19.4.12

Una vecchia giga



Questo racconto non è mai stato pubblicato. 
Semplicemente perché era un filino troppo lungo per LN e troppo breve o forse non abbastanza fantastico per ALIA. O anche, semplicemente, perché non mi ricordavo più nemmeno di averlo scritto. 
Può capitare.
È nato per esemplificare l'assunto che il vero fantastico nasce dall'equilibrio perfetto tra il reale e il meraviglioso - come sostiene Todorov - e che quindi un racconto fantastico non deve fornire una spiegazione aderente a ciò che vi avviene ma rimandare a un quadro più ampio dove sia possibile avanzare un'interpretazione che non possa però essere in alcun modo provata. 
Mi rendo conto che non si può scrivere un racconto per illustrare una convinzione o dichiarare un assioma, meno che mai in campo narrativo. Ed è probabilmente questo il motivo per il quale Una vecchia giga non ha mai trovato una pubblicazione.
Riletto a vent'anni e più di distanza mi pare ancora leggibile. 
Piccola nota, il mio personale comportamento nei confronti delle donne è sempre stato piuttosto diverso da quello del protagonista. 

Fuori dalla finestra il prato è umido di pioggia, scintillante fino al taglio netto dell'orizzonte.
Mentre suona lo guarda. Solleva il capo per sottolineare il movimento dell'archetto, stringe le labbra e socchiude gli occhi fino a trasformare il mondo in un disegno infantile di luci ed ombre.
Non c'è nessuno ad ascoltarlo. Suona sempre lo stesso motivo, una vecchia ballata udita chissà dove e appena ricordata, senza spartito, senza un ritmo che non sia quello dei piedi che battono sul pavimento di cemento. Porta grosse scarpe incrostate di fango secco e addosso ha un vecchio maglione troppo largo.
Non riesce a liberarsi di quella musica, anche quando smette di suonarla si scopre a fischiettarla o a canticchiarla.
Smette per stanchezza e richiude il violino nella custodia, accanto alla piccola arpa ed alla chitarra.
Voleva buttare giù alcune idee per una musica teatrale ma da una settimana riesce soltanto a ripetere continuamente quel frammento di musica sentito chissà dove.
Lo stereo è sempre acceso quando lavora: fa partire le sonate per violino di Bach a un volume insopportabile e mentre si prepara qualcosa da mangiare cerca di soffocare nella mente il ritmo saltellante e le note prolungate della piccola ballata.
Sembrerebbe una musica irlandese o comunque celtica, ma potrebbe anche essere asturiana, bretone o chissà cos'altro.
Non ne può più di musica etnica, per qualche mese non ha quasi ascoltato altro: dai canti Giavanesi alle rielaborazioni elettroniche di musica india. Ma qualcosa non funziona più in lui. Chissà cosa. Al piano, alla chitarra ha sempre e solo la sensazione di imitare, copiare, ripetere. Ogni tanto scribacchia qualcosa, incide e si riascolta e mentre sente quelle povere note dentro gli cresce una rabbia assurda, un desiderio cieco di distruggere ogni cosa, schiantare gli strumenti e andarsene in un posto qualunque.
