Un racconto relativamente recente - pubblicato su Fata Morgana 9, «Età, tempo, passaggi, oblio». La presentazione che scrissi allora era: «Massimo Citi, con frequenza non ancora allarmante, scrive racconti contorti e enigmatici come questo. Se qualcuno gli chiede: “cos'hai voluto dire?” balbetta qualcosa di oscuro e, appena possibile, si dà alla fuga. L'unica spiegazione è che certe storie vengono, ti attraversano e se ne vanno senza lasciare messaggi né recapiti. Probabilmente continuano a esistere da qualche parte». Una buon presentazione, direi, anche se infiltrata da un po' di baricconismo nella seconda parte. La realtà è che il titolo «Rumore bianco» mi perseguita da anni e anni e ho tentato di appiccicarlo a una mezza dozzina di racconti. Per il momento l'ho appiccicato a questo, ma se ne scrivo uno più adatto questo diventerà «Perdere la voce» o qualcosa del genere.Buona lettura.
Il
problema del nome è reale e non un fantasma dell’immaginazione
medievale. Il Logos, il verbo, trasforma il caos in una serie di
oggetti diversi e separati.
(P. K. Dick)
Ci
sono solo i piccioni, ora.
Il
tetto della fabbrica è una serie di archi color fegato. Non sono
archi diritti, piani, tesi e rigidi tra un punto e l’altro dei due
muri più lunghi, ma si inclinano come palpebre semichiuse, e hanno
per occhi vetri scuri.
...
Una
volta vendevano delle cartoline speciali in bianco e nero, qualche
rara volta a colori. Poche auto in un piazzale e una fabbrica nuova,
appena finita di costruire. C’era qualcuno che le spediva, mandava
una cartolina dalla modernità, dalla felicità, dalla sicurezza, dal
lavoro. Ne conservo alcune dentro un libro. Quei piazzali per sempre
vuoti nella fotografia mi danno una sensazione di pena smarrita, come
immaginare la gioia di una festa alla quale non sono stato invitato.
Viste
dall’alto del mio quinto piano le onde calcificate della fabbrica
mostrano ventri spezzati, frammenti di cristalli che spiovono
dall’alto e sporgono dal basso come irregolari denti di squalo. I
piccioni si fermano sulla cresta dei mattoni, infilati uno di seguito
all’altro come i merli di un castello. Probabilmente ogni tanto
volano all’interno. Mi piacerebbe essere un piccione. Da un po’
di tempo ho bisogno di spazio e la fabbrica abbandonata dev’essere
piena di vuoto, spazio polveroso, senza più odore, spazio chiuso ma
ampio. Un uccello che sfiora il soffitto di luce grigia e ragnatele e
passa con le ali aperte accanto ai denti di cristallo sporco delle
vetrate.
Ho
spesso la tentazione di entrare, passare un pomeriggio sotto la
protezione del suo silenzio definitivo. Quando lavoravano ancora (c’è
una tettoia arrugginita, la immagino irta di una rastrelliera, carica
di uncini per appendere le biciclette) non abitavo qui. Adesso mi
basta calare la mia tenda verde a pacchetto che scende a scatti,
singhiozzando, per poter dimenticare e concentrarmi su altro.
...
Concentrarmi
sulla vicina di fronte – 35 anni, bionda tinta, una bambina ma
nessun marito – che ogni sabato mattina sul pianerottolo discute
con sua madre. Lei, la nonna, ha passato la notte con la bambina (la
piccola ha un pigiama verde con pipistrelli viola e labbra brevi,
stranamente colorite come se si desse il rossetto). La madre di
trentacinque anni è stata via, ha dormito fuori e torna con il
trucco dato malamente. La bambina la guarda dal basso, complice ma
perplessa. La madre la prende in braccio frettolosa, in un gesto
spezzato dall’esitazione. La nonna non lo fa vedere per via della
bambina (che tra vent’anni comunque capirà) ma ha paura per sua
figlia, divenuta adulta senza essere grande e che vola stretta e
cieca come una falena intorno al lampadario. Ci sono già troppe
ferite, la nonna non ha cuore di chiederle nulla.
Le
guardo trattenendo il fiato: minuscole nella luce chiara che entra
dal finestrone condominiale oppure pallide nel riflesso al neon.
Misuro il loro minuto interminabile, prima che la porta mi salvi dal
sapere troppo di loro.
Con
mia moglie non se ne parlava, di lei, di loro.
