Un
racconto nato da un momento di spleen, da una visione o forse da una sensazione. Uscito su LN 50, estate
2009, un paio di mesi prima del mio personale “accidente”. Un po'
diverso dai miei soliti racconti, se non altro perché (forse) esiste
qualcosa che porta la responsabilità dei morti. La breve prefazione
che segue è apparsa a suo tempo in apertura del racconto.
Capita
di dire di essere sprofondati in un libro. Di essere stati
trasportati altrove o rubati alla realtà. Persino di essersi
bruciati il cervello per comprenderlo. Da una parte noi – attivi,
vivaci, attenti – dall'altra parte il libro: passivo, silenzioso,
disponibile. Ecco: il libro di questo racconto è soltanto un po'
meno passivo dei suoi confratelli. Decisamente meno disponibile.
Ha probabilmente un lungo, lunghissimo passato e un futuro oscuro e
terribile. Si può tentare di leggerlo, certo, ma le conseguenze
possono essere davvero impreviste… Anche se non potrete comunque
dire che la lettura non vi ha fatto sudare…
Scrivere…
bah, inutile.
Tempo
sprecato, fatica inutile.
Forse pericolosa.
Forse pericolosa.
Lo
portano via in silenzio, avvolto in un sudario plastico, quasi non
volessero svegliarlo.
Il
rischio non esiste. È arso, bruciato come uno zolfanello.
Attraverso
lo spiraglio della porta semiaperta posso vedere infermieri e
poliziotti girare per il suo appartamento, «l'appartamento dello
scrittore», cercando indizi, tracce, segnali o chissà cos'altro.
Probabile non cerchino nemmeno le stesse cose. Passano silenziosi in
corridoio e, immagino, nelle altre tre stanze. Il mio vicino si è
addormentato fumando. Il mozzicone acceso è scivolato a terra ed è
caduto sulla moquette. Invece di spegnersi, lasciando una bella
macchia nerastra, ha appiccato il fuoco alla poltrona. Immagino si
sia svegliato per il caldo ed il bruciore – sempre si sia svegliato
– ma non si è mosso dalla sua vecchia poltrona. L'ha trovato
bruciato alla perfezione il portinaio. Ancora seduto, un blocco di
fogli arsi in grembo. Probabilmente uno di quei manoscritti che
leggeva per conto dell'editore. O forse il manoscritto di quel
demente.
Possibile
fosse ubriaco. Forse anche peggio. Per trovare la concentrazione o
l'ispirazione o qualcosa del genere si faceva mattina e sera.
Ingoiava o fumava o tirava qualsiasi cosa: bicchieri, spinelli,
piste. Tutto quello che gli capitava a tiro. Penso non fosse una
sigaretta quella che fumava in poltrona. Ma ormai non è facile
capirlo.
Mi
stringo nelle spalle.
Oh,
bé bé. se ne accorgeranno da soli, penso. Con il RIS o qualcosa del
genere troveranno le tracce della droga. O delle droghe.
–
Signora?
Mi
fissa attraverso lo spiraglio della porta lasciato aperto dal
catenaccio. Un occhio marrone con curiose ciglia troppo lunghe per un
uomo, inquadrato tra i battenti. Sgancio la catena: – Sì?
Apre
leggermente la porta con la punta della scarpa: – Buongiorno.
Antonio Calabrese, carabinieri. Posso farle qualche domanda?
Mi
stringo nelle spalle: – Visto che è qui…
China
la testa in un silenzioso atto di cortesia ed entra. Accosta la porta
alle proprie spalle senza chiuderla. – Soltanto un paio di domande…
– Non conclude la frase ma ha già risolto il caso come «idiota
incidente domestico» e tutto quello che segue è fatale routine. –
Sa se aveva ospiti ieri sera, il signor Piatti?
Non
voglio essere coinvolta in questa storia. Non ho ancora nemmeno
deciso se devo sentirmi addolorata o meno. In ogni caso una domanda
cretina se ignori completamente i miei rapporti con «il Piatti». Lo
guardo sgranando gli occhi. Un po' ridicolo per una donna che si
avvicina ai quaranta ma che fa sempre – o dovrei dire ancora – il
suo effetto. – No, non lo so. – ammetto, presentandomi come un
po' turbata.
