Questo racconto non è mai stato pubblicato.
Semplicemente perché era un filino troppo lungo per LN e troppo breve o forse non abbastanza fantastico per ALIA. O anche, semplicemente, perché non mi ricordavo più nemmeno di averlo scritto.
Può capitare.
È nato per esemplificare l'assunto che il vero fantastico nasce dall'equilibrio perfetto tra il reale e il meraviglioso - come sostiene Todorov - e che quindi un racconto fantastico non deve fornire una spiegazione aderente a ciò che vi avviene ma rimandare a un quadro più ampio dove sia possibile avanzare un'interpretazione che non possa però essere in alcun modo provata.
Mi rendo conto che non si può scrivere un racconto per illustrare una convinzione o dichiarare un assioma, meno che mai in campo narrativo. Ed è probabilmente questo il motivo per il quale Una vecchia giga non ha mai trovato una pubblicazione.
Riletto a vent'anni e più di distanza mi pare ancora leggibile.
Piccola nota, il mio personale comportamento nei confronti delle donne è sempre stato piuttosto diverso da quello del protagonista.
Fuori dalla finestra il prato è umido
di pioggia, scintillante fino al taglio netto dell'orizzonte.
Mentre suona lo guarda. Solleva il capo
per sottolineare il movimento dell'archetto, stringe le labbra e
socchiude gli occhi fino a trasformare il mondo in un disegno
infantile di luci ed ombre.
Non c'è nessuno ad ascoltarlo. Suona
sempre lo stesso motivo, una vecchia ballata udita chissà dove e
appena ricordata, senza spartito, senza un ritmo che non sia quello
dei piedi che battono sul pavimento di cemento. Porta grosse scarpe
incrostate di fango secco e addosso ha un vecchio maglione troppo
largo.
Non riesce a liberarsi di quella
musica, anche quando smette di suonarla si scopre a fischiettarla o a
canticchiarla.
Smette per stanchezza e richiude il
violino nella custodia, accanto alla piccola arpa ed alla chitarra.
Voleva buttare giù alcune idee per una
musica teatrale ma da una settimana riesce soltanto a ripetere
continuamente quel frammento di musica sentito chissà dove.
Lo stereo è sempre acceso quando
lavora: fa partire le sonate per violino di Bach a un volume
insopportabile e mentre si prepara qualcosa da mangiare cerca di
soffocare nella mente il ritmo saltellante e le note prolungate della
piccola ballata.
Sembrerebbe una musica irlandese o
comunque celtica, ma potrebbe anche essere asturiana, bretone o
chissà cos'altro.
Non ne può più di musica etnica, per
qualche mese non ha quasi ascoltato altro: dai canti Giavanesi alle
rielaborazioni elettroniche di musica india. Ma qualcosa non funziona
più in lui. Chissà cosa. Al piano, alla chitarra ha sempre e solo
la sensazione di imitare, copiare, ripetere. Ogni tanto scribacchia
qualcosa, incide e si riascolta e mentre sente quelle povere note
dentro gli cresce una rabbia assurda, un desiderio cieco di
distruggere ogni cosa, schiantare gli strumenti e andarsene in un
posto qualunque.
Ride a bassa voce: dovrebbe andarsene
in un posto dove non possa raggiungersi, un posto dove dimenticare
ogni cosa. Sul tavolino basso dove tiene la carta da musica ci sono
aperte e spiegate con cura un paio di mutandine da donna color verde
acqua. È lei a mancargli? Le tiene lì come un trofeo o forse come
l'unico resto di un naufragio, lì come per sfidarsi. Vuoi soffrire?
Ecco, guarda cosa ti resta di lei, le avrà dimenticate chissà
quando, una delle volte che l'hai portata fin quassù a scopare, a
scopare e basta. Tanto con lei altro da fare e da dire non c'era.
Ingiusto, cattivo.
Ma per carità: Liliana è un'idiota.
Idiota anche quando l'ha mollato - tutta seria - come se fosse stata
una cosa seria quella tra loro due. Lei non distingueva un
contrabbasso da un sassofono e diceva carino di qualunque cosa, di un
barboncino come di Terry Riley, anzi “cariiiino” con una i che
sembrava non dover mai finire.
