25.12.17

Una storia per Natale: Il muro delle eriche

Un racconto ripescato casualmente da un'unità esterna del PC, mentre cercavo inutilmente il racconto apparso su Fata Morgana 12, in apparenza assolutamente scomparso o forse salvato con chissaqualenome… Nella peggiore delle ipotesi lo ribatterò da capo. Quanto a questo racconto mi piace l'ambientazione in un momento dimenticato della storia europea, anche se temo che il finale – come capita spesso nella letteratura fantastica – possa risultare non all'altezza del testo. In ogni caso sono molto contento di offrirlo in lettura ai miei amici e lettori. 

 


Le finestre della cucina della servitù si aprono su un vecchio muro.
Da ragazzo andavo a spiarlo, così scuro e incombente. E l'eccitazione era più forte perché io non avrei dovuto essere lì, ed anche se Elsa mi guardava storto rimestando nel paiolo appeso sul caminetto sapevo che non avrebbe fatto la spia.
– Carlo!
Herr Däniken veniva da Potsdam e parlava malissimo la nostra lingua. Probabilmente parlava ancor peggio il latino ma non c'era nessuno nei dintorni che potesse sbugiardarlo. Nemmeno il pastore. Mi chiamava sempre una volta sola, forte come una fucilata. Non osavo pensare a cosa mi sarebbe accaduto se non l'avessi udito.
Preferiva non indagare da dove venissi e a quali bassezze mi fossi ridotto durante la sua assenza – invariabilmente dalle 19.00 del giorno precedente fino alle 14.00 del giorno dopo – per lui era lo stesso. Il tempo che non trascorrevo al tavolino davanti alla porta-finestra a studiare grammatica tedesca ed a uccidere una seconda volta gli autori classici, per Herr Däniken semplicemente non esisteva. Sogni, pensieri, incontri, rimpianti, meraviglie – che pure alle volte gli raccontavo – scivolavano sul suo viso arrossato dal freddo come acqua sulla corteccia di un vecchio albero.
Chiudeva gli occhi, ogni tanto annuiva con un gesto lentissimo che muoveva appena sul viso le ombre grigie del giorno e quando avevo finito faceva un commento, sempre lo stesso, non so se nella sua lingua o in latino, e apriva il libro.
Se fosse ancora qui ascolterebbe i commenti eccitati dei contadini, il riserbo accigliato dei borghigiani, potrebbe cogliere tutta la curiosità e la paura della piccola gente, ma questo non muoverebbe il suo volto a un sorriso di soddisfazione. Lui, prussiano, detestava la casata degli Hohenzollern e con mio padre l'ho sentito più volte affermare che dopo Federico – lui lo chiamava così – la stirpe si era guastata.

Ora posso passare tutto il tempo che desidero a fissare il vecchio muro, coperto di edera e interrato fin quasi a metà della sua altezza, dove crescono le eriche.
Fin quando non arriveranno, proprio da dietro il muro.
Il vecchio Oldenburg se ne è andato da poco e Cristiano ha cercato di mostrare come inizia una dinastia. Ma i nostri soldati non sanno più fare la guerra. Possono azzuffarsi, ringhiare come bambini arrabbiati e testardi, morire come gli altri, ma la guerra no, non sanno più farla. Quella è un'arte da popoli giovani che le dedicano tanto, tantissimo tempo e molta serietà. Ma forse questo è un bene.

