22.3.13

Due libri e mezzo


È passato qualche tempo da quando ho promesso di parlare delle mie letture ma poi ho continuato a rimandare il momento nel quale parlarne. Il motivo è ovvio: scrivere dei libri letti è faticoso, impone di fermarsi, riflettere, raccogliere le idee, scriverle, cancellarle, riscriverle... una fatica, in breve.
Lo so, lo so, da un certo punto di vista è una fatica maggiore leggerli, i libri, ma non è questo il mio caso. A me, nonostante i plurimi tentativi messi in atto dai grandi editori, sempre più simili a una Banda Bassotti editoriale che infesta le librerie, piace leggere. Almeno finché i miei vessatissimi occhi non decideranno che ora basta.
Elif Batuman
Per questo giro mi limiterò a tre libri, per semplici motivi di spazio. Prossimamente seguiranno altri tre o quattro libri.
E inizio è con un libro edito da Einaudi, I posseduti di Elif Batuman, sottotitolo: storie di grandi romanzieri russi e dei loro lettori. Mmmhhhh, un po' criptico, come titolo e sottotitolo, ma lo acquistai ugualmente, affascinato da un assurdo Dostoevsij intento a una surreale partita a tennis.
Sul retro di copertina, comunque, è scritto:

I posseduti non solo un libro di lettura: è prima di tutto una storia d'amore, il racconto della passione che si scatena quando ogni lettore, ogni lettrice incontra Anna Karenina, Oblomovm Evgenij Onegin...


Bene, tutto ciò detto, il libro si è rivelato una delusione. Non una delusione atroce, intendiamoci, ma comunque una delusione, un qui pro quo librario che se fossi stato abbastanza attento avrei potuto evitare. Mi aspettavo un saggio non troppo ponderoso, una storia della letteratura russa un po' meno ingessata, al limite un breve e saporoso gossip su alcuni miei personali miti... Viceversa mi sono trovato a leggere delle avventure di una studentessa di origine turca a Stanford, California, della sua passione per gli scrittori russi, ma anche per la letteratura e la lingua Uzbeka (più o meno metà del libro), con lunghe parti dedicati alla formazione personale di Elif Batuman e ai suoi incontri, discussioni, piccoli e grandi contrattempi, sogni e desideri.
Sono riuscito, è pur vero, a raggranellare qualche info in più su Tolstoi, Cechov, Dostoevskij e Babel - soprattutto su quest'ultimo - ma mi sono dovuto sopportare la compagnia e le allegre chiacchiere della cara Elif, scritte con uno stile che inclina talvolta verso quello dei messaggini scritti su FB e con l'incrollabile ottimismo del quale spesso si accusano gli americani.
Per farla breve, se cercate notizie, fatti o fattoidi sugli scrittori russi evitate senza farvi nessun problema il libro di Elif Batuman e cercate magari una buona, vecchia storia della letteratura russa. Potrà magari essere un po' noiosa ma non quanto può esserlo, nei suoi momenti peggiori, una garrula ed entusiasta scrittrice e critica turca.
«Sempre così. A parlare con insufficiente garbo dei tuoi amati russi reagisci sempre come un moujik incannato».
No, non ci siamo capiti. Io se compro un barattolo dove c'è scritto “fagioli spezzati” e vi trovo - per l'appunto - fagioli spezzati, non mi incazzo. Se però ne compro uno dove c'è scritto “piselli finissimi” e dentro vi trovo fagioli spezzati, beh, capirai che... E comunque non ho ben capito che senso abbia porre sullo stesso piano la vita degli autori russi con quella di una laureanda in lettere moderne. È per poter dire: «In fondo siamo tutti uguali»? No. Nemmeno in tempi di social networks e di world wide web a manetta lo si può affermare.
Piccolo ma non del tutto trascurabile motivo del mio disappunto - fossi stato più attento nel leggere «prima di tutto una storia d'amore»... - il prezzo di 20 eurini, (sia pur scontati del 15%), che mi è costato il libro.
...
Invece di 17 euro, il libro del quale parlerò ora mi è costato 50 eurocentesimi. Certo si tratta di un fuori catalogo, fuori commercio, edito da una casa editrice scomparsa in una collana chiusa a suo tempo per scarsa risposta da parte del pubblico, ma comunque un libro in carta e pagine: Francis Stevens, Le teste del cerbero, sottotitolo: «Un capolavoro dimenticato che si può considerare a pieno titolo il primo romanzo di fantascienza moderno sul tema degli universi paralleli», editrice Nord, 1993, edizione originale 1918.
Cominciamo dall'autore. O, per meglio dire, dall'autrice.
“Francis Stevens”, infatti, era lo pseudonimo di Gertrude Barrows, nata nel 1884 a Minneapolis. Sul motivo della scelta di uno pseudonimo maschile riferisce Robert Weinberg nel suo A Forgotten Mistress of Fantasy (1984):


