Un racconto dal titolo La danza della scimmia, un calco e un divertissement molto evidentemente ispirato a Mr. Stevenson e al suo notissimo Dr. Jeckyll e Mr. Hyde. Un racconto che fu utilizzato dall'ottimo Franco Pezzini per introdurre il suo articolo sulla letteratura vittoriana apparso su Carmilla, «Victoriana».
Pubblicato su Fata Morgana 11, Musica, note, pause, silenzi, fu in realtà scritto molto tempo prima, all'inizio del nuovo secolo, come semplice scherzo letterario. Probabilmente ciò che mosse la mia fantasia fu la capacità misteriosa di un pezzo banale di perseguitare a lungo e senza pietà la mia povera mente.
Un racconto al quale mi sono affezionato col tempo e che spero qualcuno abbia voglia di leggere.
… Su
un unico punto concordavano: ed era la sensazione di una depravazione
indefinita che il fuggitivo lasciava in chi l’aveva veduto…
R.L.Stevenson,
Lo strano caso del Dr. Jeckyll e Mr. Hyde
La
notte abbagliata dalle luci della città ora non è più la stessa.
Per me era una scheggia sottile di infinito quotidiano, un brivido da
tenere sotto controllo. Mi bastava alzare il viso – allora –
lasciar correre lo sguardo e mi sentivo già meno prigioniero.
A
sollevare il volto al cielo con me adesso c’è la Scimmia, e tutto
ciò che Lei riesce a vedere è il baluginare aranciato di mille
lampioni e di mille stanze accese, la luce opaca di una cupola chiusa
che ci tiene avvinti alla terra.
La
sento cullare nella mente – la mia mente – i suoi insulsi timori,
le sua gioie puerili e i suoi stupori idioti. La sento scuotersi di
brividi sciocchi, che mostrano, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la
meschinità della sua anima, la povertà dei suoi sentimenti.
Questa
sera mi sono trascinato fino a casa, procedendo solo per le vie
illuminate, minacciato dal rotolare delle carrozze e dal passo
frettoloso dei miei simili. Ho tenuto la testa china nel bavero del
soprabito, come un fantasma o una caricatura, lo sguardo fisso al
suolo, e le ho impedito di abbagliarmi ancora una volta con i suoi
ridicoli presentimenti, i suoi penosi tremori.
Grant,
il servitore, non mi aspettava tanto presto e al mio arrivo l’ho
visto impallidire. Sicuramente si è chiesto chi tra noi due – io,
Julian o lei, la Scimmia – l’avrebbe interpellato.
–
Vado nel mio studio. Fammi mandare un tè, ben caldo.
Ho
salito i gradini tre a tre senza neppure appoggiarmi al mancorrente.
È
questo surplus di valentia fisica, questa energia animale, sinistra e
assurda in un uomo di sessanta e più anni, a farmela chiamare
Scimmia. Ma la sua povertà mentale, la sua ristrettezza volgare è
di un tipo particolare e non ha nulla della serena innocenza
stuporosa di tante creature dell’altro sesso.
Non
che nella mia vita siano mancate le occasioni per apprezzare doti e
virtù muliebri. Ma la severità della mia formazione, l’impegno
rabbioso speso per giungere al vertice del mio lavoro mi hanno sempre
tenuto lontano dalla luce intensa ma capricciosa della femminilità.
Ho diffidato della loro imprevedibilità, della loro volubilità,
degli ingovernabili cicli e umori che ne governano il pensiero.
Come
è ovvio sono giunto a quest’età rispettabile avendo conosciuto,
come tutti, i piaceri meno nobili, ma ne ho sempre tratto un senso di
delusa fatica, una sorta di ansia strabica, volta non tanto al futuro
quanto al passato, al pensiero del mio abbandono impotente, ipogeo,
semi inconscio.
Ma
la Scimmia è altro da tutto ciò. Il suo carattere si soddisfa di un
ingenuo mostrarsi, uno sciocco esibirsi, dell’impulso a montare in
piedi su uno sgabello a gorgheggiare canzoncine senza senso,
abbassare i pantaloni e mostrare il deretano, scivolare in una
coprolalia demente e sogghignante.