L'ha conosciuta dopo un concerto: ovvia
la scopata alla fine e sembrava finita lì. Ma lei a farsi viva anche
dopo, a trovarsi per caso dove c'era anche lui. Non la cercava, lo
imbarazzava persino portarsela dietro, incolta com'era, sempre un po'
stupita ma mai davvero attenta, davvero capace di sentire qualcosa
sul serio. Quando chiudeva gli occhi per ascoltare un bel motivo era
capace di chiedergli se stava dormendo. Eppure era piacevole sentirla
respirare vicino, guardarla dormire, con un braccio abbandonato fuori
dalle coperte e la mano un po' aperta con le dita sottili, chiare.
Ma non è il tipo da vita a due:
specchiarsi invecchiato in un altro viso, vivere a cerchi sempre più
stretti come un aereo che sta precipitando.
E ora lei gli ha lasciato anche il
dubbio di disprezzarla tanto per non sentire dolore. Ma gli ha tolto
l'iniziativa, come può perdonarla? L'ha mollato lei quando tutti i
motivi per farlo li aveva lui. E se li coltivava anche con una specie
di accanimento sottilmente eccitante, un gusto rabbioso simile a
quello di bruciare le ali di un insetto.
Pianta a metà il piatto ormai freddo e
va a sedersi sul vecchio divano dalla fodera a righe bianche e rosse
e dall'ossatura imponente.
Beve, con una lieve esitazione, ma
beve. Se diventa un alcolizzato gli leggeranno la vita dietro come
ridere. Beve perché l'ha mollato, chissà cosa ci trovava in quella
lì. Il bel culo, certo. Preferisce parlare a se stesso di culo, come
no, perché nella volgarità c'è più distacco, c'è una rabbia
compiaciuta ma impotente.
La porta della stanza da letto
cigolando sui cardini si chiude. Magari sono i fantasmi. Ridacchia
senza gusto. Bach ha finito e non ha voglia di mettere altro. Si
porta dietro solo Bach ultimamente, la passione fredda della sua
musica è l'unica che sopporta.
Dal divano contempla il giorno che
arretra e impallidisce.
Fa freddo, ha freddo. Preferisce
rabbrividire piuttosto che alzarsi a prendere una coperta o spostare
la manopola della caldaia. Grossi corvi si posano ogni tanto sul
prato, saltellano goffi, gracchiano piano, apparentemente soddisfatti
e fanno brevi voletti saltellanti come se volessero eseguire una
parodia di veri uccelli.
Peccato non avere un fucile. Solleva
l'indice, lo punta e fa bum con la bocca. A cinquanta metri di
distanza l'uccello nero si solleva di scatto e ricade giù come un
straccio bagnato.
Si alza sul busto, ancora imbambolato.
Gli altri corvi si sono sollevati e
lenti, gravi fuggono in cielo.
Si sente cretino anche più del
necessario ma deve andare a controllare. Infila gli stivali di gomma
e attraversa il prato di corsa. L'uccello è indiscutibilmente morto,
giace con le ali semichiuse, la testa abbandonata. Lo solleva. È
molto più leggero di quanto avrebbe creduto. Chissà se gli uccelli
possono essere colpiti da un infarto o da qualcosa di simile? Poggia
il corpo a terra lentamente, quasi con cautela.
C'è un vento leggero ma gelido, strano
non essersene accorto prima. Solleva gli occhi verso il cielo bianco.
Lo guarda tanto a lungo da stordirsi. Sono anni che ha smesso di
farlo: fissare un punto sopra di lui con la nuca che sfiora la terra
mentre un po' alla volta lo prende un senso di vertigine. Era un
ottovolante povero e solitario, da bambino.
Ovviamente non è colpa sua, un caso,
una coincidenza, assurda finché si vuole ma sempre una coincidenza.
Vaga ancora per un po' per il prato, l'aria fredda sul viso gli
schiarisce la mente. Fa decisamente freddo quando si decide a
rientrare. Spinge la porta abbassando la maniglia e non succede
niente. Di nuovo. Ovviamente non ha con sè le chiavi, ma quella
porta non la chiude mai a chiave, se non per tornarsene in città.