La scelta di adottare lo pseudonimo Francis Stevens fu probabilmente dovuto al tipo di storie che l'autrice scriveva. […] Erano gli uomini a scrivere quel genere di narrativa o, almeno, così sembrava a giudicare dai loro nomi. Fra essi, vi erano George Allen England, Abraham Merritt, Max Brand, Charles Stilson, Edgar Rice Burroughs e altri ancora. Non era insomma una compagnia dove avrebbe ben figurato il nome di una donna. Quindi, come molte colleghe prima e dopo di lei, Gertrud […] si rese conto che era più facile cambiare nome che il tipo di narrativa che voleva scrivere.


Quando uscì sulla semiclandestina rivista Thrill Book il romanzo a puntate Le teste del Cerbero il genere “Fantascienza” non era ancora nato e, come scrive Weinberg, «le storie con elementi fantastici o fantascientifici venivano chiamate semplicemente “insolite”, “diverse”, “fuori dalla norma” oppure “alla Poe”».
L'autrice, normalmente pubblicata dalla rivista Argosy, (in compagnia di Abraham Merritt ed Edgar Rice Burroughs) fece uscire il suo romanzo in una rivista neonata che prometteva un'attenzione particolare per la narrativa di genere fantastico: la già citata Thrill Book. Il vero problema fu che Thrill Book si rivelò mal diretta, del tutto priva di editing, con un basso livello di collaborazioni, copertine molto al di sotto della media di per sé spesso non altissima delle riviste dell'epoca, una pessima distribuzione e una tiratura minima, tanto che i lettori abituali di “Francis Stevens” nella maggior parte dei casi non riuscirono nemmeno a sapere dell'uscita del nuovo romanzo del loro “autore” preferito. Alla chiusura della rivista, arrivata immancabilmente dopo pochi numeri, Gertrud dovette abbandonare la scrittura causa problemi familiari e si trasferì nell'Ovest, dove, detto di passata, scomparve misteriosamente nel 1939, a 55 anni.
Venendo al romanzo, si tratta di una sf ad alto tasso fantastico, basato su un oggetto abbastanza tipico del romanzo di mistero: un'ampolla «decorata da Benvenuto Cellini per il suo protettore, il Duca di Firenze», contenente una misteriosa polvere «raccolta dal poeta Dante alle porte del Purgatorio». Che il viaggio di Dante sia stato un evento in qualche modo reale rimane ovviamente non dichiarato e il lettore può anche pensare si tratti di un buffa convinzione del protagonista, ma la polvere funziona, spostando l'uno dopo l'altro i tre personaggi principali dapprima nel mondo “fantastico” di Ulithia e da questo nel Mondo di Penn, un curioso esempio di antiutopia dallo sfondo insieme religioso e politico ambientata un una Philadelphia alternativa di una Terra futura.
Non mi sembra il caso di raccontare le numerose e animate avventure dei tre personaggi e le imprese grazie alle quali riuscirono a ritornare sulla nostra Terra, ma sottolineo volentieri l'aspetto storico-politico tutt'altro che dilettantesco della Terra alternativa e anche la curiosa, inattesa potenza narrativa di Ulithia, ovvero, come scrive Damon Knight:


[…] L'interludio nel mondo di Ulithia non è strettamente indispensabile alla trama, ma è scritto per soddisfare il puro gusto del fantastico e vi sono alcune parti in quel capitolo che sono una delizia per il lettore.


