosa, l’albergo più vicino
alla stazione, la sua pelle opaca, i segni arrossati degli elastici
di reggiseno e collant che mi disturbavano, che mi davano fastidio.
Insofferenza per ciò che giudicavo trascuratezza, sciatteria. I
litigi lividi, freddamente rabbiosi, le spiegazioni tardive,
ripetute, sempre uguali e poco convincenti. Avevamo smesso di parlare
di bambini, di vita naturale, della casa ai piedi della montagna. Lei
beveva di più, io trovavo scuse per rimandare i nostri incontri.
Sapevamo che era finita ma non avevamo nemmeno il coraggio di
dircelo. È stato un rapporto immaturo, una somma algebrica di
desideri e piccole presunzioni. Ma io non sono cambiato, forse
soltanto più acido, più rattrappito.
Devo
pagare la rata dell’assicurazione. Una delle poche cose che mi
legano ancora a quel tempo. Mettere insieme il denaro, adesso, non è
più facile come allora. Per telefono il «dottor Mambri», come lo
chiama la sua segretaria, ha tentato il solito colpo: «Sarebbe il
caso di aumentare il premio…»; «Non se ne parla neppure»; «Mi
piace, lei, dottor Arena, è proprio un duro»; «Grazie, ma non ho
intenzione di aumentare il premio»; «L’aspetto, nella
Wolfsschanze, venga pure».
La
Wolfsschanze, la tana del lupo. Il rifugio di Hitler.
Disseminare
i suoi discorsi, sospesi tra il paterno e il complice, con i lustrini
di una cultura raffinata che non possiede, è parte del suo talento.
Lo detesto, probabilmente, perché sa come lusingarmi. Come un
prostituta abilissima mi fa sentire prezioso, al centro
dell’attenzione.
Per
arrivare al suo ufficio ho preso l’autobus. Passa sulla riva
sinistra del fiume, nella striscia sottile che separa la sponda dalle
vie che salgono alle pendici della collina. È una linea non troppo
frequentata e attraversa una zona delle città che conosco molto
poco. Ho scelto l’autobus per questo, oltre che per l’illusoria
convinzione di non accrescere l’inquinamento in città. Piove, una
pioggia sottilissima che potrebbe continuare per giorni. Un inverno
lunare, secco e freddo, e una primavera grigia e umida. Nel Nord
metropolitano in lento degrado.
A
metà mattina sull’autobus c’era pochissima gente. Un paio di
studentesse che hanno saltato scuola, tre o quattro pensionati con
minuscole sporte, sei o sette immigrati, per lo più donne. Badanti o
prostitute nere in libertà. Un solo bambino in braccio alla nonna.
Il percorso è più lungo di quanto lo ricordavo. Pochi salgono o
scendono. Qualcuno chiacchiera troppo forte, molti tacciono e
guardano dai finestrini con l’attenzione vuota di curiosità di chi
ha già compiuto quel percorso molte altre volte.
Sale
scuotendo l’ombrello, vestita di una cerata rossa che la rende
ancora più giovane. La osservo soltanto per un istante prima di
allontanare lo sguardo. Wilma. Vent’anni almeno che non la vedo. Un
paio di sere con lei è tutto il nostro passato sentimentale. La
prima un fiasco completo, la seconda nervosa, inutilmente aggressiva.
La guardo mentre si tiene alla sbarra accanto all’uscita. Bionda, i
capelli ricci, la pelle chiarissima, gli occhi grandi, da miope,
tanto chiari da essere quasi incolori.
Non
so se sarei contento che mi riconoscesse. Non abbiamo mai avuto molto
da dirci. La guardo ancora, lei solleva gli occhi e torno a fissare
l’erba grigia che scorre oltre il finestrino rigato di polvere.
No.
Qualcosa non va. Non è Wilma, non può essere lei. Non può essere
identica alla Wilma del mio ricordo, come se il tempo non fosse
passato. Io sono cambiato: molti capelli sono diventati bianchi,
sulla fronte e intorno agli occhi si sono schierate le rughe, cerco
di ignorare nei e altri difetti della pelle, piegare la schiena mi
provoca brividi e dolori ancora indistinti. Ogni tanto mi assalgono
paure indefinite se non riesco a ricordare un nome o un incontro.
Sono invecchiato, anche se mi illudo di essere ancora me stesso al 99
per cento. Una questione di percentuale. La percentuale di me stesso
dentro il mio corpo che scende inesorabilmente. Sarò l’ultimo a
capirlo, comunque.
