14.6.12

Un'idea scaduta ovvero storia di un nome (3)


Terza parte del mio intervento economico-personale sulla storia della «C» di CS. 
Per la «S» ci sto pensando, può darsi che «studentesca» o «studi», ovvero il nocciolo del nome della libreria, meritino un'altra piccola storia. Ma ne parleremo poi.
...
Cooperativa, dicevamo. 
Dagli anni '80 non più parte del movimento cooperativo ma battitore libero. Già, perchè la fine del Coneditor (per chi non si ricorda cos'è può controllare qui) aveva suscitato in noi un numero eccessivo di dubbi. Era il caso di rimanere in una struttura così palesemente incapace di garantire e controllare le società aderenti? Non che si invocasse una qualche STASI per le cooperative, ma il sostanziale silenzio della Lega delle cooperative ci aveva tramortito. Probabile, e in qualche pissi pissi bao bao praticamente certo, che alla Lega Piemonte non importasse un asso di picche del consorzio nazionale di librai. La sezione coop culturali della Lega pullulava di «animatori» ben decisi a farsi mantenere dagli enti pubblici e del tutto incuranti anzi rabbiosamente incuranti delle nostre piccole storie da bottegai.
E qui un piccolo inciso merita farlo. 
Esiste nel vasto mondo della sinistra italica più o meno estrema un pregiudizio profondamente radicato e probabilmente, almeno in parte, giustificato e giustificabile. Chi si occupa di vendere, rivendere, commercializzare, smerciare è un «bottegaio». Senza se e senza ma. E, in quanto bottegaio, ha una visione ridotta e parassitaria della realtà. Inclina inconsciamente alla frode e al mercato nero. È potenzialmente un grassatore, un evasore fiscale, un traditore del proletariato. Un grasso e avido speculatore. Insomma, una specie di panciafichista. 
È interessante notare come certe categorie dell'estrema sinistra possano agevolmente assumere connotati sottilmente inquietanti, al limite dello squadrismo morale. Non è per fare il solito stupido ragionamento sugli opporti estremismi, dio me ne scampi, ma indubitabilmente la sinistra italiota si è spesso gingillata con categorie di morale quotidiana degne della più famosa casalinga di Voghera. Nulla da aggiungere, un po' per non polemizzare e un po' perché alcuni soggetti delle coop librarie in qualche modo almeno in parte meritavano un tale pregiudizio. Soprattutto negli anni '80, quando, dopo il fallimento storico della sinistra, gli yuppies avevano sostituito gli hippies e il manuale sull'analisi di bilancio aveva rimpiazzato i Manoscritti economico-filosofici o Stato e rivoluzione.
Sia come sia, in quegli anni decidemmo di uscire dalla Lega delle Coop e di affrontare direttamente le periodiche revisioni previste dal ministero. E non abbiamo più avuto motivo per cambiare idea, nonostante le maligne previsioni delle prefiche coop. Gli ispettori ministeriali non ci hanno mai distrutto, nè angustiato, nè torturato, nè impoverito.  
Sistemati come ci sembrava decente, ma più o meno soli, abbiamo cominciato a ragionare sulla situazione delle librerie in Italia. Avevamo ormai alle spalle la visione un po' comica dei librai come «squallidi piccolo-borghesi fedeli al capitale parassitario», e cercavamo di capire come funzionavano davvero le cose.
Erano buoni anni. Si vendeva decentemente e si rifletteva, cercando di comprendere dove passava il confine, dove, in altre parole, correva la linea di frattura fra uno sviluppo democratico delle conoscenze e delle competenze e il mass-market monopolistico. Mass-market che, è inevitabile ammetterlo, alla fine ha vinto. Ma non ha trionfato e la partita è tutt'altro che chiusa. Ma questo è un altro discorso e ci ritorneremo. 
Nel frattempo il nostro rapporto con il pubblico, particolarmente con i ggggiovani funzionava bene. Esisteva (ancora) una sinistra studentesca viva - anche se non troppo vitale - e comprare i propri libri in una libreria dichiaratamente schierata aveva ancora un senso. Si era negli anni '80, si polemizzava a distanza con la Thatcher e con Reagan, si ascoltava «I think the russians love their children too» di Sting, si correva al cinema - non ancora multisale - a vedere «Chi ha incastrato Roger Rabbit» o «Ghostbusters», si progettava di acquistare un videoregistratore e si scriveva «Goto»e «Run» sugli home computer. 
Era un momento di equilibrio, nonostante tutto. Un equilibro che avremmo capito soltanto dopo un po' che era instabile e che ciò che allora sembrava una parentesi detestabile era destinata a diventare una tendenza irreversibile. 