Sono
ormai quasi tre mesi che tengo chiuso in cassaforte il maledetto
foglio, resistendo alla tentazione di guardarlo un’ultima volta,
come se studiandolo con maggiore attenzione fosse possibile spezzare
l’incantesimo che lo governa.
Più
volte ho desiderato sbarazzarmene, ma un residuo di considerazione
per i miei simili me lo impedisce. O forse ciò che mi trattiene è
la superbia più cieca, che si ritiene soddisfatta nel sapermi
l’unico bersaglio, in un certo senso l’oggetto definitivo di una
magia che da tempo immemorabile aveva solo me per destinatario.
Un
bussare delicato interrompe i miei pensieri.
–
Avanti.
La
mia voce non mostra incrinature, grazie a Dio non ho avvertito le
consuete forzature di tono che preludono al cachìnno, alla sua
lugubre risata ebete.
Stephanie
entra con un leggero inchino e posa la teiera su un tavolino accanto
al pianoforte.
–
Grazie, vai pure.
Mi
guarda. È solo un attimo, un moto, quasi involontario, ma mi rendo
conto che L’ha riconosciuta. Un nulla, un’inezia, un ottavo di
tono o forse meno, ma quanto basta per farle dire: …ecco, in
questo momento Julian Petöfi è uscito da se stesso, è scivolato da
un lato come una vecchia porta, mostrando il volto della Scimmia.
–
Che cosa c’è da guardare? Che cos’hai, che cosa c’è? – Si
inchina frettolosa e si dirige verso la porta. – Nulla, barone,
nulla…
–
Vattene, sparisci. Capito? Vai fuori! Gehest du heraus!
Credo
ostinatamente che la mia lingua natia sia immune dalla Sua influenza.
Ovviamente si tratta di un’illusione, ma non tutti intendono
abbastanza il tedesco da cogliere la Sua eventuale presenza e questo
mi lascia qualche secondo, qualche attimo per controllarmi, per
riconquistare la mia mente.
L’urto
della porta sbattuta ha echeggiato molto a lungo per la casa. Grant
sarà in cucina con la cuoca e Stephanie li avrà raggiunti, ancora
affannata per la corsa, per metterli al corrente del progredire della
mia decadenza.
La
speranza di apparire semplicemente come un vecchio bizzoso, ben lungi
dal soddisfarmi, mi pone se non altro in una categoria molto
frequentata e, tutto sommato, di scarso rilievo. Nel vicinato
fantesche, servitori e governanti mi riterranno degno compare dei
vari Sir Hewitt o Mr. Caldwell che, capricciosi come bambini,
sembrano provare un gusto particolare nel tiranneggiare parenti e
membri della servitù.
Ecco,
in questo i miei famigli sono se non altro fortunati di avere solo il
sottoscritto a guastar loro la digestione. Non ho figli né moglie né
amanti e la mia solitudine è una garanzia per rare occasioni di
incontro e di rammarico.
Ma
qualcuno forse leggerà queste righe ed è in onore di questo
ipotetico lettore che racconterò quanto mi è accaduto, per ciò che
mi è possibile.
Il
foglio non è altro che il frammento di uno spartito, ingiallito dal
tempo. In un angolo in basso, liso e strappato, si legge incompleto
il nome di una tipografia veneta, e un numero minuscolo all’altro
vertice del foglio informa che si tratta della quinta pagina della
composizione.
Mr.
Honeybloom, l’antiquario, non aveva saputo darmi alcun particolare
in proposito. «A essere sincero, Barone Petöfi, non so neppure come
sia giunto in mio possesso. Probabilmente si trovava all’interno di
un in-folio venduto a un collezionista, ma potrebbe anche essere
uscito da una rilegatura o dalla fodera di un divano.» Mi aveva
dedicato uno dei suoi sorrisi frutto di una lunga pratica, mostrando
gli incisivi gialli molto distanziati. «Anche volendo approfittare
del vostro interesse non potrei onestamente fissare un prezzo, né
alto né basso.»
Lo
spartito, o meglio il frammento, era stato stampato su carta di buona
qualità e – nonostante l’età almeno ragguardevole –
conservava miracolosamente nitida la grafia musicale, come fosse
uscita dalla tipografia non prima della settimana avanti.