Wilma-non-Wilma
guarda verso di me. Ha la sensazione di avermi già visto? Più
giovane, certo, molto diverso. Mi sento osservato da un fantasma. Una
sensazione assurda. Non è Wilma, è una ragazza che le assomiglia,
tutto lì. Una sorella minore. Una figlia prematura. Lei stringe gli
occhi, da miope che ha tolto gli occhiali per non bagnarli.
Scendo
alla fermata successiva, aggregandomi d’impulso a due slavi in
abiti da muratori. Sotto la pioggia la osservo ancora una volta,
privo di energie.
Ritorno
a casa in taxi. Mambri non c’era. Ha lasciato l’incarico di
raccogliere il mio assegno alla segretaria, falsa bionda stretta in
jeans di una misura inferiore al necessario. Non mi ha sorriso,
pallido e fradicio dovevo sembrare entrato lì per caso, un
increscioso estraneo nel mondo dell’investimento e della ricchezza
paziente.
Evito
la riva sinistra e passo costeggiando il futuro mancato di Italia
‘61. Stanno restaurando, cercando di trasformare il
sarebbe-potuto-essere, il trapassato futuro, come lo chiamavamo con
Monica, in un monumento all’inutile. Trapassato futuro aveva una
sua imbarazzante dignità, i suoi eredi – rivisti, ripuliti e
riutilizzati – non avranno neppure quella.
Mi
sento sollevato per avere evitato l’incontro con Mambri, ma il
falso incontro con Wilma continua, tormentoso, ad accompagnarmi. Un
errore, un falso riconoscimento, che altro? Sono poi così certo di
avere conosciuto una ragazza di nome Wilma? Che pensiero idiota.
Certo, mi ricordo perfettamente la sua biancheria lucida di falsa
seta. Sorprendente per una ragazza di nemmeno vent’anni. La radio
del taxi trasmette una vecchia canzone. Non ricordo il nome del
gruppo e nemmeno il titolo della canzone. Eppure era una canzone che
ricordavo perfettamente. Ne avevo tradotto il testo. Era una delle
canzoni che amavamo di più, io e… il mio amico, il mio miglior
amico. Il suo nome si nasconde da qualche parte, oltre la pioggia.
Vicino e inafferrabile. Insieme al nome del gruppo, al nome della
canzone, a tutto il passato che sta scivolando via dalla memoria. O
ritornando inatteso e falso. – Scendo qui, grazie –, balbetto.
Il
mio piccolo appartamento odora di fumo e di acido. Apro le finestre,
lascio entrare la pioggia e l’aria. Due stanze più il piccolo
bagno. Sarebbe un perfetto pied-à-terre e dell’alloggio da
week-end con la segretaria ha anche il prezzo e il contratto
rinnovabile ogni due anni. Invece ci vivo davvero, senza nemmeno una
segretaria da sbattere.
Devo
essere grato a mio padre che è riuscito a trovarmi ancora un posto
presso una concessionaria d’auto dopo il fallimento dell’agenzia
viaggi. «Non è stata colpa mia», mi ripeto nelle ore della prima
luce, quando, già sveglio, non posso impedire al mio io di istruire
un processo sommario al mio fallimento e dichiararmi ogni volta
colpevole. «Non è stata colpa mia», ripeto. Non riesco a
convincermene, non sono mai riuscito a convincermene.
Tolgo
le scarpe e scivolo in camera da letto nella luce grigiastra della
pioggia. È quasi mezzogiorno ma potrebbero essere le sette del
mattino o le cinque del pomeriggio. L’odore acido è più forte,
insopportabile, c’è fumo. Corro ad aprire la finestra. Il piano di
plastica del comodino è annerito e piegato, il libro che stavo
leggendo ieri sera prima di addormentarmi per metà bruciato.
Smarrito, soffio e dal piano annerito si alza una nube di frammenti
di carta bruciata. Di fianco al libro il portacenere di cristallo,
ingiallito ma ancora intero. Stamattina ho acceso una sigaretta prima
di uscire, l’ho appoggiata sulla scanalatura del portacenere e poi
mi sono ricordato di non essermi fatto la barba. Sono uscito senza
ripassare dalla camera. Tutto qui, una sciagurata trascuratezza che
poteva creare danni molto più gravi.
