Seconda puntata delle mie rinunciabili memorie anticipate, questa volta dedicata a un mito ultimamente piuttosto appannato, la VENDIBILITA'.
Chiedo scusa per il ritardo nell'uscita che fatalmente sposta in avanti l'appuntamento domenicale con la musica, ma in questo week-end ero in montagna e - come ormai saprete a menadito - in montagna ho qualche problema di connessione. Cionostante, buona lettura a tutti.
Vendibilità.
Una
parola e un feticcio.
Automaticamente
mi richiama alla mente un altro concetto-chiave: la visibilità.
Vendibilità
e visibilità: in comune hanno la lettera iniziale e l’-ibilità
finale. Per il resto, nebbia. Procedono per strade separate, spesso
sono grandezze inversamente proporzionali, come si dice nelle medie,
ma il più delle volte ubbidiscono a leggi, norme e comportamenti che
ci vorrebbe un altro Andrew Wiles – l’uomo che ha risolto il
mistero del teorema di Fermat – per illuminarci tutti, librai ed
editori. Particolarmente gli editori. A me (che non sono il professor
Wiles) non resta che enumerare fenomeni e descrivere processi, nella
speranza che magicamente emerga un filo che li unisca e li
giustifichi.
Un
libro ad alta vendibilità è il libro di un autore che ha già
venduto molte copie dei suoi libri precedenti. Assiomatico.
Assiomatico ma transitorio. Qualcuno ricorda Volevo i pantaloni
e la sua autrice? Bene. Qualcuno ricorda il titolo del suo secondo
libro? E del suo terzo? Nemmeno io, soprattutto del terzo che non
sono nemmeno certo sia uscito. E che dire di Siuxsie Tamaro passata
dagli -oni di copie del suo Va’ dove ti porta eccetera alle
-gliaia di copie della sua ultima fatica. Fatica non sua ma dei
lettori, si suppone. O del buon Brizzi, passato da fenomeno a brocco
con una velocità da Ronaldo, o persino del bel Baricco in felice
volo planato verso i venduti dei suoi parodiatori (Senza sugo,
di Leandro Barocco, per esempio). I venduti in libreria, sia chiaro,
non i venduti alle librerie.
Ed
ecco l’inciso.
Copie Vendute e copie vendute sono categorie diverse. Le prime sono quelle
che l’editore ha rifilato con le buone o con le cattive alle
librerie. Le seconde sono quelle che l’omino o la dama hanno
acquistato in libreria (o al supermercato, o dove pare a voi),
pagandole o magari sgraffignandole (che poi per l’editore è sempre
sell-out).
Così
quando leggete: «100.000 copie vendute in una settimana!!!»,
chiedetevi, come fa qualsiasi libraio: vendute o vendute?
Fine
dell’inciso.
Si
parlava di autori affermati e di repliche andate deserte.
Il
mondo editoriale è pieno di esempi del genere, tanto che il nostro
primo assunto non risulta più tanto assiomatico. Per il libraio,
comunque, l’apodissi dell’editore («Ha venduto quindi venderà»)
è scritta su lastre di pietra. Il libraio in questo caso punta sulla
sicurezza (o si illude di farlo). Come insegna Murphy, patrono del
mondo editoriale: «Se ne hai comprati pochi li finirai subito, se ne
hai comprati troppi non li venderai mai».
La
vendibilità è una chimera, una prerogativa che si constata quasi
sempre a posteriori, anche se fior di editori la ritengono un bollino
o una fascetta agevolmente applicabili a una copertina. La
vendibilità come l’audience: una ricetta che si studia a
tavolino e che fatalmente funzionerà. Troppo fatalmente…
Maurizio Crozza imita Zichichi |
Ma
non esiste un solo tipo di vendibilità. C’è la «vendibilità di
nicchia» [C] (una biografia di Enrico Fermi o un feroce pamphlet su
Zichichi in vetrina davanti all’ingresso della facoltà di fisica),
la «vendibilità buona» [B] ma comunque limitata dall’argomento
(narrativa di genere, reportage contro Bush, Berlusconi, i partigiani
o Walt Disney, libri sui dischi volanti), e la chimerica,
inafferrabile «vendibilità al vasto pubblico» [A]. Il vasto
pubblico (una volta si diceva il pubblico popolare) è difficile da
acchiappare, è volubile e capriccioso. Inoltre buona parte del vasto
pubblico sa leggere nel senso che distingue agevolmente le vocali
dalle consonanti ma non molto di più. Quindi le barzellette su Totti
sono effettivamente un buon esempio di libro ad alta vendibilità.