Ride a bassa voce: dovrebbe andarsene in un posto dove non possa raggiungersi, un posto dove dimenticare ogni cosa. Sul tavolino basso dove tiene la carta da musica ci sono aperte e spiegate con cura un paio di mutandine da donna color verde acqua. È lei a mancargli? Le tiene lì come un trofeo o forse come l'unico resto di un naufragio, lì come per sfidarsi. Vuoi soffrire? Ecco, guarda cosa ti resta di lei, le avrà dimenticate chissà quando, una delle volte che l'hai portata fin quassù a scopare, a scopare e basta. Tanto con lei altro da fare e da dire non c'era.
Ingiusto, cattivo.
Ma per carità: Liliana è un'idiota. Idiota anche quando l'ha mollato - tutta seria - come se fosse stata una cosa seria quella tra loro due. Lei non distingueva un contrabbasso da un sassofono e diceva carino di qualunque cosa, di un barboncino come di Terry Riley, anzi “cariiiino” con una i che sembrava non dover mai finire.
L'ha conosciuta dopo un concerto: ovvia la scopata alla fine e sembrava finita lì. Ma lei a farsi viva anche dopo, a trovarsi per caso dove c'era anche lui. Non la cercava, lo imbarazzava persino portarsela dietro, incolta com'era, sempre un po' stupita ma mai davvero attenta, davvero capace di sentire qualcosa sul serio. Quando chiudeva gli occhi per ascoltare un bel motivo era capace di chiedergli se stava dormendo. Eppure era piacevole sentirla respirare vicino, guardarla dormire, con un braccio abbandonato fuori dalle coperte e la mano un po' aperta con le dita sottili, chiare.
Ma non è il tipo da vita a due: specchiarsi invecchiato in un altro viso, vivere a cerchi sempre più stretti come un aereo che sta precipitando.
E ora lei gli ha lasciato anche il dubbio di disprezzarla tanto per non sentire dolore. Ma gli ha tolto l'iniziativa, come può perdonarla? L'ha mollato lei quando tutti i motivi per farlo li aveva lui. E se li coltivava anche con una specie di accanimento sottilmente eccitante, un gusto rabbioso simile a quello di bruciare le ali di un insetto.
Pianta a metà il piatto ormai freddo e va a sedersi sul vecchio divano dalla fodera a righe bianche e rosse e dall'ossatura imponente.
Beve, con una lieve esitazione, ma beve. Se diventa un alcolizzato gli leggeranno la vita dietro come ridere. Beve perché l'ha mollato, chissà cosa ci trovava in quella lì. Il bel culo, certo. Preferisce parlare a se stesso di culo, come no, perché nella volgarità c'è più distacco, c'è una rabbia compiaciuta ma impotente.
La porta della stanza da letto cigolando sui cardini si chiude. Magari sono i fantasmi. Ridacchia senza gusto. Bach ha finito e non ha voglia di mettere altro. Si porta dietro solo Bach ultimamente, la passione fredda della sua musica è l'unica che sopporta.
Dal divano contempla il giorno che arretra e impallidisce.
Fa freddo, ha freddo. Preferisce rabbrividire piuttosto che alzarsi a prendere una coperta o spostare la manopola della caldaia. Grossi corvi si posano ogni tanto sul prato, saltellano goffi, gracchiano piano, apparentemente soddisfatti e fanno brevi voletti saltellanti come se volessero eseguire una parodia di veri uccelli.
Peccato non avere un fucile. Solleva l'indice, lo punta e fa bum con la bocca. A cinquanta metri di distanza l'uccello nero si solleva di scatto e ricade giù come un straccio bagnato.
Si alza sul busto, ancora imbambolato.