Cosa
avrei potuto mai farmene di un frammento di una composizione
sconosciuta opera di un autore ignoto?
Mi
vedo qui costretto ad una confessione, tanto più penosa quanto più
mi sembra sproporzionato e assurdo il contrappasso che la mia misera
ambizione ha ricevuto.
Da
tempo stavo lavorando a una sinfonia per violino e orchestra, nata
dal desiderio di ritornare ad armonie più serene e classiche, meno
farsesche e reboanti, come è pure recentemente accaduto di udire in
Francia ad opera di Monsieur Berlioz. È egli infatti un tipo
singolare di compositore per sordi che non manca tuttavia di trovare
estimatori e persino sostenitori arrabbiati, come se la musica
potesse onorarsi di alterchi da osteria e battibecchi di ubriachi .
Mi
illudevo che quel frammento finito così singolarmente nelle mie mani
potesse essere la chiave per giungere a terminare il mio terzo
movimento, che da tempo languiva, e mi parve un inaspettato aiuto del
destino averlo trovato, quasi un incoraggiamento a terminare.
«Vi
offrirò quello che ho nel taschino del panciotto, se la cosa vi
soddisfa.»
«A
vostro piacere.»
Con
mio stupore nel taschino avevo dimenticato una ghinea d’oro, ed era
stato con un certo disappunto che l’avevo porta a Mr. Honeybloom.
Questi
l’aveva intascata con un dignitoso cenno del capo, senza tuttavia
nascondere una punta di stupore.
Mi
ero congedato in fretta, di umore divenuto improvvisamente cupo, e
mentre tornavo a casa, spingendo rabbiosamente un passo dopo l’altro,
dentro di me cresceva un debole, inerte stupore nel constatare
l’intensità dell’ira improvvisa che mi trascinava a passo di
corsa.
Giunto
nel mio appartamento avevo posto il foglio sul leggio del pianoforte
e d’impeto, senza interrompermi, avevo eseguito il breve motivo
stampato, un frammento di sonatina o di lied.
Quando
anche l’eco dell’ultima nota si fu spenta mi venne spontaneo
portarmi le palme delle mani aperte al volto per cercare un inutile
conforto.
Come
direttore d’orchestra mi era capitato più volte di ascoltare
musiche dozzinali, composizioni senza grazia né gusto, esecuzioni
risibili, particolarmente su quei piccoli palchi posti davanti ai
caffè, dove appassionati membri delle forze armate si illudono di
elevare il gusto di servette e bottegai, ma non mi era mai accaduto
di udire un insieme tanto osceno e idiota, un tale fastello di
banalità melodiche, ripetizioni, balbettii ritmici, enfasi demente e
sciatteria.
Quella
sonatina era insieme sguaiata e banale, reboante e romantica, di quel
romanticismo idiota che affascina le sarte e le sgualdrine e che
induce compassati gentleman a frasi altisonanti e ridicole.
Con
un rumore secco avevo chiuso il coperchio del pianoforte, resistendo
alla tentazione di concedermi, per ritemprarmi, qualche nota di
Haydn.
Rassegnato
ad aver gettato al vento una ghinea d’oro che avrebbe potuto
trovare miglior destinazione, avevo chiamato Grant per avvisarlo che
non avrei desinato in casa.
Mentre
mi cambiavo in perfetta solitudine, com’era mio costume, mi ero
accorto di ricordare distintamente un passaggio ostinato di
quell’oscenità – un tema tanto languido quando stolto – ma sul
momento non avevo dato troppa importanza alla cosa.
Più
tardi, seduto al tavolo del club, avevo ordinato il mio consueto
vitello al ginepro accompagnato da una pinta di ale scozzese. Mentre
attendevo non mi era parso strano tamburellare sul tavolo un ritmo
musicale con le dita. Non è una cosa che tutti fanno, dal più umile
garzone di maniscalco fino all’erede dell’Impero?
Ma
il mio ipotetico lettore credo abbia già compreso qual era il tema
che guidava le mie dita.