Wurts mi ha lasciato la cena in caldo, patate e merluzzo.
Mi siedo a tavola senza nemmeno togliermi la giacca da caccia. Mentre camminavo nel bosco aguzzavo le orecchie per sentire il rumore dei cannoni, ponevo attenzione alle minime vibrazioni del terreno e camminavo teso come un gatto.
Ho udito solo il canto monotono di un assiolo ed il lontano richiamo di una cornacchia grigia. Tra le betulle già svestite dall'inverno anche quei suoni così poveri mi sono sembrati assurdi, falsi, quasi un'imitazione pallida e stonata del mondo che conosco fin dall'infanzia.
Sollevo il piatto rovesciato che Wurts ha appoggiato sul cibo per tenerlo caldo. Le patate sono disposte con cura, quasi con affetto. Ne mancano alcune, poche. Non mi stupisco: mi limito a considerare con curiosità quel furto quasi impercettibile, le due fettine di patata che dovrebbero essere logicamente appoggiate alle precedenti e seguenti, la cui assenza interrompe la regolarità della fila.
Se volesse nascondersi non agirebbe così. Ma so che non è quello che vuole. Sollevo la testa cercando di sorprenderlo. Sarà davanti alla porta-finestra a fissare il grande prato abbracciato dal muro basso, simile ad un vecchio molo interrato. O forse starà guardando il muro delle eriche, passandosi spesso una mano sulla fronte per allontanarne i capelli.
Mangio ascoltando il rintocco regolare del pendolo. La mia famiglia termina con me e i Prussiani saranno soltanto i miei esecutori testamentari. Non so a chi andrà la casa, se decideranno di prendersela. Forse a qualche rat venuto dalla provincia, un burocrate prussiano insignito di onorificenze, precocemente calvo, sudato, infagottato in abiti stretti e scomodi. Un topo carico di sussiego.
Ma forse neppure loro sapranno cosa farsene. Alloggeranno la truppa finché c'è la guerra e poi la lasceranno sporca, con la paglia per terra e i muri ombreggiati di umidità.
Un fruscio nelle stanze di sopra. Starà cercando qualcosa. Fruga nei miei cassetti, nervoso ma cauto. Non vuole che io salga, non vuole incontrarmi. Arrivo sempre un attimo troppo tardi, in tempo per afferrare il rumore di passi affrettati, inuguali. I passi di un ragazzo.
Dopo si impara a controllare tutto, anche il passo. Lo si rende armonico, regolare, lo si controlla, lo si ricorda e lo si attende fedelmente, sempre uguale. Diventa una parte di sé, ciò che gli altri ricordano e sanno di noi.
Mi è accaduto molte volte: unire il rumore dei passi ad un volto, ad un'immagine nota e sapere, sapere prima di vedere.
Gli stivali dei prussiani hanno una cadenza netta, sono un'unica onda dove ogni personalità è annullata.
Basta sentirli una volta per non dimenticarli mai più.


Le assi del pavimento scricchiolano leggermente.
Perché è tornato? Cosa vuole da me?
Allontano il piatto vuoto e bevo un sorso di birra.
Questa casa ha i giorni contati. Questo pensiero mi solleva, ma è un'ironia amara sorridere al coltello che taglia il filo consumato della vita venuta a noia, quando il tempo comincia a ripetersi.
Adesso tengo gli scuri delle finestre sempre aperti. Forse è per lui, o forse per poter sentire la paura quando fisso l'oscurità, appena oltre il vetro.
Le emozioni sono tutte alle mie spalle, nei cinquant'anni di vita che ho attraversato senza fermarmi, senza cercare amore né amicizia.
So che mi spia, nascosto dietro le porte socchiuse, dietro le tende, guardandomi dagli alberi del giardino. Mi rimprovera, ma di cosa? Ho accudito mio padre anziano e paralizzato – o forse dovrei dire nostro padre – anche quando smaniava per l'erba non tagliata, le vacche che nessuno aveva munto, per il vecchio Södeberg che gli avrebbe portato via la terra e che avrebbe condotto le sue bestie a pascolare fin davanti alla nostra porta. Certo gli ho parlato il meno possibile, anche quando piangeva per la mamma, in silenzio e senza pudore come fanno i vecchi.
Non me l'ha mai detto ma sapevo che era per lei, morta dieci anni prima, e mi prendeva una furia silenziosa a vederlo. Mia madre era stata sua moglie e lui la piangeva come si piange un amore, una donna qualunque che si stacca imbarazzata da un abbraccio quando qualcuno entra nella stanza .
Anche tu l'hai odiato, no? Lo saprai, lo sai.
Anche tu conosci il vuoto delle frasi che scambiavamo con lui. Ma era soddisfatto, pacificato. Non me ne volevo andare di lì e lo sapeva, non so come, ma lo sapeva.
È di questo che mi rimproveri?
Sollevo gli occhi. Sull'orlo del muro di cinta sosta ancora il riflesso della luce serale. C'è un vento leggero, muove appena i rami più sottili sulle piante schierate ai lati dello stretto viale per il cancello.
Ma non ho impedito a Söderberg di portare le sue vacche nei nostri terreni. Wurts e il mezzadro brontolavano e qualche volta hanno fatto di testa loro, le hanno scacciate a bastonate ed urla.
A me bastava non sapere, non sospettare nemmeno.
Mi bastava sfogliare gli atlanti del mondo, guardare il Brasile o il Giappone o l'America del Nord per sognare, per sentirmi lì. Dei giornali leggevo solo le notizie dall'estero e di quelle solo i reportage di scoperte geografiche, di torbidi in Asia o di massacri in America.
Con la testa piena di quelle emozioni non mie attraversavo il bosco di corsa, mi sforzavo di riviverle, simulavo inseguimenti e sparatorie. Come un ragazzino.
Ho sempre cercato di non sapere nulla di fatti minuti, di cose di tutti i giorni. Reagivo rabbiosamente, firmavo quello che c'era da firmare, rispondevo a monosillabi.
Un rumore più forte e subito dopo il cigolare di un cassetto chiuso in fretta. Non troverà nulla che non conosca già, che non abbia già visto mille volte. Tutto in questa casa è stato visto mille volte, ogni cosa è consumata dagli sguardi.