Torno
in cucina a prendere uno straccio, dell’acqua. Pulisco, elimino i
resti di cenere e le ombre. Del libro, che ho l’abitudine di posare
a copertina in giù, sono bruciate, per un curioso capriccio della
fisica, soltanto le pagine successive al segnalibro. Circa metà del
libro che non leggerò. Pazienza, un libro mediocre che trascinavo
per non ammettere di avere sprecato i miei soldi. Lo infilo in un
sacchetto di plastica per gettarlo via. La stessa sorte cui andrà
incontro il comodino, che sostituirò provvisoriamente con uno
sgabello.
Raggiungo
la concessionaria a piedi. A metà strada mi rendo conto di non aver
portato con me il libro per gettarlo via. «Come si chiamava
l’autore?» Nebbia. Nacht und nebel, «notte e nebbia»,
avrebbe detto Mambri in uno dei suoi accessi di cultura. Come si
chiamava l’autore? Il panico non arriva ancora a stringermi la
gola, sono soltanto sorpreso. Alzheimer. Ricordare il passato remoto
e non riuscire a ricordare il passato recente. Giro l’angolo prima
della concessionaria. Autore: «Enrico Volpato», titolo «Saluti e
baci». Niente Alzheimer, per il momento.
Detesto
trattare con i clienti. Mi hanno assunto per occuparmi dei rapporti
con i fornitori, lo stesso lavoro che facevo in agenzia. Ma le
macchine sono qualcosa di solido: modello, tipo, cilindrata, anno di
produzione, accessori eccetera. I viaggi qualcosa di volatile,
capriccioso, intrinsecamente idiota. Qui sono chiamato a trattare con
pochi fornitori non a destreggiarmi tra offerte mirabolanti e sconti
inquietanti. Non sono brillante, ma macino il mio lavoro senza
infamia e senza lode. Uno dei venditori non è venuto a lavorare.
Dovrò sostituirlo. Piove, se sarò fortunato non capiteranno
clienti. Che fretta c’è? Perché comprare un’auto proprio oggi?
Dimentico
sempre che il cattivo tempo immobilizza le auto più vecchie o fa
nascere desideri, anche se vaghi e informi, di qualcosa di nuovo.
Odore di un’auto mai usata, colore di vernice cromata, di rapide
ombre metalliche sotto il cielo limaccioso. Un pomeriggio di lavoro,
pochi affari e moltissime chiacchiere. Un bordello dove si chiedono i
prezzi, si ammirano cosce e seni ma non si scopa. Vorrei riuscire a
condividere la passione esegetica con la quale certuni discettano di
carburatori, cilindri e prestazioni. Ma non me ne importa nulla.
Sorrido e annuisco, fingendo di riconoscere genuina competenza. Vanno
via contenti, alle spalle un altro pomeriggio inutile.
Arriva
tra gli ultimi, quando manca un quarto d’ora alla chiusura e io
sono quasi riuscito a dimenticare l’incontro con Wilma.
Stefano,
lo riconosco senza esitazioni. I capelli lunghi come li portava
allora, il sorriso incerto, i modi cauti, tra l’aristocratico e
l’ingenuo. Non lo vedo da anni. E nemmeno adesso lo sto vedendo, ne
sono certo. Rimango immobile seduto alla scrivania fingendo di
consultare qualcosa al computer. Spero se ne vada, che sia entrato
qui per errore. Stefano non è il tipo da battere i pugni sul tavolo
e gridare: «Sono qui!» E infatti, si guarda intorno per qualche
istante e fa dietrofront. La porta automatica scivola silenziosamente
quando la fotocellula avverte la sua presenza.
Si
volta ancora e mi fa un cenno prima di scomparire nel crepuscolo
grigio.
Come
ho perso di vista Stefano, Wilma, gli altri?
Come
si perdono di vista amici e conoscenti di un’altra età.
Impossibile stabilire un momento. Quando certi legami si fanno deboli
è sufficiente un’estate per perdersi. Diventano vita alle spalle,
ricordi poco frequentati, immagini confuse. Ci si rassegna
facilmente, a certe perdite, e ritrovarsi è imbarazzante. Quando si
è smesso di fare fronte comune contro la vita che ci aspetta non ci
sono più parole né desideri comuni.
Finalmente
di nuovo solo, sul tavolo una pizza ancora avvolta nel cartone caldo
che non mi decido ad aprire e mangiare. Mi alzo, vado ancora una
volta in bagno, in piedi davanti all’unico specchio che posseggo.