Non c'è altro da aggiungere, credo. Non è facile trovare il libro in italiano - nell'ottima traduzione di Sergio Perrone -, ma si tratta di un libro facilmente accostabile anche nella lingua originale. Non perdetelo.

Ultimo libro per questo giro Occhio nel cielo, di P.K.Dick, edizione originale 1957.
«Tu ci sei fissato, con Dick. Come se non esistessero altri autori di sf.»
Non sono fissato, è passato almeno... vabbé, è un pochino che non leggo Dick, ma questo libro mi è stato prestato - prestato, ripeto - da mia figlia...
«Che è anche mia figlia, lo sai, no?»
No, appunto. Prestato significa “leggilo in fretta e rendimelo quanto prima, pena rappreseglie terrificanti». Più o meno come avere un libro in prestito da Ceausescu. Quindi l'ho letto a passo di carica e lo sto trattenendo col la scusa di una recensione. Pericoloso, lo so. E adesso non scocciarmi mentre dico due parole su questo libro.
Allora. 
Occhio nel cielo è stato il quarto romanzo scritto da P.K.Dick, pubblicato nello stesso anno de La città sostituita, delirante incursione in un fantasy oscuro e terrificante.
Lo spunto è facile da raccontare. Otto persone vengono coinvolte in un incidente in un impianto nucleare. Tra il momento dell'incidente e l'arrivo dei soccorsi passano alcuni minuti, durante i quali gli otto - uniti da una sorta di telepatia collettiva - vivono una serie di incubi partoriti dalle menti di alcuni di loro, incubi in forma di psicoambienti nati dalle personali convinzioni o dai deliri personali, ovvero, come scrive una mia ottima amica:

I protagonisti della vicenda, per vari casi, si trovano a vivere per un po' di tempo in mondi diversi, ognuno dei quali è "creato" involontariamente da uno di loro, è il loro mondo personale, regolato dalle leggi individuali con cui ognuno di loro vede la realtà.


Anche qui non mi sembra il caso di riferire punto per punto ciò che accade, il libro, nell'ottima traduzione di Maurizio Nati, è facilmente reperibile, persino nelle librerie di catena. Ciò che mi sembra davvero meritevole di attenzione è la cura letteralmente maniacale con la quale Dick descrive i deliri attentamente costruiti dei suoi personaggi[1] e la capacità di rendere a distanza di mezzo secolo e più il clima ferocemente, psicopatologicamente anticomunista degli USA di quegli anni.
Un ottimo libro, figlio di un giovane Dick, in qualche modo ancora convinto che la realtà si potesse cambiare con le parole di un libro. Come sappiamo in seguito Dick cambiò modo di vedere il suo e il nostro mondo. Se volete sapere come, potete leggete «Un oscuro scrutare» o «Episodio temporale»[2].

Arrivederci al prossimo giro.

[1] soltanto un piccolo esempio: «”Abolisca le autoradio!” propose Hamilton. Il rumore cessò. “E anche i televisori e i film”[...] “E gli strumenti musicali più economici... le fisarmoniche, i banjo, e le armoniche a bocca”. Quegli strumenti scomparvero in tutto il mondo. “Le scritte pubblicitarie” strillò Joan Reiss […] “Gli oceani” disse Hamilton […] In un ultimo, debole rigurgito di energia, Joan Reiss si sollevò sulle braccia e disse in un sussurro, “Aria!”.

[2] titoli originali: A Scanner Darkly [1977]; Flow my Tears, the Policeman Said [1974]








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