A svegliarmi è la luce grigia del mattino.
Oggi ci incontreremo. Quanto può essere lunga una giornata?
Quanti attimi contiene? E si è sempre completamente se stessi per ogni attimo o si attraversa il tempo distratti, appena partecipi, tiepidi spettatori, tenuti uniti solo dal proprio profilo, dall'ombra che sfila silenziosa davanti alle finestre illuminate?
Ciò che provo a fare – e lui lo sa – è rimanere me stesso, chiuso in un attimo di immobilità completa.
Mi alzo e ripercorro il filo di gesti di ogni mattina di solitudine.
Wurts è già uscito. Ci incontriamo sempre meno. Anche lui attende, ma la sua è un'attesa quieta, indifferente. Mi avrà lasciato una tazza di latte intiepidita dall'attesa, il pane tagliato a fette, il burro giallo.
Le eriche hanno un colore più forte e intenso, sembrano difendere un angolo dimenticato di autunno. Dopo la colazione mi siedo nella vecchia cucina della servitù e aspetto.
Verrà, ne sono certo. Il richiamo per questo vecchio muro ci unisce, come ci unisce il rimpianto per un peccato inafferrabile, degno soltanto di uno sbuffo o di uno scrollare le spalle.
Wurts mi ha lasciato sul tavolo una lettera. L'ho letta sorridendo. Portava le firme di Södeberg e di altri proprietari, preoccupati dell'arrivo dei Prussiani.
Consigliano di scrivere all'Hohenzollern chiedendo il rispetto delle proprietà avite "Fondamento di ogni Legge Umana e riflesso di quella Divina".
Padroni più brillanti e giovani sostituiscono i vecchi.
Dovremmo esserne felici, come vacche munte con più cura e più spesso.
Il pendolo accompagna i miei pensieri disordinati. Per una volta mi sento sollevato dal loro peso intollerabile del loro ripetersi. Nessuna sensazione di soffocamento, di ansia, nessun sottile senso di colpa. Il loro termine è a portata di mano.
Non si sentono rumori mentre la luce acquista forza e disegna di un rosa più intenso i piccoli fiori dell'erica, affondandone nell'oscurità gli steli disordinati.
Anche lui sa dell'incontro, ma forse vuole sfuggire, nascondersi ancora una volta.
Il silenzio e il canto scandito del pendolo mi cullano.
Lascio che il mio sguardo sul muro delle eriche si annebbi e l'immagine scompaia.
Quando mi sveglio è a pochi passi da me. Eretto, sottile come un folletto, i capelli ben pettinati e molto corti, che lasciano in vista la nuca sottile da uccello.
Tiene le mani incrociate dietro la schiena e un leggero tic gli solleva una spalla ad intervalli irregolari.
Porta ancora i calzoni corti, che si fermano sul ginocchio a pochi pollici dalle calze rigorosamente bianche. Tiene il capo appena sporto in avanti ed i talloni non sono del tutto appoggiati a terra, come se dovesse fuggire da un momento all'altro.
Respira affrettatamente, e so anche senza vederlo e toccarlo che ha il viso arrossato dal vento autunnale e le ginocchia dure e fredde come pietra.
Vorrei parlargli, interrogarlo, ma la sua concentrazione così intensa, la sua rabbiosa malinconia mi spaventano. Mi alzo dalla poltrona e fuggo nei campi, cercando di nascondermi al suo sguardo.


Torno che è già sera. Sono sceso al villaggio, ho bevuto e ascoltato le chiacchiere degli artigiani e dei pochi cittadini scesi fin qui per commercio. Due giorni, al massimo tre e saranno qui. Troppi, per me.