Sono io, con tutti gli anni che mi spettano. Troppo stanco del
passato per aver davvero voglia di un futuro. Un caso. La memoria che
mi fa brutti scherzi. Suona il telefono. Mia madre che mi ricorda che
tra due giorni è il compleanno di mio padre. «Dov’è adesso?»;
«Fuori con il cane»; «Sta bene?»; «Certo, che sta bene»; «Me
ne ricorderò, stai tranquilla»; un sospiro. Prima ero presuntuoso,
troppo sicuro di me. Adesso non sono più sicuro di nulla, di me meno
che mai. Mia madre non se la sente di chiedermi se ci sono donne
nella mia vita e cerca di non pensare che la sua vecchiaia sarà
vuota e secca. Nella sua voce si nasconde un rimprovero sempre più
flebile. La pizza è ancora tiepida, la mangio in pochi bocconi. Se
accendo la televisione dovrei riuscire a dimenticare questa giornata
assurda.
Dimenticare,
per lasciare posto a che cosa?
Sono
immobile, seduto al tavolo troppo alto che avrei voluto cambiare da
molto tempo.
Nella
stanza d’albergo, l’ultima volta che mi vidi con Monica, c’era
un lampadario di cristallo a gocce, le lampadine a risparmio
energetico troppo grandi, troppo alte. Le abat-jour con i paralumi di
raso color nocciola con qualche macchia più scura. La parte
macchiata girata verso il muro. Il sesso tra noi era diventato
affannoso, frenetico. Lo facevamo con enfasi, come se i nostri gesti
fossero tanti punti esclamativi, lo facevamo per dovere verso il
nostro rapporto che cadeva a pezzi. Sul divano, sotto la doccia,
sulla moquette dall’odore di plastica acida. Siamo stati
trasgressivi, perversi. Siamo stati disperati. Non eravamo più
capaci di essere soltanto vicini, soltanto felici. Increduli, ma
testardi, non sapevamo rassegnarci.
Non
voglio questo genere di ricordi. Li ho evitati con cura per tutto
questo tempo. Nuda, sdraiata sulla moquette, i capezzoli piccoli e
chiari, quasi invisibili nella luce verdastra delle abat-jour, la
consideravo con distacco, immaginando di provare desiderio. Il suo
sguardo era assente, forse paziente, forse distratto.
Briciole
di momenti senza sapore, consegnate all’infinito temporaneo del
ricordo.
Il
libro bruciato è appoggiato sulla cassettiera, di fianco al letto.
Lo
estraggo dalla busta, lo scuoto.
Scorro
le pagine già lette.
Come
sempre non mi ricordo i nomi dei protagonisti.
Ah,
sì. Mariano. Un nome idiota. Ieri sera Mariano… Che cosa stava
facendo? Guidava sulle colline toscane cercando la casa di Enrico. Si
erano persi di vista da tempo, ma…
Nelle
pagine bruciate ci sarà il loro incontro. L’incredulità e la
constatazione del tempo ormai perduto. Dell’età che ci fa
percorrere traiettorie diverse. Sempre più lontane. Forse. O forse
si tratterà di un felice incontro, di una nuova amicizia che nasce
dalla vecchia. Per saperlo mi basterebbe andare a comprare un’altra
copia dello stesso libro. Domani.
Ma
domani mi sembra un tempo infinitamente lontano. Da tempo non c’è
stato davvero un «domani», ma soltanto un oggi interminabile, un
tempo amorfo e immobile da percorrere in tutte le direzioni senza
riuscire a trovare un’uscita.
La
pioggia è cessata. I balconi umidi del palazzo di fronte al mio
stanno perdendo il debole riflesso di luce regalato dall’umidità.
L’ultima
parola che ho letto ieri: «transizione». Nella pagina di fronte si
distinguono, sui limiti estremi del nero opaco della bruciatura, una
«f» e una «o». Folla, follia, folaga, fottere.
Basterebbe
comprare un’altra copia dello stesso libro.
Basterebbe.
Se
soltanto potessi riavviare la piccola sveglia sul comodino, immobile
sull’ora ottimista dei pubblicitari: le dieci e dieci.
Se
soltanto il mio orologio, abbandonato sul tavolo, riprendesse a
macinare secondi, minuti, ore.
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