6.7.13

Alcune sparse e rinunciabili osservazioni sullo scrivere


Lo spunto è nato dalla lettura di un post di Davide Mana, proprio qui, a sua volta stimolato da un post de la Clarina, che potete trovare qui. Premetto, ed è bene che lo faccia, che quasi sicuramente andrò fuori tema, dimostrerò di avere capito poco e comunque non dirò nulla di utile al popolo sovrano, ma non posso resistere e non toccare un tema che, soprattutto in questo periodo, mi perseguita. 
Secondo il buon Davide produrre letteratura viene spesso gabellato come sforzo, ovvero come sofferenza, come un "parto" della mente e dello spirito al quale l'intera anima dello scrittore - meglio, del creatore - partecipa, a creare un unicum  ìnestimabile. Accoppiata - come premessa e condizione - a questa sofferenza del creare è il concetto del controllo, controllo della propria inventività e di trama, vicenda, intreccio e personaggi. 
Davide ci spiega come, a suo parere, lo sforzo del creare, la "sofferenza del creatore" sia un elemento in qualche modo esterno al processo reale della scrittura, un aggiunta romantica - forse più che altro decadente - all'organizzazione di un lavoro che ha sicuramente aspetti non immediatamente comprensibili e razionalizzabili, ma che resta né più né meno un lavoro, ovvero un organizzare i propri sforzi per ottenere un risultato apprezzabile da altri esseri umani. Il che può valere per un romanzo ma anche per una sciarpa di lana, una parete dipinta di fresco o una pasta pomodoro e basilico.
Quanto al controllo, si tratta anche in questo caso di un'illusione, nel senso che un controllo eccessivo applicato a un testo - come a qualunqua altra cosa - avrà come conseguenza una certa ovvia puntigliosità e la perdita di quell'élan vital che permea le opere di maggior fascino. 
Ma che cosa significa un "controllo eccessivo"?
E come si deve misurare tale controllo? 
Partiamo affermando un'apparente assurdità:
«Il grado di controllo (ovvero di attenzione, di puntiglio/precisione) nella narrazione è inversamente proporzionale alla verosimiglianza di quanto si va narrando».
Un esempio? Per dire che «Quando Giovanni si alzò, guardò dalla finestra e andò in piazza» posso limitarmi a questo semplice insieme di parole, senza ulteriori aggiunte. Se viceversa scrivo: «Quando Giovanni si alzò, guardò dalla finestra e spiccò il volo» debbo assolutamente aggiungere qualcosa. Da una definizione («Giovanni è il noto inventore della macchina per volare») a una precisazione («Giovanni è un corvo») a un richiamo a una situazione precedente («Dopo una notte di incubi, Giovanni...») a un richiamo a un contesto generale («Dopo che Giovanna aveva preso il volo, nel giorno successivo a quando la Grande Magia aveva colpito il popolo, Giovanni decise di imitarla...»).
Insomma, in apparenza il grado di controllo e di attenzione richiesta sembra procedere in modo assolutamente antiintuitivo. Più lavorate di fantasia più dovrete lavorare per convincere il vostro ipotetico lettore che quanto narrato è perfettamente verosimile, sia pure nell'ambito di un esercizio di sospensione di incredulità. 
Non sono idee mie, ci tengo a sottolinearlo, ma di Cvetan Todorov, idee alle quali comunque mi uniformo pienamente, nonostante la lezione successiva degli strutturalisti. 


 Ma non basta, o meglio è necessario aggiungere - e queste sono idee personali - che in ogni caso il nostro controllo sulla vicenda e sul personaggio dovrà essere ferreo sul suo passato mentre potrà e dovrà essere vago sul suo futuro. In sostanza, noi del passato di Giovanni (o di Ivano, Walter o Brodo) dovremo sapere molto. Sapere se è figlio unico o meno, che lavoro fa, che cosa ama e che cosa aborre, che cosa desidera e che cosa teme ecc. ecc. NON tutto quello che costruite come scheda personale del vostro personaggio dovrà entrare nel racconto, ma dovete avere un'idea almeno decente di come il vostro personaggio potrà affrontare i problemi, gli inciampi, le traversie, le glorie e gli affanni dei quali riempirete la sua vita. Questo non è un modo per predefirne il futuro ma un modo per creare un albero di probabilità verosimile al quale fare riferimento. Tenendo comunque conto che nel raccontar(vi) il suo passato potrete inserire piccoli particolari (l'amore per il giardinaggio, una perversione erotica, un evento traumatico) che vi torneranno utili quando dovrete escogitare una soluzione per risolvere un problema in apparenza irresolubile. Il dottor De Grada di «Zero», racconto lungo che potete trovare nella colonna a sinistra del blog, è un uomo dabbene, dotato di fantasia moderata, poco incline alle assurdità e alle apparenti contraddizioni, conseguentemente non avrà particolare resistenze o diffidenze verso Eva. Il che è il problema reale del racconto. Un personaggio con un diverso passato avrebbe potuto giocare diversamente le proprie carte, ma il racconto avrebbe avuto un andamento e sicuramente un finale diverso. 
Naturalmente come vorrete giocarvi questo livello di controllo è un problema interamente vostro. Non solo, costituisce probabilmente una buona parte del vostro talento di autore. 
Quanto alla sofferenza, debbo ammettere che in questo periodo è divenuta parte del mio modo di scrivere. Possibile si tratti semplicemente del troppo tempo passato, delle troppe righe scritte senza apparente risultato, della fatica di immaginare altre storie, altri personaggi, altre avventure. Più che di sofferenza nel mio caso parlerei di fatica, di sensazione di già letto, già scritto e già vissuto. In questo senso debbo ammettere che aggiungere nuove righe mi costa fatica e ciò che scrivo continua a sembrarmi insufficiente, inadeguato, ovvio e noioso. Noioso per me probabilmente non significa noioso per l'universo mondo, ma a che pro scrivere cose già troppe volte lette? 
Mi fermo qui, anche per non rompere i cosiddetti a nessuno. Diciamo che il tema «controllo e sofferenza» può essere declinato nel mio caso come «presunzione e fatica». E ringrazio Davide e Clarina per lo spunto fornitomi. 




  

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