Mi
interruppi avvertendo un brivido. Avrei voluto punire la mano
colpevole e la bocca atteggiata a fischio che stava per
accompagnarla. Decisi che doveva trattarsi di stanchezza, forse di un
principio di costipazione. Mangiai senza alcun gusto il mio piatto
preferito e rientrai prima del solito, disertando il tavolo da gioco
di Mr. Utterson.
Anche
mentre rientravo a casa cercavo di tenere rigidamente sotto controllo
la mia fantasia musicale, resistendo alla tentazione di eseguire
nuovamente quell’abominio, soffocando alla prima nota il suo
incedere sornione che sentivo pronto a riprendermi nuovamente non
appena la stanchezza mi avesse vinto.
Ricordo
distintamente il cielo cristallino di quella strana sera di vento,
tanto rara nel Regno Unito. Ricordo la pena nel congelare il cuore
anche alla vista di un cielo gremito, scintillante, il cielo di
un’anima che conosca la Grazia.
Mentre
proseguivo avevo però finito per mutare avviso e giunto a casa avevo
deciso di prendere, come si suol dire, il toro per le corna.
Avevo
nuovamente eseguito quel tema anonimo, una volta e poi ancora, ancora
e ancora.
E
ad ogni esecuzione sentivo il mio essere spezzarsi in due: insieme
godevo di quella musica tanto corriva e sciocca e me ne ritraevo
inorridito. E il piacere oscuro che mi divorava, unito al desiderio
di comprendere quale malia mi avesse conquistato, mi spingeva a
ripetere il motivo, come se nella schiena mi fosse stata infissa una
manovella che un saltimbanco disperato continuava ad azionare per la
via deserta.
Era
giunta l’alba quando, stanco e allucinato, caddi di schianto sul
divano abbandonandomi all’incubo.
Per
un mese o più quel frammento fu la mia condanna.
Le
sue note, retoricamente cupe o stupidamente squillanti mi
accompagnavano ovunque, le ravvisavo in qualunque brano o sinfonia,
mi spingevano a rabbiose discussioni con i musicisti che accusavo di
nefandezze inesistenti, di errori marchiani di intonazione, persino
di aver confuso una pagina dello spartito con l’altra o, per
sbadataggine, di averne girate due insieme.
Ricordo
ancora distintamente, con una pena che ha perso l’opprimente aura
di vergogna dei primi tempi per vestirsi di malinconia, le lunghe
passeggiate serali tra gli alberi bagnati dal gelo, i balbettii della
fantasia invasa, le febbrili elucubrazioni, le ipotesi, le follie
bizzarre che mi accompagnavano. Anche se non posso ricordare
chiaramente il procedere di quei pensieri, rammento perfettamente il
rancore che li risvegliava, le sterili rivincite e le umiliazioni
immaginarie che mettevo in scena come un teatrante senza gusto né
genio, il colore d’ombra di ogni mio momento, dominato dal ritmo
languido e volgare di una danza oscena.
L’esecuzione
della sinfonia che era stata affidata alla mia orchestra dovette
essere dapprima rimandata e infine annullata, con enorme
costernazione del pubblico del Royal Theatre. E ciò che è peggio di
tutto, io, il maestro Petöfi, avevo perduto ogni dignità personale,
giungendo ad accusare impresari e musicisti di aver ordito una
congiura contro di me per potermi sostituire.
«Si
tratta solo di un po’ d’esaurimento, Barone Petöfi, nulla di
più. Se avrete la bontà di… »
«State
zitto, Mr. Baincroft, per carità. Quale esaurimento? Ditemi
piuttosto dov’è il direttore inglese destinato a sostituirmi. Me
lo dovete. Almeno questo me lo dovete! Parlate, siate sincero!»
Il
massiccio impresario scuoteva inutilmente il capo, sentendomi così
sragionare, e il suo naso rosso e gonfio seminascosto dal fumo della
pipa si muoveva come il piccolo diavolo di una recita di burattini. E
anche mentre parlavo, mentre cercavo di ritrovare il filo smarrito
della mia essenza, sentivo quel motivo echeggiarmi nella mente, lo
sentivo inebriarmi e stordirmi, rendermi ridicolmente magniloquente o
cupamente sospettoso, penoso come qualunque uomo che abbia
definitivamente smarrito il senno.