A questo proposito... verso la fine di quegli anni - e chiedo scusa per la parentesi del tutto personale - mio padre mi chiese di tradurre dal tedesco alcuni documenti aziendali di ditte dei quali era consulente. Obbedii tirando su qualche soldino che, come ognuno sa, non fa mai schifo e soprattutto scoprii che una ditta di ascensori o di condizionatori creava gran parte del proprio business acquistando e vendendo buoni di stato, italiani e stranieri. Ingenuamente ero stato convinto fino a quel momento che il Capitale avesse come scopo principale quello di ingrandire acquistando e vendendo aziende e non buoni di stato. Magari migliorando tecnologicamente la propria produzione per poter meglio competere con le aziende straniere. No, nulla di tutto ciò. Si viaggiava con un «Oggi vendiamo i BOT per comprare i Buoni Tedeschi che poi vendiamo per acquistare Buoni statunitensi o canadesi. Il tutto ci fa incassare tot lire»... senza che ci siano ricadute sulla fabbrichetta. Anzi. 
La crisi dell'Italia era già in pista, poco intellegibile all'epoca ma già esistente. I BOT e i CCT rendevano troppo per non provocare salivazione diffusa tra coloro che i soldi da investire li avevano. Altro che «i risparmi dei pensionati», ad acquistarli erano aziende (ed evasori fiscali, ovviamente) che operavano da un punto di vista finanziario piuttosto che economico
Allora fu soltanto un'introduzione al tema che poi ho - e abbiamo - sentito ripetere fino alla nausea. La crisi è prima di tutto una crisi di prospettive... Detto di passata, quando il denaro è facile da fare acquistando buoni del tesoro - i cui interessi paghiamo tutti con il nostro lavoro - passa la voglia di inventare qualcosa. E infatti...
Una tendenza irreversibile, dicevo... ma rimaniamo negli anni '80. Le fotocopie esistevano già ma erano ben pochi quelli che pensavano seriamente di poter dare un esame brandendo un fascio di fotocopie.
Esisteva persino una certa resistenza all'idea. Che fosse ragionevole e auspicabile poter preparare un esame senza il libro di testo, libro di testo che si credeva, spesso a ragione, talvolta a torto, che dovesse servire anche nella professione. Non che si fosse tanto pifferi da credere a tutte le scemenze che giravano all'università - e qui l'esperienza degli studenti più anziani poteva essere preziosa - ma una certa vaga ma immancabile fiducia nell'istituzione in quanto tale permaneva anche nei più arrabbiati. 
Un atteggiamento che all'epoca era forse ingenuo o risibile o inadeguato e che certamente oggi si presta a motteggi e cachinni, ma che aveva il suo peso. E non sono sicuro che vivere in un tempo nel quale l'unico valore di ogni cosa è il suo costo sia positivo. 
Tra il valore i costo di qualcosa passa un'enorme differenza, ma è difficile spiegarlo a parole. 


...
Mi fermo qui per semplici motivi di stanchezza e di lunghezza. 
Ho parlato degli anni '80, lo so, ma anche degli anni successivi. Sono probabilmente andato fuori tema ma pazienza, non sono a scuola. 
Immagino che al terzo brano dovrà seguirne un quarto.
Ma ne riparliamo la prossima settimana. 

2 commenti:

Nick Parisi. ha detto...

E io aspetterò molto volentieri la quarta parte. Triste pensare a quegli "anni reaganiani ", hanno rappresentato l' inizio della fine, per la societá italiana.

Massimo Citi ha detto...

@Nick: non c'è niente da fare. Ogni volta noto la tua gentilissima nota e mi riprometto di risponderti appena possibile. Poi l'«appena possibile» risulta essere il giorno dopo o peggio. Ma «Non è stata colpa mia, lo giuro, non è stata colpa mia!»
Condivido completamente, comunque. Gli anni reaganiani sono stati l'inizio della fine per l'Italia.