Fa ancora qualche tentativo sempre più
rabbioso ma niente.
Eppure è una porta da poco, uno strato
non troppo spesso di legno e una serratura da bambini.
Gli verrebbe da ridere se si vedesse
prendere la rincorsa sul sentiero per buttarla giù. Pochi passi
accellerando e piomba sulla porta.
Il dolore alla spalla è nitido e
improvviso come una coltellata, gli attraversa il braccio e la
schiena fulmineo e bruciante. Cade sul sentiero coperto di fango a
bocca aperta, la mano sulla spalla. Anche il più piccolo movimento
delle dita risveglia nel braccio un bruciore infernale. La luce è
scivolata oltre la linea dell'orizzonte: si gira sulla schiena con
gli occhi rivolti alle stelle gelide della notte d'inverno.
Adesso fa veramente freddo: non può
rimanere lì disteso sul sentiero per troppo tempo. Si solleva a
fatica, reggendo la spalla rotta con la mano.
Gli serve una pietra, possibilmente
grossa. In casa c'è il suo telefono portatile, potrà chiamare
aiuto. E pazienza se per un paio di mesi non potrà più suonare
nulla. Cammina chinato, frugando nell'erba con la mano ancora buona,
fischiando senza voce quel malefico motivetto che gli si è incollato
al cervello come un chewing-gum usato.
Niente, nessuna pietra, la mano affonda
nel gelo tagliente dell'erba umida senza afferrare altro che terra
bagnata e fango. La scarsa luce gli gioca scherzi perfidi e si trova
a stringere rabbiosamente una vecchia fatta di vacca.
Impreca e si pulisce la mano sull'erba.
Finisce vicino all'ombra scura del corvo morto. Si allontana con uno
scatto nervoso che gli fa stringere i denti per il dolore.
Alle sue spalle c'è la casa. A pochi
metri il calore, il cibo, la salvezza. Si volta, deciso a centrare il
vetro con un pugno. Sono vetri doppi, ma anche il rischio di
tagliarsi di brutto la mano è diventato una sciocchezza.
Le luci sono spente. Il profilo della
casa è appena afferrabile, oscurità cieca sull'abisso del cielo.
È sicuro di avere acceso le luci,
prima, quando se ne stava su divano.
Sicuro, si fa presto a dire sicuro, non
è più certo di nulla se non del dolore e del freddo infame. Ma è
possibile una fine così ridicola, congelato davanti alla porta di
casa?
Istintivamente appoggia la guancia sul
vetro. Ansima fino a velare il riflesso buio del cielo sul cristallo.
Dimentica persino il dolore: si concentra a respirare, si ascolta
farlo con una meraviglia nuova, mai provata.
Prova a spingere sul vetro. È spesso, maledettamente spesso. Se non trova una pietra non... ma dove cristo cercarla in quel buio?
Prova a spingere sul vetro. È spesso, maledettamente spesso. Se non trova una pietra non... ma dove cristo cercarla in quel buio?
In città non lo aspettano, tra un paio
di settimane il regista della commedia comincerà a tempestare di
insulti la sua segreteria. “Per quel lavoro, cazzo fai? È pronto?
Mi richiami o no? Stronzo, ti decidi?”
È più probabile che lo trovino verso
maggio quelli che portano su le bestie agli alpeggi. Quattro ossa e
due stracci, quello che gli lasceranno i corvi. “Frattura alla
spalla” dirà il patologo legale.
Un movimento leggero, colto con la coda
dell'occhio. Affonda lo sguardo nel buio. Un'ombra pallida attraversa
la stanza.
- Ehi, ehi! Aiuto!!! - Urla con tutte
le sue forze battendo con il braccio buono contro il vetro.
Nulla, chissà cos'ha visto. Solo un
riflesso, un semplice riflesso del cielo.
È questione di resistere fino al
mattino, tutto qui. Qualche ora. Ma non può sedersi né tantomeno
dormire.