Beh… libro… diciamo prodotto ad alta vendibilità.
Gran
parte dei problemi nascono quando un editore cerca di convincere il
libraio che un libro B (ad esempio: un giallo di tema sado-maso-lesbo
ambientato in un convento alla Giamaica) è perfettamente adatto al
vasta pubblico e che sarà venduto a carrettate. Venduto, non
venduto, pensa il libraio. Usciranno recensioni, l’autore verrà in
Italia e sarà ubiquo, l’editore farà un grosso (grosso, parola
indefinita e nebulosa che si pretende efficacissima) sforzo di
promozione. Un grosso sforzo di promozione (la frase viene
sempre ripetuta in questi casi).
Vengono
estratte fotocopie di pagine di giornale scritte in sei lingue
diverse. Un paio – s’intuisce – parlano dell’autore, ma forse
solo per dire che è stato malmenato da un gruppo di teppisti o che
ha rubato in un supermercato, mentre le altre, scritte in svedese,
finlandese, olandese e russo potrebbero in realtà parlare di
qualsiasi altra cosa.
Il
libraio considera con fastidio tutto l’ambaradàn, fiutando il
bidone ma anche temendo di restare senza libro al secondo giorno,
come da legge di Murphy.
Pencola
come un lampadario durante un terremoto, il libraio. Compro? Quanto
compro? N copie? Cosiiiiiiiiiì poche?, sibila il venditore. Se si
insiste sulle poche il venditore comincia a piangere miseria, a dire
che non riesce a vendere da nessuna parte e l’editore gliela farà
pagare, che il libro vale, vale davvero, che ha conosciuto l’autore
e che è una brava persona, che lui, il venditore, ha dodici figli e
non uno come tutti credono. La trattativa si prolunga, si fa
imbarazzante, Il libraio compra. Più di quanto voleva e meno di
quanto temeva. Il venditore ha l’aria del gatto che ha mangiato il
pesce rosso, ma affetta tristezza: «Se va male me ne prenderò in
resa di quelle tante…», dice, dimenticandosi di aver affermato
poco prima che nessuno glielo voleva comprare.
Due
mesi dopo, quando il libraio ha dimenticato tutto vede arrivargli le
famose N+N copie. Sgomento, incertezza: «perché ho ordinato ‘stà
kzzt?», chiede a se stesso. Poi lentamente ricorda. Apre una pagina
del libro, la legge: non gli piace. Edifica un piccolo tumulo di
copie arrivate su un tavolo della libreria, erige il cartellone o
impavesa il sagomone (si chiama così, giuro) e poi aspetta l’assalto
del popolo festante. Che non avviene.
Non
avviene.
Non
avviene.
Non
avviene.
Passa
il venditore: «Com’è che questo qui…», dice il libraio. «Ah,
non va bene? Eh… (due possibilità): (1) … strano, sta andando
dappertutto… (2) … lo so, lo so, vuol dire che me lo renderai…
Inciso.
Rendere un libro invenduto vuol dire, praticamente rimetterci un 5%
del suo prezzo di copertina. 2,5%-3% di porto/imballo a carico del
libraio all’arrivo, idem di porto di per rimandarlo al magazzino
dell’editore. Insomma, nemmeno gli acrobati sono contenti di
cascare nella rete. Se non ci fosse sarebbe peggio, come no, però,
però…
Il
libro aveva vendibilità, gli è stata data visibilità (per via
dell’investimento) e l’ingrato continua a farsi ignorare. Qui le
due famose V hanno lavorato in apparenza per andare nella stessa
direzione.
We
are on the road to nowhere, cantavano i Talking Heads.
E
il «grosso sforzo»? Mah. Forse c’è stato, forse no, il libraio
non saprebbe dirlo. Probabilmente è passato inosservato. «L’autore
in Italia» qualcuno se l’è filato? Mah?
«Il
libro ha avuto un sell-out insufficiente perché ha avuto poca
visibilità nei media e in libreria», dirà, se lo dirà, l’editore.
E via con un altro B che vuole essere promosso in A.
E
poi ci sono i libri che (sembrano) scoppiare in mano. Come i 100
colpi di spazzola che molti avevano sottovalutato (io compreso, e
non me ne pento) anche se esclusivamente dal punto di vista della
vendibilità. Per quelli da un certo momento in poi non c’è
problema di visibilità. Si vendono e basta. I 100 colpi, gli inviti
ad andare dove ti porta il cuore, i Jack Frusciante che escono dal
gruppo.