Il
carabiniere sorride più convinto. Ora si sente un protettore della
legge mentre io sono soltanto una (ex-)ragazza bisognosa di aiuto,
conforto, sostegno. Magari anche di una bottarella, se capita.
–
Capisco. Ha sentito voci, movimento? Gente che andava e veniva?
Mi
sorride, ma mi pare poco convinto. Un po' diffidente. Forse alla mia
età dovrei piantarla con le mossette da ragazzina. Prendo un'aria
seria e compresa: – Ma… direi che c'è stato un po' di movimento
verso le undici di ieri sera. Non posso giurare che si trattasse del
professore, non ho l'abitudine di spiare alla porta, ma direi che
verso quell'ora qualcuno se n'è andato da uno degli appartamenti. Ho
sentito i soliti saluti, «arrivederci – arrivederci – ciao –
ciao» poi il rumore di una porta che si chiude e il silenzio.
–
Colleghi? Amici?
–
Era una donna, – puntualizzo, – ma non posso giurare sia uscita
dall'appartamento di Piatti.
–
Già, ha ragione. D'altro canto… sul pianerottolo c'è qualcun
altro che…
Scuoto
la testa con decisione: – Penso di no. Nessuno di sufficientemente
mondano.
–
Sì. – Prende un appunto rapido. Poi rilegge le righe già scritte
a mezza voce: – ospiti… una donna… se n'è andata verso le
undici… prima… – Alza la testa di scatto: – Ha idea di che
cosa stesse leggendo?
Lo
guardo fingendo stupore: – No. Non lo so. Ci mancherebbe.
Lui
annuisce: – Certo. Lo stiamo chiedendo un po' in giro ma senza
avere risposta. Piatti stava leggendo una bozza, qualcosa ricevuto da
un altro scrittore, un pivello – suppongo – un novellino o un
collega.
–
Piatti leggeva spesso testi di altri. Dava consigli… che io sappia…
Ahi! Non fare vedere che ne sai così tanto della sua vita. Non far
nascere dei dubbi…
–
Ah, immagino sia stato Piatti a dirglielo, a confidarsi.
Annuisco
rigida: – Due chiacchiere in ascensore.
–
Certo, certo, – sorride, – dopo che la ragazza se n'è andata,
dopo le undici, ha più sentito qualcosa?
–
No. Assoluto silenzio. È, anzi era, un tipo silenzioso, quieto.
–
Sì, è vero. Il modo stesso di andarsene è stato molto in
carattere… – Mi guarda fisso, senza più sorridere: – È
assolutamente certa di non avere mai visto il libro che stava
leggendo?
Insiste
troppo. Qualcosa sa, temo. Nego, ma con una punta di incertezza.
Certo, so benissimo di che libro si trattava. Piatti me ne aveva
parlato: «il libro che mi ha portato quel tizio. Quello con gli
occhiali spessi, quel mezzo matto. Anzi matto completo». L'aveva già
respinto altre volte con diverse scuse ma quella volta il tipo
l'aveva preso di sorpresa. «È il delirio di killer mistico,
credo. Ma non l'ha scritto lui. Un'interminabile serie di omicidi narrati fin nei minimi particolari, interrotti da assurdità o bestialità pseudomistiche e da frasi senza
senso, nemmeno scritte in italiano. O nella grafia latina. Forse ebraica. Un libro ossessivo, direi… quasi malato. Non saprei descrivertelo
meglio…»
–
Lo sa, vero?
Stringo
le labbra: – Mi ha accennato qualcosa… un poliziesco o qualcosa
del genere.
–
Sì. – Mi guarda, serio, – ci siamo fatti una mezza idea del
rapporti che esistevano tra voi due, signora. Nulla di troppo serio o
di troppo impegnativo, certo… – si accarezza un narice con un
gesto che mi appare, non so perché, parecchio volgare, – …ma
qualcosa di reale. Il suo ex-dirimpettaio aveva una mezza passione
per la fotografia, lo sapeva? E lei viene decisamente bene, in
fotografia. – Mi guarda soddisfatto, quasi a sfidarmi. – Le ha
mai mostrato i parti del suo genio?
Sorrido
anch'io, cercando di stare al suo gioco: – Solo qualche volta. I
nostri rapporti si erano un po' raffreddati, ultimamente. Ci vedevamo
di meno. La ragazza di ieri sera è venuta per lui. Doveva essere una
dimostrazione… vabbé, non importa… ma il libro, quel libro,
perché è così importante?