Si
aspettava prima di uscire, se erano sul pianerottolo. Si scivolava
fuori a testa china, con un sorriso vuoto già pronto a un incontro
casuale. Adesso che mia moglie è via – tre mesi, con i bambini e i
genitori – posso ubriacarmi dell’imbarazzo che provo a spiarle.
Le
spio perché non riesco a parlare. Perché quando, raramente, mi
capita di incontrarle sento che le parole mi si ingolfano dentro,
tutte ugualmente sciocche, tutte ugualmente sbagliate. Perché io
suppongo molto della loro vita, riesco a immaginarla senza un filo di
compassione.
...
Accendevo
sempre la radio mentre facevo qualcosa in casa, come spolverare,
rimettere a posto un cassetto, spostare i libri in biblioteca. E
raramente mi capitava di fare davvero attenzione alle trasmissioni.
Era un’abitudine presa nell’infanzia, come il caffelatte e le
scarpe lasciate dietro la porta del bagno.
Come
in tante altre mattine la radio era scivolata dal GR del mattino al
notiziario regionale, al programma di oroscopi.
Seguiva
un programma di telefonate in diretta. Rispondeva una psicologa, una
voce garbata, accorata e noncurante come tante altre prima di lei.
Riconosco
la sua voce. Leggermente rauca, già stanca. Posso immaginare la
sigaretta accesa che tiene tra l’indice e il medio della mano
sinistra. Si spinge indietro i capelli con il pollice e il mignolo
della destra mentre tiene il telefono portatile tra il mento e la
spalla.
Da
qualche parte in casa dev’esserci anche la bambina. Come sempre fa
finta di non ascoltare.
–
Perché a un certo punto della vita manca qualcosa, capisce?
Qualcosa.
–
Diciamo un affetto?
–
Una presenza. Meglio. Ma lei sta pensando a un uomo vero? A un
marito?
–
Io non sto pensando. La ascolto.
–
Non sono gli uomini il mio problema.
(Ecco
che sorride. Per radio non la possono vedere, ma sicuramente sorride.
Nei suoi pensieri incantati c’è posto anche per il desiderio di
essere ammirata da un pubblico lontano che non la conosce e la sua
voce ha una nuova sfumatura, più conscia. La bambina, che ha
sollevato il capo per guardarla, non si rende ancora conto di capire
anche questo. Qualcun altro proverebbe disapprovazione o comprensione
per loro. Io solo una curiosità essenziale, priva di emozioni).
–
Certo, i tempi, le situazioni sono molto cambiate. Ma ha già pensato
di chiamarlo?
–
Non è questo il problema.
–
Certo, ma ci ha pensato?
–
Tante volte, glielo assicuro.
–
Crede di trovarlo poco disponibile?
–
Non credo di trovarlo. O magari dorme ancora, a quell’ora.
...
C’è
qualcosa di tenacemente incoerente nelle loro frasi, un filo
sotterraneo che per me è impossibile da afferrare. Provo ammirazione
per la sua capacità di esporsi, di raccontarsi, compiere con
leggerezza ciò che per me è sempre stato impossibile.
Chiudo
il cassetto. Temo di saltare un passaggio, qualcosa di essenziale.
Mi
costringo a un’assoluta immobilità, ridendo di me e del mio
stupido impulso.
...
–
E perché non lo chiama?
–
Mi interrompo a metà. Mi appare anche nei sogni, è pallido, quasi
non lo riconosco.
–
È sgradevole.
–
Sa, mi viene da accarezzarmi, toccarmi.
–
È normale, è normale. Normale ma sgradevole.
–
Mi tocco, mi fa male, non ho le mani pulite mentre lo faccio, qualche
volta ho in mano un coltello. Tagliavo le fragole. Esce sangue o
forse sono le fragole.
–
È normale, normale ma sgradevole.
–
Ma non è per me, è per la bambina. Si può impressionare.
–
Certo, mi chiami ancora, le posso dare il numero del mio studio.
–
Posso memorizzarlo sul portatile. Ha molte memorie, posso memorizzare
fino a duecento numeri. Me l’hanno regalato.
–
Certo. È bello. Scriva…
...
Sono
certo di avere ascoltato con attenzione, di non aver perduto nemmeno
una parola.
E
allora perché ho la netta sensazione di non aver capito nulla? Non
solo, perché ho la sensazione che il loro dialogo raccontasse
qualcosa che io non potrò mai comprendere?
Non
è la prima volta che mi accade. Spesso ho la sensazione che manchino
brani di frasi, parole, sillabe ai discorsi degli altri.
