Nuova puntata del (poco) famoso M.A.d.u.L.p., questa volta dedicato a un tipo peculiare di cliente e all'ontologia della sua esistenza.
N.B: nel corso di questa puntata delle Memorie verranno emessi giudizi e commenti piuttosto liquidatori nei confronti di titoli e autori piuttosto noti.
Astenersi Anime Belle.
Una libreria esiste in quanto raccoglie un certo numero di soggetti interessati all’acquisto di libri. I clienti.
Ogni
libreria ha i propri clienti. Spesso si può anche affermare che la
libreria ha i clienti che si merita. Detto così può sembrare
persino denigratorio ma non (necessariamente) lo è.
Ma
quale libreria? Che tipo di libreria? Private, di catena, piccole,
grandi?
Cominciamo
dalle librerie di catena che ultimamente sembrano il massimo. Sono,
per forza di cose, più anonime. Per alcuni si tratta di una garanzia
di tranquillità e privacy rispettata. «Mi arrangio, cerco il
mio libro, pago e me ne vado. Niente domande, niente “Posso esserle
utile?”, niente terzo grado su gusti e/o interessi». Confesso
sinceramente che se non facessi parte della categoria di quelli che
stanno dall’altra parte del banco mi servirei più volentieri di
questo genere di librerie. Non mi piacciono le domande e considero un
disturbatore chiunque voglia indagare – anche a fin di bene –
sulle mie letture. Senza contare il rischio di ricevere un consiglio
assolutamente e anonimamente standard, tipo: «C’è l’ultimo
libro di Gervaso» o «È appena arrivato il nuovo libro di Bruno
Vespa». Vade retro!
Anonime
perché frequentate da un pubblico anonimo e frettoloso ma anche da
chi non ama avere il libraio tra i piedi. Anonimo non significa,
quindi, per forza «brutto» ma semplicemente meno personalizzato.
Passa
molta, moltissima gente nelle librerie di catena. Ovvio, sono sempre
ubicate in luoghi commercialmente vantaggiosi (questo è il motivo
per cui non esistono librerie di catena in via Ormea, a Torino, per
esempio), ossia in luoghi «di passaggio». Da qui la distinzione
attuata dagli uffici commerciali degli editori e dei distributori tra
«librerie di passaggio» e «librerie di catalogo». Non è
difficile per nessuno immaginare quale delle due categorie risulti
redditizia o quantomeno economicamente solida.
E
qui c’è l’inciso. Non si scappa.
Questa
distinzione non è sempre così ben afferrata dai frequentatori delle
librerie. Così c’è chi va a cercare un saggio sulla tragedia
greca di Vidal-Naquet in una Feltrinelli Village, ricevendone in
cambio sguardi smarriti: «Abbiamo Io uccido di Giorgio
Faletti, però!» e c’è chi entra in una libreria antiquaria
cercando biglietti dell’autobus o raccolte di barzellette. Casi
limite, certo, ma indicativi: sono in molti a credere che una
libreria in quanto libreria abbia tutto o quasi e non pochi
di questi molti sono altrettanto pronti ad adontarsi se gli
viene rivelato che un libro del 1978 non è più in commercio. Ciò
che il lettore medio ignora è il numero di titoli che annualmente
vengono prodotti. Più di cinquantacinquemila, dei quali poco meno di
quarantamila titoli nuovi. Anche sfrondando questo numero a cinque
cifre di raccolte di poesie pagate dall’autore e pubblicazioni a
circolazione locale o professionale, il numero di titoli nuovi che
una libreria dovrebbe acquistare per essere fornita è semplicemente
terrificante. Anche tenendo conto che una libreria degna deve avere
sempre disponibili comunque autori come Calvino, Pirandello, Russell,
Cartesio o Einstein, che novità non sono. Qualunque libreria, in
sostanza, sceglie. Sceglie che cosa interessa tenere e rifornire e
che cosa non interessa tenere né eccetera. E qui si torna a bomba
alla selezione del cliente. La libreria seleziona il cliente nello
stesso modo nel quale il cliente seleziona la libreria.
Ovviamente
questo è tanto più vero quanto meno la libreria è di passaggio.
Una libreria «di passaggio» deve preoccuparsi molto della rotazione
dei titoli, perché lo spazio costa e deve essere meticolosamente
sfruttato al meglio. Le librerie di catena giungono a raffinatissimi
artifici in proposito, selezionando tra i titoli da tenere di un dato
argomento – che so, la magia dei templari – i tre titoli a più
alta rotazione nei magazzini editoriali.
Inciso.
Certo
che così finisce che tutti hanno gli stessi libri e nessuno ha il
quarto o il quinto o il sestultimo nella classifica degli indici di
rotazione. Ma questo interessa a pochi: qui si parla di soldi, non di
cultura. Per la cultura ci sono le biblioteche, perlomeno finché
esisteranno nella loro forma attuale. E le librerie «di catalogo».