Non
desideravo altro che ritornare a casa, aprire il pianoforte ed
eseguire una volta di più la Danza della Scimmia, come avevo deciso
di chiamare quell’abominevole composizione, fino a quando un sonno
greve come una maledizione non fosse finalmente arrivato a
cancellarmi dal mondo.
Nulla
della mia vita quotidiana sembrava risparmiato da quel morbo oscuro.
La mia sinfonia era divenuta una confusa ripetizione del motivo che
mi ossessionava, i miei pasti erano divenuti un calvario condotto a
una velocità da cinematografo, le mie relazioni erano fatte di
lunghi silenzi seguiti da stupefacenti confessioni che ogni volta
inventavo per interlocutori che, sicuri di conoscere il vecchio amico
Petöfi, si vedevano ogni volta presentare un volto inaspettato e
sconcertante di me, che li lasciava interdetti, talvolta
dolorosamente colpiti, più spesso semplicemente inorriditi.
Presi
a bere, e in quei momenti le mie confessioni, i miei ricordi,
assumevano coloriture licenziose, indugiavano su particolari osceni e
sgradevoli, su passioni stravaganti e su ancor più stravaganti
esercizi che ripercorrevano le triste vicende narrate da un Marchese
che, con cinica ammirazione, si volle definire Divino.
Nemmeno
quando mi fu revocata l’iscrizione al club ciò che restava del mio
autocontrollo riuscì a frenarmi. Mi misi a frequentare locali
proletari, le infime bettole di portuali e marinai. E la Scimmia mi
faceva da compagno e da guida, conducendomi come il cocchiere di
Satana nelle viscere della città di Dite, risvegliando in me
l’ebbrezza della caduta rovinosa, della dignità calpestata e
violata.
Una
mattina di dicembre mi risvegliai in un sordido cortile, sdraiato tra
patate marcite e vecchi panni che sapevano di rancido e di muffa.
Aprii gli occhi sul cielo di madreperla, la mente miracolosamente
silenziosa e vuota.
Fui
subito in piedi, barcollante, irrigidito dal freddo, ma ben vivo e
incredulo.
Non
persi tempo a cercare di ricordare cosa mi aveva condotto lì e quasi
distrattamente constatai l’assenza del portamonete e dell’orologio
donatomi quindici anni prima da Lord Halifax. Si trattava di inezie,
banali incidenti: la Scimmia mi aveva abbandonato, questo era
l’importante.
Giunsi
a casa trafelato, sporco, zoppicante.
Persino
Grant, che pure era giunto ad abituarsi ai miei modi bizzarri, ai
miei scatti d’ira senza ragione, alle ore sconvenienti delle mie
sortite e delle mie ritirate, non poté celare il suo smarrimento, un
sentimento che sapevo come in lui confinasse col disprezzo.
Non
me ne stupivo né potevo volergliene, io stesso ero giunto a provare
una nausea iraconda, un disgusto sovrano eppure impotente verso ciò
che la Scimmia mi induceva a fare.
Appena
entrato nel mio studio afferrai lo sciagurato spartito e lo nascosi
in cassaforte, sotto una pila di altri incartamenti e documenti, in
modo che i miei occhi non potessero posarsi su di lui neppure
casualmente.
Compiuta
quell’operazione mi gettai sul divano e chiusi gli occhi. Ma i miei
nervi sovreccitati non vollero concedermi neppure un attimo di
respiro. Ahimè, non avevo dimenticato la Danza, sapevo che risuonava
ancora dentro di me, remota, indistinguibile, come eseguita in un
lontano padiglione, ma ben presente. Restavo immobile, aggrappato al
controllo di me appena recuperato, ma, come un relitto abbandonato,
temevo e sapevo che presto sarebbe giunta una nuova tempesta a
spingermi per il mare e ad affondarmi, vincendo definitivamente la
mia resistenza.
Stephanie
stava spolverando i soprammobili del corridoio prospiciente al mio
studio. La sentivo avvicinarsi, avvertivo il suo passo irregolare
interrotto da soste frequenti e il tonfo leggero degli oggetti
sollevati e posati nuovamente. Un canticchiare sommesso la
accompagnava, un canto innocente, grazioso, che riconobbi solo quando
giunse davanti alla mia porta.