Per la prima volta la sua presenza mi tormenta anche di notte. Quando mi sono svegliato l'alba era ancora lontana ed il silenzio completo, ma il ricordo vago di un rumore mi ha spinto fuori dal letto. Ho disceso le scale di corsa ed attraversato lo studio e la grande sala immersa nel freddo e nell'oscurità.
Quando ho fatto un po' di luce per terra c'era una giovane ghiandaia con le ali ripiegate, il collo spezzato. Da una finestra rotta entrava una bruma pallida.
– Perché? – Ho urlato con tutte le mie forze. – Perché l'hai fatto? Mi senti? – Sapevo di avere la mente infiammata da un furore assurdo ma non riuscivo a perdonare quella piccola, inutile morte. – Bastardo, mi senti? – Doveva essere da qualche parte lì vicino, immerso nell'oscurità.
Un sibilo, forse una parola. La rabbia scompare, mi sento debole, stanco. Mi chino a raccogliere il minuscolo corpo.
Sembra fatto di polvere e ritagli di stoffa. Lo osservo a lungo tenendolo disteso nelle mani unite. Non è la prima volta. Da ragazzo salivo a cercare le uova ed i pulcini nei nidi intravisti alla biforcazione dei rami. Tenevo le dita strette sui loro corpicini morbidi e mi capitava di stringere troppo scendendo o nella corsa fino a casa per mostrarli ad Elsa.
Mi fermavo di colpo, stupito da una morte tanto leggera, inavvertibile. Non avevo più il coraggio di alzare gli occhi al cielo e mi sentivo incerto, confuso, come se mi fosse sfuggita la frase più importante di un lungo discorso.
Il freddo della notte di febbraio mi prendeva lentamente, senza colpirmi né ferirmi.
– Swindells. – È la sua voce, a pochi passi da me.
Conosco quella parola, ovviamente la conosce anche lui. Non significa nulla, forse l'ho letta in qualche atlante o in qualche articolo di giornale, ma non mi ha mai abbandonato, come certe canzoncine stupide udite chissà dove che rinascono all'improvviso in un attimo di distrazione o di silenzio.
La sensazione di essere nuovamente solo e il freddo, divenuto insopportabile.
Mi vuole uccidere, soltanto adesso l'ho capito.

Penultimo o forse ultimo giorno.
Mi sono svegliato più tardi del solito, umido di sudore gelido, più debole e stanco. Mi lavo di malavoglia, sentendo sulle mani il calore eccessivo del viso.
Al piano inferiore lui sta percorrendo il salone avanti e indietro. Non si preoccupa di fare piano, anzi avverto una determinazione insolente nel posare i piedi con forza, cercando di sollevare quanta più eco possibile.
Mangio in fretta e controvoglia. Mentre mi vesto brividi insopportabili mi scuotono. Esco nella nebbia spinto dalla paura.
Lungo il viale continuo a udire il fruscio di un passo che a tratti mi segue, talvolta mi precede. Per la prima volta da giorni mi sento davvero senza speranza. Tutto sembra scivolare via, la casa è alle mie spalle, scura e sicura, ma è scomparsa dal mio mondo, come una nave che non si rivedrà più una volta scesi a terra.
Mi sta svuotando, derubando dal mio passato, e sono sempre di più un naufrago aggrappato ad un esile filo fatto di pochi giorni.


Nel pomeriggio la febbre è ancora salita.
Mi rifugio nella mia stanza e chiudo a chiave la porta.
Crollo sul letto senza svestirmi.
Passano ore scure, incerte. Nel dormiveglia agitato ho l'illusione di vederlo: sta con la schiena appoggiata all'armadio, le braccia conserte. Mi fissa tenendo le labbra incurvate a disegnare un muto fischio divertito.
Cado nel torpore della febbre e quando riapro gli occhi lo trovo ancora lì, nella stessa posizione.
Non ha fretta, il mio tempo è suo ormai.
Riesco ad alzarmi solo a sera inoltrata. Wurts se ne è andato, la stufa è spenta, la sala buia e nessuno ha apparecchiato la mia cena. Non sento rabbia, nella mia condizione più nulla è strano o ingiusto.
I Prussiani devono ormai essere vicini. Mi siedo tremando e mi sforzo di ascoltare il buio, udire il rumore dei passi cadenzati, il rotolare degli affusti dei cannoni, l'acciottolio degli zoccoli.
Ancora silenzio, ma lui è nel buio ad attendermi.
Dovrei alzarmi, accendere la stufa o almeno il caminetto, ma non importa. I brividi hanno smesso di tormentarmi.
Mi preparo a dormire ancora, in equilibrio miracoloso su questi ultimi brevi istanti.
Il suo sguardo non ha pietà né comprensione. So che ha ragione, che deve odiarmi di un odio così intenso da mantenerlo vivo ancora per molti anni.
– Avanti, il tempo è tuo ora.
È più vicino. Le sue mani mi sfiorano, mani giovani, ancora acerbe ma forti. Vorrei chiudere gli occhi ma mi sforzo di vederlo, riconoscerlo, anche se non temo nessuna sorpresa.
– Ci sono quarant'anni tra noi – mormoro. – E non sono diventato nulla. NOI non siamo diventati nulla. Sognatori inconcludenti, aridi come le rocce della luna. Tu diventerai come me e ci incontreremo ancora. Altrove, ma ci incontreremo. E sarò io a chiederti conto di tutti i momenti scivolati via, le occasioni perdute, gli amori rifiutati. Dove vai? Perché proprio tu dovresti riuscire a sfuggire? Perché tu?
Non risponde.

Non rispondo.
Mi osservo reclinare il capo sulla spalla e affondare nell'incoscienza, come mio padre dopo un pasto troppo abbondante.
Sono di nuovo solo, con il mio futuro segnato.


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