Canterà per tenersi sveglio. Comincia
fischiettando e dalle labbra socchiuse, inaridite dal freddo e dalla
paura ancora una volta nasce la giga ripetuta per tutti quei giorni.
Improvvisamente ricorda quando l'ha
sentita: l'autoradio a tutto volume, il grande corso con gli alberi
nudi e scuri di umidità.
“Non sei nessuno Liliana, una povera
idiota ecco cosa sei, una poveretta senza speranze.” Urlava ma
cercava di mantenersi freddo, sarcastico. “Ma vai, vai. Lo troverai
un bravo giovane che ti mantiene, stai tranquilla, un assicuratore o
uno che sta negli immobili. Come no.”
Lei non rispondeva, si fissava le
ginocchia: una bambina umiliata dalla maestra davanti a tutti. Eppure
non piangeva, cazzo a farla piangere non è riuscito. Avrebbe salvato
tutto qualche lacrima, forse. Le avrebbe detto “Scusa, scusa. È
che sono troppo innamorato di te” o qualche altra scemenza del
genere.
Aveva continuato per un po' su quel
tono, rendendosi conto di non avere più possibilità di fuga. Lei è
scesa ad un semaforo senza aver aggiunto una parola. Crepa maledetta.
Deve averglielo detto, se non urlato.
Dopo non l'ha più sentita né vista: è
partito quasi subito.
Può esserle successa qualunque cosa,
davvero qualunque cosa. Anche che abbia fatto qualche stupidaggine,
in fondo sarebbe normale.
Mi piace il tuo mondo, diceva, mi piace
proprio.
E perché non riesce a ricordare com'è
la frase successiva di quella giga? Testardamente ma senza speranza
riprende a fischiare.
Ha spento l'autoradio mentre lei
scendeva. Non si è girato a guardarla. Come sempre lei avrà
attraversato il minuscolo vialetto ed avrà aperto il portoncino di
metallo verniciato di azzurro, un po' scrostato. Dopo aver estratto
la chiave avrà tirato indietro con uno scatto i capelli scivolati
sul viso. Ma non ce la vede a dargli dello stronzo, a stracciare le
poche foto di loro due insieme. Lei si sarà data la colpa di tutto,
anche di non riuscire più ad amarlo.
Sente freddo nella mente e la testa
vuota, piena di stelle d'inverno. Non riesce più a ritrovare la sua
rabbia, tutto dentro si confonde e oscilla come la fiamma di una
candela: il cielo dell'infanzia, la nuca sottile di lei scoperta dai
capelli rovesciati, la curva delle
spalle e un corvo morto, leggero come un aquilone.
Batte contro il vetro. Deve arrivare al
mattino, contare e ricontare le stelle come un eremita sperando che
non ne manchi nessuna. Fischietta, stona e sente le note impallidire
e svanire a pochi metri da lui, chiuse in una bolla di tempo abitata
solo da lui.
Nel cristallo si disegna una forma più
chiara. Si schiaccia il naso per guardare.
Non fischia più, trattiene il respiro
e accarezza la finestra con un dito. L'immagine si forma scivolando
lenta, sinuosa, come fosse disegnata da uno strato di sabbia ed olio
tra due vetri affacciati.
E lo sguardo di lei è calmo, assente,
fisso alle stelle fredde dietro di lui.
2 commenti:
Caro te, anche leggendo questo racconto su un volantino anonimo, riconoscerei il tuo pointillisme sornione e sapiente. Sempre lì a infilare i tuoi protagonisti in situazioni impossibili! ;-) Bravo Max. Un abbraccio.
@conso: grazie, ben contento che il mio raccontino ti abbia divertito. Come che il mio «stile» sia immediatamente riconoscibile. È vero che tendo a ficcare i miei protagonisti in situazioni impossibili ma in fondo io stesso vivo in una situazione ridicola, prima ancora che terribile. E il protagonista del racconto credo che se lo meriti. Ciò che mi lascia come sempre perplesso è che, comunque, qualsiasi personaggio narrandolo rischia di risvegliare la mia con-passione. Anche uno stronzo come quello appena finito di narrare.
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