–
Vuole cambiare discorso? Non è che non mi interessi più il libro,
ma abbiamo appena stabilito che voi due eravate intimi e…
–
Intimi? No, no, no. Qualche volta abbiamo mangiato insieme. O siamo
andati a letto insieme. Ma nulla di più. Non mi piaceva neppure
troppo, il signor Piatti. O forse, semplicemente, alle volte si
intuiva un po' troppo che in fondo era frocio. «Mi sono innamorato
di te/ perché non avevo niente da fare…», tutto qui.
–
Beh, ieri sera era qui con una ragazza…
–
Per ferirmi. Per dire: «ecco, non sono io che sono culattone, sei tu
che non funzioni».
Mi
guarda con una curiosa espressione, una via di mezzo tra la
commiserazione e la compassione. Pensa che Piatti mi abbia messo le
corna e che io non abbia nemmeno il coraggio di ammettere che la cosa
mi ha fatto soffrire.
–
Immagino che lei non abbia un alibi, per iersera.
Lo
fisso, nonostante tutto sorpresa: – Non sapevo si trattasse di un
omicidio. No, non ho un alibi. Ma non l'ho ucciso io, se è per
questo…
Fa
un cenno secco di diniego: – Non è stato un omicidio. Forse un
suicidio assistito.
–
Beh, io non l'ho assistito.
–
Ne sono convinto. Ma la cosa è più complicata, temo. Vorrei avere
una copia del testo che stava leggendo… Come si chiamava l'autore?
–
Non so se era l'autore. Comunque era Frigoni o Brigoni, una cosa del
genere. Credo che tenesse copia dell'indirizzo… o forse era un
biglietto?… comunque l'aveva nel suo secretaire… dio che
nome ridicolo!
–
Può essere, certo. Daremo un'occhiata nella sua scrivania –
chiamiamola così, via – e cercheremo il signor Frigoni o Brigoni.
Magari ha un'altra copia dello stesso libro. Per il momento la
ringrazio.
Chino
la testa come a dire: «non c'è problema», ma la realtà è che sto
pensando ad altro. Perché tiene così tanto a leggere il libro
portato da quell'occhialuto sfigato? Per un caso Piatti stava
leggendo proprio quello la sera della sua morte. Una bella
sfiga, a pensarci bene, anche se non credo che il libro abbia qualche
legame con la sua morte.
Il
funerale è stato una delusione. Probabile che mi aspettassi qualcosa
di più vivace o, semplicemente, una partecipazione più attiva. O,
forse, che l'editore mandasse qualcuno più importante di un banale
funzionario. C'erano un paio di scrittori: un giovane poco pettinato,
con l'aspetto di chi è appena uscito dal proprio letto ed è pronto
a ritornarci di corsa, e una donna di mezza età, azzimata e truccata
all'eccesso come una battona da strada sul viale del tramonto. I
parenti erano pochi: un tizio ordinario che potrei giurare fosse suo
fratello con una coppia di gemelli pallidi e silenziosi come
altrettanti fidanzati della morte. E due anziani mogi, i genitori, ho
immaginato. Poi c'era Calabrese, praticamente impossibile da
distinguere dai necrofori vestiti in grigio.
Al
termine della cerimonia – una breve sosta davanti a un forno
crematorio attendendo che il corpo mortale di Piatti s'incenerisse
ulteriormente – Calabrese mi attendeva accanto alla mia auto,
parcheggiata a duecento metri dall'ingresso del cimitero.
Non
è una bella giornata. Inizio di primavera, luminoso ma freddo e
battuto da un vento incerto e volubile dal quale è impossibile
difendersi. Rimpiango di non aver indossato la maglia a collo alto
mentre sollevo il collo del cappotto.
–
Ancora freddo, no?
Lo
guardo senza sorridere. Gli mancano soltanto un paio di baffetti
sottili per sembrare il braccio destro del capo di una cosca. –
Infatti, – gli concedo, – ha ancora bisogno di chiedermi qualcosa
o…
Alza
una mano con un mezzo sorriso: – Per carità, per carità. È
soltanto perché poi con Brighenti, si chiamava così, non sono
riuscito a parlare.