Gli altri corvi si sono sollevati e lenti, gravi fuggono in cielo.
Si sente cretino anche più del necessario ma deve andare a controllare. Infila gli stivali di gomma e attraversa il prato di corsa. L'uccello è indiscutibilmente morto, giace con le ali semichiuse, la testa abbandonata. Lo solleva. È molto più leggero di quanto avrebbe creduto. Chissà se gli uccelli possono essere colpiti da un infarto o da qualcosa di simile? Poggia il corpo a terra lentamente, quasi con cautela.
C'è un vento leggero ma gelido, strano non essersene accorto prima. Solleva gli occhi verso il cielo bianco. Lo guarda tanto a lungo da stordirsi. Sono anni che ha smesso di farlo: fissare un punto sopra di lui con la nuca che sfiora la terra mentre un po' alla volta lo prende un senso di vertigine. Era un ottovolante povero e solitario, da bambino.
Ovviamente non è colpa sua, un caso, una coincidenza, assurda finché si vuole ma sempre una coincidenza. Vaga ancora per un po' per il prato, l'aria fredda sul viso gli schiarisce la mente. Fa decisamente freddo quando si decide a rientrare. Spinge la porta abbassando la maniglia e non succede niente. Di nuovo. Ovviamente non ha con sè le chiavi, ma quella porta non la chiude mai a chiave, se non per tornarsene in città.
Fa ancora qualche tentativo sempre più rabbioso ma niente.
Eppure è una porta da poco, uno strato non troppo spesso di legno e una serratura da bambini.
Gli verrebbe da ridere se si vedesse prendere la rincorsa sul sentiero per buttarla giù. Pochi passi accellerando e piomba sulla porta.
Il dolore alla spalla è nitido e improvviso come una coltellata, gli attraversa il braccio e la schiena fulmineo e bruciante. Cade sul sentiero coperto di fango a bocca aperta, la mano sulla spalla. Anche il più piccolo movimento delle dita risveglia nel braccio un bruciore infernale. La luce è scivolata oltre la linea dell'orizzonte: si gira sulla schiena con gli occhi rivolti alle stelle gelide della notte d'inverno.
Adesso fa veramente freddo: non può rimanere lì disteso sul sentiero per troppo tempo. Si solleva a fatica, reggendo la spalla rotta con la mano.
Gli serve una pietra, possibilmente grossa. In casa c'è il suo telefono portatile, potrà chiamare aiuto. E pazienza se per un paio di mesi non potrà più suonare nulla. Cammina chinato, frugando nell'erba con la mano ancora buona, fischiando senza voce quel malefico motivetto che gli si è incollato al cervello come un chewing-gum usato.
Niente, nessuna pietra, la mano affonda nel gelo tagliente dell'erba umida senza afferrare altro che terra bagnata e fango. La scarsa luce gli gioca scherzi perfidi e si trova a stringere rabbiosamente una vecchia fatta di vacca.
Impreca e si pulisce la mano sull'erba. Finisce vicino all'ombra scura del corvo morto. Si allontana con uno scatto nervoso che gli fa stringere i denti per il dolore.
Alle sue spalle c'è la casa. A pochi metri il calore, il cibo, la salvezza. Si volta, deciso a centrare il vetro con un pugno. Sono vetri doppi, ma anche il rischio di tagliarsi di brutto la mano è diventato una sciocchezza.
Le luci sono spente. Il profilo della casa è appena afferrabile, oscurità cieca sull'abisso del cielo.
È sicuro di avere acceso le luci, prima, quando se ne stava su divano.
Sicuro, si fa presto a dire sicuro, non è più certo di nulla se non del dolore e del freddo infame. Ma è possibile una fine così ridicola, congelato davanti alla porta di casa?
Istintivamente appoggia la guancia sul vetro. Ansima fino a velare il riflesso buio del cielo sul cristallo. Dimentica persino il dolore: si concentra a respirare, si ascolta farlo con una meraviglia nuova, mai provata.
Prova a spingere sul vetro. È spesso, maledettamente spesso. Se non trova una pietra non... ma dove cristo cercarla in quel buio?
In città non lo aspettano, tra un paio di settimane il regista della commedia comincerà a tempestare di insulti la sua segreteria. “Per quel lavoro, cazzo fai? È pronto? Mi richiami o no? Stronzo, ti decidi?”
È più probabile che lo trovino verso maggio quelli che portano su le bestie agli alpeggi. Quattro ossa e due stracci, quello che gli lasceranno i corvi. “Frattura alla spalla” dirà il patologo legale.
