2.6.22

Qualche riflessione inutile sullo scrivere

 
Scrivere o non scrivere? 
Lo so, non è un tema che possa interessare o, ancor meno affascinare i pochissimi lettori di questo blog, tanto meno in tempi nei quali i blog finiscono per essere trascurati: troppo da leggere con troppo poco tempo. 
Ciò detto, perderò e (forse) vi farò perdere un po' di tempo a riflettere su un tema che riguarda non poche persone, foriero di problemi, di sensazioni di insufficienza, di dubbi di incapacità e ansie di essere sostanzialmente illeggibili, noiosi o rinunciabili, tanto da provocare talvolta il sostanziale abbandono degli strumenti di scrittura.
Scrivere… È diventata una piccola mania, sostanzialmente innocua, soprattutto se paragonata ad altre passioni come la caccia o la droga, ma che può creare non pochi problemi in chi la pratica. 
È vero, si scrive per se stessi, o almeno così pare, ma il dato di fatto è che dopo un certo numero di righe scritte e di racconti, raccontini, elzeviri, componimenti, fulminanti ritratti, commediole o poesie ci si convince di saper scrivere e si comincia a cercare dei lettori che possano confermare questa nostra convinzione col tempo divenuta più salda. 
Il tempo che determina questo autoconvincimento è variabile in rapporto alle persone e ai caratteri: si va da coloro che inseguono i vicini di casa per una lettura dopo aver scritto due (2) cartelle, a coloro che lo fanno dopo aver scritto perlomeno un racconto, a coloro che osano chiedere una lettura del loro romanzetto, fino a coloro che scrivono due o tre romanzi delle dimensioni della Recherche e si limitano a dichiararlo nei social media, senza chiedere alcunché a nessuno. 
Personalmente rientro nella terza categoria, "coloro che osano… con un romanzetto", e il problema è che, personalmente. sono drammaticamente convinto di essere un vero genio della scrittura. 
Nei giorni fausti. 
O di essere una mezza calzetta indegna di una lettura che vada oltre una mezza paginetta. 
Nei giorni infausti. 
Premessa. 
Negli anni '80, dopo aver abbandonato giocoforza il sax e il jazz – causa perdita sala prove – mi sono "accontentato" di scrivere, dopo qualche faticoso (e grottesco) tentativo di poetare. Sicché in sette - otto anni ho scritto un mostro – prima a mano, poi su macchina da scrivere, quindi con un programmino autoprodotto su TI 99 e infine su un M20 Olivetti – che sfiora le 900 pagine e che sto riguardando in questi giorni. Un'impresa che mi porrebbe di diritto nella categoria 4, se non fosse che… Già, mentre componevo il mio personale monumento alla scrittura, ho scritto anche racconti di vario genere e con quelli ho cercato di guastare la vita e corrompere i gusti di creature che avevano come particolare difetto quello di condurre un qualsivoglia rapporto con il sottoscritto.
 

 
Tra le altre cose ho anche partecipato a un concorso, incitato da un mio collega di lavoro – era il 1990 – ottenendone un piazzamento e la pubblicazione. Il mio collega, che aveva inviato a sua volta un racconto, non ottenne nulla e metaforicamente mi tolse il saluto. Il dato principale è che in questo modo trovai una sorta di ammissione al grado più basso di scrittorìa: quello di volenteroso apprendista. A quello seguirono altre partecipazioni a concorsi vari con posizioni più o meno lusinghiere. La scrittura stava gradualmente diventando un mestiere… Capitolo a parte la partecipazione al concorso per il Premio Calvino: inviai due volte lo stesso romanzo con qualche modifica (quello che, una volta modificato, si può trovare qui) con esiti nel primo caso decorosi, nel secondo – dopo aggiunte e revisioni – con risultati catastrofici. Diciamo che è stato il primo caso nel quale ho incontrato un "intellettuale" di sinistra puro-e-duro che non arrivò nemmeno a capire che la Rote Armee non era l'Armata Rossa sovietica, accusandomi larvatamente di essere un rottame nazistoide. Errore mio, temo, e delle mie sciagurate passioni per la storia del XX secolo e per lingua tedesca. Ma l'episodio mi segnò profondamente, anche se sul momento affettai indifferenza, mostrandomi come esista una differenza sensibile tra ciò che si crede di scrivere e ciò che viene letto come esiste tra ciò che si è ritenuto di scrivere e ciò che viene realmente letto
Un particolare poco importante? No, non è così. 
Come risolvere il problema? 
Beh, se avete una risposta sono prontissimo ad ascoltarla. 
 