Chi
pubblicherà poi i libri che dichiaratamente partono senza
l’aspirazione a essere best-seller non si sa e non interessa
nessuno. E non soltanto in Italia, il belpaese dove giornalisti e
saggisti scompaiono dalla televisione da un giorno all’altro senza
che molti insigni commentatori, di quelli che amano autodefinirsi
«liberali», diano segno di essersene accorti. Ma questo non è
nemmeno un inciso, è proprio un altro discorso e non mi sembra il
caso di…
Ma
queste sono memorie e come tali devono essere fatte di ricordi
personali. In questo caso timori e tremori.
Si
parlava di clienti. Desiderati, scelti e subiti.
Ci
sono clienti che incarnano l’incubo per chiunque venda libri.
Incubi
ricorrenti o, se si preferisce, ritornanti.
Farò
una sorta di identikit, provando a giustapporre le
caratteristiche più nefaste per creare il mostro dei mostri: il
C.N., ovvero il Cliente Nefando.
Trattandosi
di un identikit immaginario e intrinsecamente autocontradditorio è
possibile che qualcuno si riconosca in almeno una delle
caratteristiche presentate. Non è strano: tutti, almeno una volta
nella vita, sono stati almeno per un attimo C.c.N.n., compreso
probabilmente il sottoscritto anche se in tempi ormai abbastanza
remoti.
Con
il tempo e l’esperienza è possibile riconoscere il Cliente Nefando
già al momento dell’ingresso in libreria. In questi casi è
possibile tentare la fuga lasciando il problema a qualcun altro.
L’esperienza del lavoro in libreria è fatta anche di questo.
Il
Cliente Nefando è esitante ma nervoso, frettoloso ma sfaccendato,
spesso dotto ma meno colto di quanto immagina, specializzato ma
incostante. È quieto ma tendenzialmente rissoso, apodittico ma
distratto, assertivo ma falsamente umile. Percorre tavoli e scaffali
con il passo accelerato di chi è deluso in partenza, sposta, tocca,
muove, sbircia, scartabella e compulsa con una punta di impazienza.
Tipcamente il cliente nefando cambia umore e intenzioni in base a
motivi inafferrabili. Può richiedere l’opera omnia
di un autore poco noto, attendere nervosamente che l’elenco prenda
la forma di una piletta di volumi – o più spesso di un elenco
cartaceo – per poi perdere improvvisamente interesse, sibilare un:
«ma lasci perdere» e ronzare via come un moscone irritato. Se vuole
regalare un romanzo vorrebbe distinguersi ma non trova di che e
diffida di consigli e suggerimenti che rigetta ostentando disgusto,
anche se li sollecita con ansia nervosa.
Qualunque
creatura sana di mente in capo a cinque minuti vorrebbe strangolare
il Cliente Nefando e sistemarne il cadavere in una scatola di volumi
resi. Ma oltre che moralmente riprovevole l’azione sarebbe inutile:
la salma non verrebbe accreditata e ritornebbe in libreria dopo un
paio di mesi.
Non
raramente il Cliente Nefando insinua che sia la libreria a essere
sfornita dei libri che davvero avrebbero fatto al caso suo. E che
altre l’avrebbero servito molto meglio. Inutile illudersi: la
stessa scena con le medesime parole l’ha già fatta in altre
librerie e non prelude all’abbandono del campo, serve soltanto a
confermare nel C.N. il suo elevatissimo amor proprio.
Nessuno
è capace di essere franco con lui e chiedergli, semplicemente e
pianamente: «Ma lei che cosa vuole?» Nemmeno io, che pure ho ormai
una bella esperienza (un modo più accettabile per denunciare la
propria età), so come comportarmi con il C.N. Blandirlo? Sfidarlo?
Umiliarmi? Ignorarlo ostentatamente? Semplicemente schiaffeggiarlo
senza dire una parola? E poi, qual è lo scopo recondito dei
C.c.N.n.? Perché esistono?
Il
rapporto con i libri degli italiani è contorto e irrazionale.
Irrazionale
nei forti lettori che acquistano a distanza di un paio di mesi un
libro già acquistato e non ancora letto semplicemente per bulimia,
irrazionale nei lettori episodici che cercano soltanto storie che
finiscano bene, dove non ci sia troppa violenza e dove i personaggi
siano simpatici. Irrazionale quando l’essere lettori abituali
acquista lo spessore di status, induce e incita a piccoli snobismi e
diviene il biglietto d’ingresso all’immaginario Parnaso dei
raffinati e dei delicati in un paese di deboli e debolissimi lettori.
Irrazionale quando il proprio gusto personale rischia di diventare il
grimaldello che apre tutte le porte, rischio che è insito nella
lettura e nel discuterne ma che dovrebbe essere mantenuto a freno…
L’investimento
emotivo nel libro è spesso, se non sempre, molto elevato. Il libro
di narrativa è per molti un viatico a qualcosa di indefinito, una
porta da aprire che può condurre a nuovi pensieri o, più
semplicemente, a un modesto ma gradevole viaggio. Un libro è
prezioso – caratteristica curiosa che il libro condivide con i
dischi e i film – in base al valore potenziale che gli attribuiamo,
valore che non si identifica con quello del denaro speso per
possederlo. Tanto è vero che io stesso, lettore semi-abusivo che
paga la lettura con il lavoro, non riesco ad abituarmi ai libri
deludenti, ai bidoni, ai libri nati dal tentativo di aderire a una
tendenza piuttosto che dal tentativo di essere loro stessi tendenza.