Probabilmente
me ne sono accorto da anni, pur senza volerlo ammettere. E infatti da
anni evito le conversazioni – ogni volta che mi è possibile – mi
nascondo dietro formule ovvie, affermazioni recise e irrefutabili,
riferimenti a terzi, citazioni. Mi sforzo di non mettere nulla, di
mio. Mi risparmio, mi trattengo. Se tento di dare un colore, un senso
a tutto ciò che ho detto in anni di vita e di conversazioni ho la
sensazione che resti ben poco, bolle di sapone che lasciano un breve
cerchio di umidità sul muro. E sono certo che tutti se ne siano
accorti.
...
Ho
in mente un’immagine, forse il ricordo di un sogno. Formiche brune
che scivolano lente su un muro coperto di asfalto, freddo ma non
ancora solidificato. Le formiche sollevano le zampe dall’asfalto
che le trattiene, lentamente, ma non sono spaventate. Scuotono il
capo, oscillano le antenne. Minuscole dense gocce di asfalto
scivolano loro sul corpo. Le formiche volgono la testa, succhiano
l’asfalto – forse non si tratta di asfalto, ma di qualcosa di
denso e dolce – e riprendono a camminare. Tutto avviene con una
lentezza snervante. Le formiche giungono al limite del muro e
riprendono a salire. Il movimento – insistito, languido – non
cessa mai.
...
Certi
giorni ho la sensazione di essere l’unico a vedere il mondo in
bianco e nero mentre tutti gli altri lo vedono colorato. Ho smesso di
aspettare il ritorno della famiglia («Sarà meglio che facciamo un
po’ di vita separata, noi», ha detto, «sarà meglio che tenga io
i bambini», va bene va bene) e ho fatto in modo di dover uscire il
meno possibile.
Ascolto.
Collego alla radio le cuffie dello stereo – cuffie ottime che
liberano un suono puro, perfetto – e virtualmente mi siedo accanto
a chi trasmette.
Sono
colpito da un’accidia bizzarra che non riesco a spiegare neppure a
me stesso e che si prolunga. Ieri sono arrivato davanti al mare.
Passavano poche auto, ancora meno pedoni. Il sole mi sembrava più
inclinato, più lento. Di nuovo le formiche, di nuovo quella
sensazione snervante di densità, quel languore che odora di bruciato
e brulica di innumerevoli movimenti ripetuti, inutili. Le nuvole
sospese sull’orizzonte non riuscivano a specchiarsi nel mare, non
c’erano più ombre, alle mie spalle il vuoto, un vuoto incolore
striato di pochi rumori metallici.
...
A
casa ho infilato le cuffie. Rumore bianco. La frequenza è scivolata
in una zona vuota. Potrei alzarmi nuovamente per ritrovare la
sintonia. Non lo faccio, chiudo gli occhi e ascolto.
...
Non
mi interrompo per mangiare. Solo per andare ad ascoltare qualche
volta alla porta, sperando di cogliere qualcosa di lei. Tre
generazioni di donne senza un solo uomo destinato a durare. Qualche
volta la vedo. Stamattina aveva una specie di camicetta, un top di
pizzo. Le lasciava scoperte le spalle e una sottile striscia del
ventre, appena sopra i pantaloni dalla vita bassa. Non la spio per il
desiderio (anche se i suoi capezzoli molto scuri mi hanno emozionato)
ma perché non sono obbligato a parlare per lei. Stamattina molto
presto ascoltavo la radio e pensavo: quando riprenderò a parlare ciò
che riuscirò a produrre sarà solo rumore bianco.
...
Chissà
dove va? Chissà con chi va?
Non
posso fermarla, non voglio fermarla.
…
Mi tocco, mi fa male, non ho le mani pulite mentre lo faccio…
Probabilmente
con nessuno. Semplicemente si espone, si concede a lattine taglienti,
frammenti di copertone, lamette usate, avanzi di cibo, sacchetti
sfondati.
…
qualche volta ho in mano un coltello. Tagliavo le fragole. Esce
sangue o forse sono le fragole.
Dove
va quando si allontana? Quando esce dall’orizzonte curvo e certo
della mia osservazione?
...
Mi
tolgo le cuffie. Il rumore bianco non mi abbandona.
...
Fuori
dalla porta di casa – accuratamente serrata – oltre i muri
sottili, odo la replica interminabile di suoni sempre uguali. Una
voce nasale, un oggetto che cade, il rumore di una sedia trascinata.
Mi sono reso conto che sono sempre gli stessi, ripetuti con una
frequenza fissa.
In
strada c’è una strana calma: niente motori, niente clacson. Come
una domenica mattina di Natale, sotto la neve.