Estraggo
la chiave della macchina dalla borsa, tanto per fargli capire che di
non-notizie come quella non ho bisogno. Non solo: ho fretta di
tornare a casa.
–
No, aspetti. La cosa interessante non è questa. Il fatto è che
Brighenti è morto. La stessa sera, nello stesso modo e penso alla
stessa ora che… Capisce?
Mi
stringerei nelle spalle: questo genere di notizie stile «Voyager»
non mi hanno mai stupito particolarmente. Ma non mi viene. In realtà
debbo ammettere che la cosa mi ha colpito.
Calabrese
se ne dev'essere accorto perché insiste: – Bruciato. Brighenti era
a letto, a quell'ora. Stava leggendo, penso, seduto perché soffriva
di una malattia alla gola per cui non poteva sdraiarsi. Chiunque
potrebbe avanzare il dubbio che stesse fumando e che si sia
addormentato con la cicca accesa in mano.
–
Un altro idiota, così a occhio.
–
Sì, si potrebbe anche supporre sia andata così. Ma non è
possibile. Il problema è che Brighenti non fumava. Nessuno è
riuscito a trovare una spiegazione ragionevole al rogo. Stava
leggendo, ma del libro non è rimasto granché. Fatto sta che il caso
di Brighenti non è ancora chiuso, anche se necessariamente lo sarà,
e l'unico elemento curioso, o forse misterioso, è l'altro caso
simile accaduto la stessa sera, quello di Piatti.
–
Stavano leggendo lo stesso libro?
Non
so come mi sia venuto in mente, ma capisco di aver fatto centro.
Calabrese annuisce con un movimento esagerato: – Proprio così. Il
frontespizio del libro è bruciato completamente ma qualche pagina è
parzialmente scampata e confrontandole con i frammenti trovati
addosso a Piatti è venuto fuori che con ogni probabilità si
trattava dello stesso libro. Vi sono alcuni curiosi caratteri nel
testo, forse ebraici. Qualcosa che non mi sarei atteso… – Si
stringe nelle spalle, – ovviamente non si tratta di un'indagine
ufficiale. La morte di Piatti è stata archiviata come incidente
casalingo, ma non è escluso che riesca a ottenere una riapertura del
caso.
Annuisco.
Non mi entusiasma che il caso venga riaperto. Non ho voglia di
deporre: «sì, avevo una relazione con il signor Piatti». Ma c'è
qualcosa che mi spaventa in tutta quella storia. – Che genere di
libro era? L'ha capito?
–
Un manoscritto, ma non era di Brighenti, come forse vi era parso…
–
No, non era suo. Brighenti non mi era simpatico e meno ancora lo era
al povero Piatti, che non riusciva a liberarsi di lui e del libro.
Secondo Brighenti si trattava di un documento eccezionale, unico. Per
Bruno, Bruno Piatti, era una serie interminabile di perversi omicidi
intervallati da considerazioni assurde. Il frutto di una mente
malata, scritto senza preoccuparsi minimamente dell'eventuale
lettore. L'autore era un folle, secondo lui. E non era uno facile
nell'attribuire titoli al prossimo.
–
Il libro, o ciò che ne resta, non ha nomi o qualcosa che permetta di
capire chi ne è l'autore. D'altro canto… – tace cercando le
parole, lo sguardo perso a terra, in un punto tra la mia ruota e
quella anteriore dell'auto precedente. – …D'altro canto, dicevo,
non è possibile – o forse non è ancora possibile –
pensare che esista un legame tra il soggetto del libro e la morte dei
suoi lettori. Non è vero?
Un
brivido, inaspettato e inatteso.
Improvvisamente
non ho più voglia di ritornare a casa da sola.
Passano
alcuni giorni prima di risentire la voce di Calabrese.
Giorni
tranquilli, fin troppo. Sono venuti quelli del gruppo immobiliare a
mostrare l'appartamento di Piatti, ridipinto e restaurato, a tre o
quattro interessati. Li ho spiati attraverso l'occhio magico della
porta. Curiosamente, aspettavo sempre che da un momento all'altro
saltasse fuori Piatti. Mi manca forse? Non so, non direi, ma ne sono
troppo sicura. Fatto sta che sono contenta riconoscendo la voce del
graduato dei carabinieri attraverso il citofono.
–
Salga! – grido vivacemente.