Sono
i lettori a sancirne il successo, a torto o a ragione. E da fenomeni
letterari trapassano a fenomeni socioculturali.
Ma
è davvero importante la visibilità?
La
visibilità in libreria?
Un
paio di decenni di mestiere mi hanno insegnato che:
– L’unica
visibilità che funziona è quella alla cassa e negli immediati
dintorni[1]. A dieci metri dalla cassa per essere davvero visibile un
libro dovrebbe essere issato su un altare. A venti metri sull’antenna
di un ripetitore, a trenta… a trenta nulla: non ci sono librerie
con stanze lunghe trenta metri.
– Gli
esseri umani, come tutte le creature viventi, percepiscono in maniera
altamente selettiva. E il criterio di selettività è inconscio.
Probabilmente per progettare la copertina di un libro servirebbero
etologi piuttosto che cover designers (termine del tutto
inventato).
– Escono
troppi titoli. Ma quelli dei piccoli e medi editori senza entrature
in TV e nei media hanno davvero bisogno di visibilità. Solo che il
libraio nel loro caso si sente meno impegnato dalle dimensioni
dell’investimento, rilassato per via delle condizioni di pagamento
migliori e per la maggiore praticabilità della resa. E poi ne sa
poco, di quei libri lì. Non ha letto recensioni sull’autore
algerino o mozambicano tradotti o sull’esordiente italico. Anche i
librai vanno di recensioni. E chi ha tempo per leggere? Quindi via, a
rendere visibili per quel poco che si può i libri che s’immagina
siano i più vendibili. Se poi è vero che. Un loop senza vie
d’uscita.
We
are on the road to nowhere…
Alla
prossima. Parleremo di sconti.
Forse.
1
Esiste anche l’editore-Tafazzi, quello che ama
nascondere i suoi libri, camuffarli, renderli inosservabili. Esempio
(da una nota personale):
«oggi
19/9/03 è arrivato un libro di ****, Storia d’Europa di Norman
Davies. Due volumi ermeticamente chiusi nel cellophan e sepolti in
una custodia nera priva di scritte o contrassegni. Caratteri in costa
lillipuziani. Come esporlo? Come far nascere in qualcuno il desiderio
di acquistarlo? Manca solo la scritta in bianco su nero “Non
comprate questo libro” o “Non comprate assolutamente questo
libro”. Alla faccia della visibilità».
4 commenti:
Mi sono immaginato il venditore come un piazzista con il suo carico di enciclopedie. O di temperini. Grazie infinite per gli squarci di libromestiere che ci proponi. Non scherzo se dico che è illuminante, perché uno dal "di qua" non ha proprio idea di come funzioni il mestiere di libraio e magari ne ha un'idea personale e pregiudiziale. Come, per esempio, chi commenta la chiusura di una libreria con "avrà chiuso e riaperto, per non pagare le tasse". Giuro che l'ho sentito dire con le mie orecchie!
@SX: non mi stupisco. Molta gente è convinta che sia sufficiente "avere un negozio" per far soldi a palate, indipendentemente dal luogo dove risiede l'esercizio e dal tipo di merce trattata. Diciamo che dove la gente non arriva per conoscenza, può fantasticare, mossa da una piccola e livida invidia. I libri sono comunque un bene che richiede una fatica inimmaginabile per essere venduti, con orari di lavoro che vanno dalle 10 alle 14 ore al giorno. E scordandosi i sabati e le domeniche.
Io i miei libri li vendo facendomi un po' da promoter. Non ho a che fare con i librai, ma con la gente. Ne tengo sempre qualcuno in borsa, nel caso qualcuno mi chieda informazioni (però difficilmente sono io a proporre di acquistare il libro).
Nonostante questo, ho pochissima visibilità e una vendibilità molto bassa perché sono solo una giovane scrittrice sconosciuta.
Trovo però molto triste quando la cultura diviene merce di scambio e all'apice delle classifiche si leggono titoli che non hanno alcuna ragione di starsene lì.
@Romina: la visibilità è un bene che conquistano gli editori per proprio conto e al quale gli autori sono chiamati partecipando a incontri, rilasciando interviste, tenendo un blog e facendo altre millanta cose e cosucce per autopromuoversi, promuovendo così anche l'editore. Il lavoro delle scrittore, in realtà, ha poco a che vedere con lo scrivere, ma è innanzitutto un lavoro di contatti sociali. Questo indipendentemente dalla qualità della produzione autoriale. Il sogno degli editori sarebbe quello di poter muovere finti scrittori avendo una pattuglia di «negri» che scrivono. Ciò che puntualmente accade con gli autori più noti e celebrati.
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