 
Il dato di fatto è che questa discrasia (chepparolone...) mi ha inseguito nel tempo, sia partecipando alle tre o quattro presentazione messe in piedi per l'uscita da CS_libri della mia prima antologia, «In controtempo» che in seguito, scoprendo immancabilmente che esistevano fratture, malcomprensioni – non solo, talvolta sovracomprensioni, attribuendo alle mie parole significati ulteriori mai da me sospettati – che rendevano il mio testo diverso da come intendevo fosse compreso. «Normale», direte voi, «In fondo è successo a tutti gli scrittori». Molto vero, ma in ogni caso almeno sorprendente per chi allinea un flusso di parole in un testo. 
O in un cesto, parlando di misunderstanding.
Ma se la malcomprensione di un testo scritto può sabotare – più raramente esaltare – la vostra "poetica", le cose non vanno meglio parlando dell'esercizio stesso di scrivere, ovvero il tempo che – in uno modo o nell'altro – si dedica alla fatica della scrittura. 
Qualcuno, a occhio direi Giacomo Leopardi, parlava di "sudate carte", frase che quando iniziai a scrivere mi sembrava un'iperbole, sia pure letterariamente deliziosa. Senonché… 
Quando iniziai ero effettivamente contento come una pasqua di trovare un po' di tempo per la mia "passione", scrivevo quando potevo: la mattina prima di andare a lavorare; all'ora dell'intervallo con un panino in mano; dopo cena e, ovviamente, di domenica. 
Il problema è che il vasto mondo non gradiva particolarmente le mie creazioni, pur essendo io tutto sommato abbastanza ritroso nel rifilargliele. Sicché il mio iniziale entusiasmo cominciò a diventare più cauto, più faticoso, più ponderato. Al semplice lavoro di allineare una riga dopo l'altra cominciò a rendersi necessario una seconda fase, nella quale rivedevo il testo, lo ripulivo, lo emendavo, in qualche caso lo eliminavo, anche se, meditabondo, non gettavo via il testo scartato. Con il tempo alla seconda fase ne subentrò una terza e poi ancora il lavoro di riprendere in mano il testo una volta "raffreddato". 
 

 
Le conclusioni alle quali giunsi erano che:
1) Il vasto mondo aveva tutte le ragioni di considerare poco il prodotto iniziale del mio genio. 
2) Scrivere era, in realtà, fatto per un decimo di gioia e per nove decimi di pura e semplice fatica.
3) In ogni caso anche il prodotto più o meno finito del mio lavoro mi risultava insufficiente o mal scritto e dovevo impedirmi di rimettere mano anche alla bozze più o meno definitive. 
4) per accontentare i lettori bisognava far sì che un testo rallegrasse in particolar modo loro – pur senza cedere un palmo al midcult – questo anche se, tutto sommato, fosse una faticaccia scriverlo.
Andando avanti con gli anni le cose si sono fatte sempre più ardue. Ormai per scrivere una pagina – 2000 battute spazi compresi – devo scriverne più o meno il doppio – o anche di più – e poi tagliare, cambiare, eliminare, sostituire, cercando di rimanere abbastanza presenti a se stessi. 
Onestamente le affermazioni tipo: «Eehh, scrivere dev'essere soprattutto un piacere» mi lasciano quantomeno perplesso e vorrei rispondere: «No, scrivere è un lavoro e nemmeno dei più rilassanti.»
E qui ritorniamo al punto di partenza, ovvero: "Scrivere o non scrivere?". 
La voce del buon senso mi direbbe: «Ma per carità. È già troppo pieno di poveretti che si affannano a scrivere, oltretutto in italiano, una lingua sfigatissima: poco parlata e ancor meno letta. Fai altro: leggi, studia, scrivi recensioni, gioca a frisbee o a ping-pong, fai correre il cane e fai dispetti al gatto, fai videogiochi o smonta e rimonta computer per il piacere di farlo, ma NON scrivere.»
Una parte di me, quella probabilmente più antica, o più infantile, o più vanesia, ribatte: «Scrivere è vitale per un pirla come te. Devi farlo indipendentemente dal numero di lettori che riesci a raggranellare: per il semplice piacere di soffrire. Fatica e sarai contento: in fondo non hai padroni né servitori. E hai un sacco di tempo libero, ora che non lavori più.» 
Vero. 
In più c'è il fatto che posso lavorare senza guadagnare nulla di serio (a titolo di esempio, l'ultimo bonifico mensile a mio favore per un testo pubblicato è stato di € 5,98), un'attività che, considerando il mio lavoro precedente, con stipendi che arrivavano un mese sì e uno no, non mi turba. 
Quindi penso che continuerò a scrivere. Magari perdendo tempo prima, dopo e mentre, ma continuerò a scrivere. 
Ma il tema non è esaurito, penso che scriverò ancora di me che scrivo. Se non vi interessa – probabilità tutt'altro che remota – potete tranquillamente ignorarmi, in fondo Internet ha di bello proprio la possibilità di ignorare bellamente praticamente tutto. 
Alla prossima!
  


 



 


 
 
 


2 commenti:

Anonimo ha detto...

Caro Massimo, che tasto doloroso e difficile hai toccato in questo post! Ti capisco pienamente e non so proprio che cosa dire di più e di meglio. Posso aggiungere che per me si è trattato del più grande amore della mia vita e non mi piace ammettere che è stato un fallimento. Gli amori così grandi non dovrebbero mai finire. Ma tant’è... io un po’ mi consolo rileggendo cose dimenticate, e pensando in solitudine “be’, non era così male in fondo”. Consolata

Massimo Citi ha detto...

Ciao Consolata. Soltanto un elemento in apparenza esterno al tema. Non so come mi sentirei al tuo posto con la casa per aria e un terrazzo vandalizzato, ma credo mi sentirei proclive ad abbandonarmi a una sensazione di generale inutilità del mondo e in particolare di inutilità di me stesso. Ciò detto, posso capire senza difficoltà il tuo stato d'animo e non posso che dirmi solidale. Ho passato il 2020 e il 2021 senza scrivere nulla di nuovo, convinto della sostanziale vacuità di ciò che scrivevo. Ma, come saprai, non c'è pietà per noi, che dobbiamo scrivere anche se non ne abbiamo voglia. Pensiamo che si tratti soltanto di un momento che si perderà in una serie di momenti, nulla di più né di diverso.