Non
riesco a ricordare precisamente cosa accadde nei momenti che
seguirono. Rammento il volto di Stephanie stravolto dal terrore,
Grant chinato su di me, confusi rumori, urla, il lungo scampanellare
dalla strada.
Ricordo
perfettamente viceversa gli accenti trionfali, quasi gioiosi della
Danza della Scimmia nuovamente padrona della mia mente.
Adesso
la Scimmia mi lascia qualche momento libero, come avesse compreso che
tenendomi il guinzaglio troppo stretto avrebbe finito col soffocarmi.
Il
suo modo di palesarsi, viceversa, si è fatto più pervasivo, come se
il malefico spartito fosse dotato della capacità diabolica di
diffondersi, materializzarsi nel mondo sensibile, colonizzarlo,
infettarlo.
Non
è raro udire la Danza eseguita da qualche spazzacamino che passa per
strada fischiettando, sentirla comparire in un coro di bimbi o
distinguerla passando per la via, uscita dalla gola degli avventori
ubriachi di un Pub.
Il
lettore si chiederà perché non abbia mai accennato a una cadenza, a
una descrizione anche semplice ed elementare della Danza. Ma non
posso fidarmi neppure di me stesso, né posso rischiare di rendere
ancor più virulento il contagio.
La
Scimmia occupa interamente il mio tempo e anche nei momenti nei quali
apparentemente si acquieta non posso trovare nessuna pace, teso come
sono a riconoscere il momento del suo ritorno. Vivo in uno spazio
separato, un mondo fatto di ansia e di furore. Nulla può più
raggiungermi né io posso più tentare di comunicare con alcuno. Ciò
che temo maggiormente è proprio quest’acquiescenza, ormai solo
episodicamente colorata d’ira. Sempre più spesso mi trovo a
canticchiare o a fischiare la Danza e lascio che il fischio mi muoia
sulle labbra senza trattenerlo, con gli occhi sbarrati: come un morto
sciocco o un cadavere di cattivo gusto.
Si
tratta della mia ultima speranza, balenatami in mente al momento del
risveglio. Ho disseppellito lo spartito e, guardandolo solo con la
coda dell’occhio, l’ho posto sul leggio del pianoforte. Come ben
sapevo il manoscritto poteva essere eseguito anche al contrario. Ho
provveduto a trascrivere le chiavi rovesciate del margine destro sul
margine sinistro e con esse l’intonazione.
Poso
le mani sui tasti, trattenendomi ancora per un attimo, probabilmente
il più lungo della mia vita. Ho aperto la finestra perché tutti
possano udire. Eseguirò la Danza della Scimmia al contrario,
dall’ultima alla prima nota, e sarà forse come se non fosse mai
stata suonata. Per pochi attimi tenterò di rovesciare il verso
immutabile del Tempo, e come Prometeo, strapperò agli dei il segreto
della Vita e della Morte.
Brucerò
il frammento di vita che mi rimane per annullare una stupida
canzonetta, nient’altro una musica insulsa e invadente.
Perché
il diavolo non è grande e maligno - come ci illudiamo noi romantici
mortali – bensì sciocco e piccino, un fantasma greve che vive di
minute banalità, di frasi smozzicate e di pensieri che non arriva a
esprimere. Una larva che si trascina per le vie con la smorfia
incerta dell’uomo senza futuro.
La
Scimmia ne rappresenta il povero, rudimentale gusto, raffigura alla
perfezione le sue velleità confuse, la sua ansia di apparire, il suo
agitarsi vano, le sue ire ottuse, il suo livore meschino.
Tengo
ancora gli occhi chini sulla tastiera, pronto a cogliere per
un’ultima volta il suo richiamo e un istante prima di estrarre dal
pianoforte la sua prima nota comprendo che la Scimmia è innocente.
Ella
non può vivere senza di noi, né noi senza di lei, e ogni sforzo per
cancellarla è vano, forse blasfemo.
Ma
è tardi ormai, e con la lentezza del sogno le mie mani, elette a
giudice, iniziano a comporre la nostra definitiva condanna all’oblio.
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