Un movimento leggero, colto con la coda dell'occhio. Affonda lo sguardo nel buio. Un'ombra pallida attraversa la stanza.
- Ehi, ehi! Aiuto!!! - Urla con tutte le sue forze battendo con il braccio buono contro il vetro.
Nulla, chissà cos'ha visto. Solo un riflesso, un semplice riflesso del cielo.
È questione di resistere fino al mattino, tutto qui. Qualche ora. Ma non può sedersi né tantomeno dormire.
Canterà per tenersi sveglio. Comincia fischiettando e dalle labbra socchiuse, inaridite dal freddo e dalla paura ancora una volta nasce la giga ripetuta per tutti quei giorni.
Improvvisamente ricorda quando l'ha sentita: l'autoradio a tutto volume, il grande corso con gli alberi nudi e scuri di umidità.
“Non sei nessuno Liliana, una povera idiota ecco cosa sei, una poveretta senza speranze.” Urlava ma cercava di mantenersi freddo, sarcastico. “Ma vai, vai. Lo troverai un bravo giovane che ti mantiene, stai tranquilla, un assicuratore o uno che sta negli immobili. Come no.”
Lei non rispondeva, si fissava le ginocchia: una bambina umiliata dalla maestra davanti a tutti. Eppure non piangeva, cazzo a farla piangere non è riuscito. Avrebbe salvato tutto qualche lacrima, forse. Le avrebbe detto “Scusa, scusa. È che sono troppo innamorato di te” o qualche altra scemenza del genere.
Aveva continuato per un po' su quel tono, rendendosi conto di non avere più possibilità di fuga. Lei è scesa ad un semaforo senza aver aggiunto una parola. Crepa maledetta. Deve averglielo detto, se non urlato.
Dopo non l'ha più sentita né vista: è partito quasi subito.
Può esserle successa qualunque cosa, davvero qualunque cosa. Anche che abbia fatto qualche stupidaggine, in fondo sarebbe normale.
Mi piace il tuo mondo, diceva, mi piace proprio.
E perché non riesce a ricordare com'è la frase successiva di quella giga? Testardamente ma senza speranza riprende a fischiare.
Ha spento l'autoradio mentre lei scendeva. Non si è girato a guardarla. Come sempre lei avrà attraversato il minuscolo vialetto ed avrà aperto il portoncino di metallo verniciato di azzurro, un po' scrostato. Dopo aver estratto la chiave avrà tirato indietro con uno scatto i capelli scivolati sul viso. Ma non ce la vede a dargli dello stronzo, a stracciare le poche foto di loro due insieme. Lei si sarà data la colpa di tutto, anche di non riuscire più ad amarlo.
Sente freddo nella mente e la testa vuota, piena di stelle d'inverno. Non riesce più a ritrovare la sua rabbia, tutto dentro si confonde e oscilla come la fiamma di una candela: il cielo dell'infanzia, la nuca sottile di lei scoperta dai
capelli rovesciati, la curva delle spalle e un corvo morto, leggero come un aquilone.
Batte contro il vetro. Deve arrivare al mattino, contare e ricontare le stelle come un eremita sperando che non ne manchi nessuna. Fischietta, stona e sente le note impallidire e svanire a pochi metri da lui, chiuse in una bolla di tempo abitata solo da lui.
Nel cristallo si disegna una forma più chiara. Si schiaccia il naso per guardare.
Non fischia più, trattiene il respiro e accarezza la finestra con un dito. L'immagine si forma scivolando lenta, sinuosa, come fosse disegnata da uno strato di sabbia ed olio tra due vetri affacciati.
E lo sguardo di lei è calmo, assente, fisso alle stelle fredde dietro di lui.


2 commenti:

consolata ha detto...

Caro te, anche leggendo questo racconto su un volantino anonimo, riconoscerei il tuo pointillisme sornione e sapiente. Sempre lì a infilare i tuoi protagonisti in situazioni impossibili! ;-) Bravo Max. Un abbraccio.

Massimo Citi ha detto...

@conso: grazie, ben contento che il mio raccontino ti abbia divertito. Come che il mio «stile» sia immediatamente riconoscibile. È vero che tendo a ficcare i miei protagonisti in situazioni impossibili ma in fondo io stesso vivo in una situazione ridicola, prima ancora che terribile. E il protagonista del racconto credo che se lo meriti. Ciò che mi lascia come sempre perplesso è che, comunque, qualsiasi personaggio narrandolo rischia di risvegliare la mia con-passione. Anche uno stronzo come quello appena finito di narrare.