–
Buongiorno – la voce di Calabrese è più bassa di un'ottava. E
stonata. Se ne sta sulla porta infilato in un vecchio impermeabile
troppo grande per lui.
–
…ma?
–
Lo so, lo so, non sono troppo in forma. Sono a riposo in questo
periodo. Anzi, devo dire che mi hanno sospeso.
–
Ma non stia lì sulla porta, entri.
Scuote
il capo: – Non sono qui, ufficialmente. Nella mia attuale
situazione non posso fare nulla di ufficiale, onestamente. Meno che
mai andare in giro a disturbare amici e parenti dei morti di recente.
Ma ho le mie ragioni. come immaginerà. – Guarda dietro di sè per
un attimo, con la fretta un po' allarmante di un'abitudine appresa da
poco. – Ci sono state altre morti come… come quella di Piatti. Ha
ricevuto di recente pacchi o avvisi di consegna?
–
Sì, certo. Un attimo solo che… – mi allontano dalla porta per
arrivare fino alla cucina. Urlo: – davvero non vuole entrare? –
Ricevo una strana risposta, un suono simile a profondo gorgoglio che
nessuno, io per prima, avrebbe attribuito a un essere umano. Esito
per un istante, poi afferrò il foglietto giallo della posta e corro
alla porta temendo se ne sia andato.
No,
non se n'era andato, è sempre lì. Qualsiasi cosa sia
diventato.
Stamattina
ho spazzolato i capelli. Quelli bianchi sono la netta maggioranza,
ormai. Si spezzano e cadono nel lavabo. Se chiudo gli occhi lo
rivedo. La fiamma trasparente che sale dagli abiti e dalla bocca, gli
occhi bianchi rovesciati, la testa voltata all'indietro come quella
di un gufo o di un barbagianni. E il suono, quel cupo gorgoglio che
sembra arrivare da un altro, irraggiungibile luogo.
I
carabinieri hanno constatato la morte. Che altro avrebbero potuto
fare?
Gli
hanno trovato addosso frammenti del libro, anzi dei libri. Calabrese
li portava sempre con sè per paura di perderli o di chissà
cos'altro. Deve averli letti e riletti fino a impararli a memoria.
Poi devono essere arrivate le visioni. La sensazione di essere
cercato, chiamato, inseguito. Ci sono stati altri casi, ultimamente.
Secondo Calabrese altra gente ha ricevuto il libro – quel libro –
ed è morta, arsa viva, in casa. Nessuno azzarda ipotesi, che io
sappia, o anche soltanto a parlare di un piano. Eppure è difficile
dire che non si tratta di un progetto. Un antico progetto che
lentamente diviene realtà.
La
ricevuta del pacco che mi aspetta alla posta è sempre lì, attaccata
dalla bacheca della cucina. Momentaneamente inoffensiva. Il luogo di
partenza sembra «Savona», ma, mal scarabocchiato com'è, si potrebbe
anche leggere Sheol.
Teoricamente
io non conosco nessuno, né da una parte né, spero, dall'altra.
Ma
potrei sbagliarmi.
In
fondo anche Piatti si è sbagliato, e altri come lui.
Se
devo ricevere il libro, in qualche modo mi sarà consegnato.
E
non potrò fare a meno di leggerlo. Di appassionarmi, inorridire,
ardere – letteralmente – leggendolo.
Lentamente
il contagio cresce e ci consuma.
Qualcosa di antico si è risvegliato e un libro attende ognuno di noi. Per leggerlo e perdere per sempre le parole, l'immaginazione e la vita.
Siamo
tutti sotto giudizio.
Giudicati.
E
condannati.
2 commenti:
Mai accettare regali per posta! Bello, Max, lo ricordavo ma a rileggerlo è meglio. In fondo lo sappiamo tutti che leggere fa male e i libri sono uno strumento del diavolo. Buona pasqua e moltissimi smack.
@Consolata: non so da dove mi sia venuta questa idea assurda di un'apocalisse che arriva per posta... D'altro canto il problema è la quantità di morti dei quali per millanta motivi non siamo informati. Prima di accorgerici davvero di un massacro potrebbero passare mesi... Un'apocalisse, poi, che riguarda soltanto i lettori mi sembra davvero il massimo dell'orrore. Grazie del commento e tantissimi auguri!!!
Posta un commento