Inciso:
da quando il mediocre volumetto di Melissappì, Cento colpi di
spazzola, ha avuto un insperato (dall’editore) successo presso
adolescenti, post-adolescenti e adulti curiosi, i libri e i
libretti opera di sedicenti sedicenni (?) confuse, disperate e
vogliose sono diventati folla. La cosa finirà, come è stato per
tutte le tendenze, con parecchie delusioni e grosse quantità di
rese. D’altro canto azzeccare un libro è raro e accodarsi a
qualcuno è più facile che guidare nella nebbia…
Non
riesco ad abituarmi, dicevo.
In
effetti, siccome un libraio ha comunque una sola vita e, nonostante
le apparenze, in libreria può soltanto sbirciare e leggiucchiare,
una lettura deludente o più raramente nefasta (tre esempi personali
scelti tra molti: Anima mundi di Susanna Tamaro, Branchie
di Niccolò Ammaniti, City di Alessandro Baricco) costituisce
un furto con destrezza di tempo e di vita, del quale ci si consola,
generalmente, allineando (pateticamente) riflessioni sui tempi e i
costumi – O tempora, o mores! – che questo genere di
letture suscitano.
Ma
se…
Ma
se persino io, o i miei colleghi, siamo sovente vittime di letture
inadeguate, francamente frustranti o nella migliore delle ipotesi
inutili, quante possibilità ha il cliente medio di non scialacquare
il proprio denaro e, forse peggio ancora, il proprio tempo?
Perché
esistono i C.c.N.n.?, mi chiedevo qualche decina di righe fa.
Beh, forse è sufficiente un po’ di immaginazione per rispondere a
questa domanda. Un C.N. germina da tratti personali: piccoli
snobismi, ansia da prestazione, esibizionismo e timore di apparire
inadeguati. Ma anche da frustrazione, delusione, senso di insicurezza
e di insoddisfazione. Un mix micidiale che una produzione
indiscriminata e soprattutto indiscriminante1
rende definitivamente tossico.
Insomma,
forse il C.N. non ha tutta la colpa dell’apparire così.
Le
delusioni d’amore rendono acidi e diffidenti, diceva mia nonna.
Le
delusioni di lettura rendono C.N.
Fine
di questa puntata.
La
prossima sarà sull’editoria universitaria medico-scientifica di
qualche anno fa e sui personaggi che l’affollavano. Sarà una
puntata altamente istruttiva dedicata all’Italian way of
business.
Che poi uno si stupisce che Berlusconi abbia vinto le elezioni…
Che poi uno si stupisce che Berlusconi abbia vinto le elezioni…
Mi
accorgo ora che ho parlato di clienti mentre avevo promesso di
parlare di sconti. Beh, se LN continua nonostante tutto a uscire ne
parlerò, giuro.
Ma
senza impegno.
Insomma,
potete aspettarvi qualsiasi cosa.
1
A chi nutre perplessità sulla
scientificità di questo assunto consiglio una prova: per un paio
d’anni leggere esclusivamente
i titoli che appaiono nelle classifiche di vendita. Alla fine
dell’esperimento se sarete diventati soltanto C.C.N.N. e non
analfabeti di ritorno potrete ritenervi fortunati.
2 commenti:
Vedere la lista dei libri più venduti in Italia è sempre un duro trauma. Ogni settimana io la leggo su questo blog (http://preferiscoleggere.blogspot.it) e ogni settimana puntualmente mi chiedo dove andremo a finire. Finora non ho trovato risposta.
Io amo leggere i classici oppure i libri di esordienti, quindi non sono molto informata sulle tendenze moderne. Qualche anno fa ho letto "Tre metri sopra il cielo" per pura curiosità... sono quegli errori molto formativi che ti fanno capire che il tempo è prezioso! Parere personale, ovviamente, non vorrei essere presa d'assalto da un gruppo di fan di Moccia.
@Romina: io mi astengo dal leggere le classifiche. Lo facevo già quando lavoravo in libreria. Non dico che siano tutte balle - non vorrei creare false illusioni - ma certamente non sono assolutamente veritiere. È bene comunque ricordare che ciò che ha un peso statistico è determinato dal movimento di quel 30% di deboli lettori (da 3 a 11 libri/anno) che abbocca allegramente alle stupidaggini pompate dalla TV. Chi compra l'ultima Litizzetto, l'ultimo De Carlo e l'ultimo Vespa costituisce un campione statistico ma nulla di più. Quanto ai fan di Moccia - sfornatore di pizze precotte e predigerite - credo che siano felicemente scomparsi: invecchiati, intristiti e disperati.
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