Con
la schiena contro il muro, le braccia raccolte intorno alle ginocchia
tengo gli occhi ben chiusi e mi affido interamente all’udito.
...
Stamattina
sono arrivato sino alla finestra aperta e deliberatamente ho guardato
solo verso l’alto: il cielo. Verde-azzurro era attraversato da un
sottile ricamo dorato disegnato dalle curve sinuose delle nubi che
nascondevano il sole: nubi azzurre, simili a enormi confetti o a
matasse di zucchero filato all’anice.
Sul
tetto della fabbrica i piccioni sono scomparsi, come non fossero mai
esistiti. Chiudo le persiane lasciando vivere solo pochi fili di
luce.
Provo
il desiderio spasmodico di ridere: un prurito alla base del cervello
che non avevo mai sentito prima. I profili degli oggetti in penombra
sono sfumati, come in un disegno in bianco e nero bagnato e poi
asciugato.
Faccio
scattare il grilletto dell’affetto e dell’ansia, ma scatta a
vuoto. La famiglia al mare è lontana, tranquilla. Foto di gruppo,
senza dedica né didascalie. Sento il silenzio, dentro, e la voglia
di ridere.
...
Da
bambino… che cosa si ricorda di reale della propria infanzia? C’è
il proprio ricordo, inerte, nebuloso e ci sono i ricordi degli altri,
degli adulti che non sono affatto nebulosi ma definiti, netti, lucidi
come compassi e si imprimono nella mente più dei propri, fino a
sostituirli completamente. Quella volta che… allora hai
dimostrato il tuo carattere… un caratterino… l’hai preso al
volo… l’hai preso per la mano e… Come essere un uovo: nel
piccolo, nel poco, c’era già scritto per intero il codice del
futuro. Gli adulti che cercavano rassicurazioni, che volevano la
prova, la testimonianza che qualcosa di loro sarebbe sopravvissuto.
Da
bambino inventavo le parole. C’erano le parole dei grandi,
solidamente ancorate a oggetti, stati d’animo, sensazioni. E poi
c’erano le mie parole: volubili, instabili, che non si
ripresentavano mai due volte nella stessa forma. Che non avevano mai
un senso dichiarato, un corrispondente nella realtà. Le pronunciavo
di nascosto, a bassa voce, prima di dormire o quando mia madre
riposava e non poteva ascoltarmi. Ero assolutamente solo in quei
momenti. E l’essere solo mi esaltava, mi faceva sentire unico.
Unico come altri cinque miliardi di individui, ma allora non potevo
saperlo.
...
Oggi
è venuta a trovarmi. L’ho vista inquadrata nella porta accesa di
una luce di cenere. Portava solo il suo top di pizzo e aveva
capezzoli del colore del catrame. Gusci d’uovo attaccati
all’interno delle cosce. Le formiche la seguivano. Ho sorriso anche
mentre lei mi guardava. Non so come abbia fatto a entrare ma sono
stato felice. Non mi ha chiesto di parlarle, non mi ha chiesto di
risponderle. Potevo vederla anche senza aprire gli occhi. C’era un
silenzio solido, denso che avrebbe potuto ingoiare ogni rumore. Onde
lente che mi hanno gentilmente spostato, trascinato fuori dalla vita,
liberato dalle parole.
L’aria
ferma ha un vago odore di chiesa. Legno umido e invecchiato, incenso
bruciato centinaia di volte. Entra dalla finestra chiusa e si
sovrappone al mio odore animale. O forse non entra e si è
semplicemente sostituito al mio, un sentore prodotto da qualcosa che
cambia qui dentro, qui proprio vicino a me. Mi sono mosso appena lo
stretto indispensabile, in questi giorni. Non ho più parlato. Di
tanto in tanto accendo la radio. Non cerco più frequenze abitate.
Solo una, dove una voce senza sesso ride e ripete poche parole,
fonemi idioti. Parla la propria lingua, anche lui, come facevo io.
Probabilmente anche sua madre dorme. O forse è notte, e lui si sente
finalmente solo.
...
La
luce dietro le persiane ruota nel tempo. Quando un raggio di sole le
attraversa guardo la polvere vagare, oscillare seguendo propri
percorsi imprevedibili. Da qualche giorno i rumori sono cessati.
Silenzio nel condominio e nelle strade. Adesso, a sentirlo, ho la
sensazione che sia sempre stato così. Ho notato che le mie parole
cominciano a spostarsi, a nascondersi. Scrivo a fatica, ritorno sulle
righe e cancello, riscrivo. Oggi ho scritto innumerevoli volte
«Imbuto», una delle prime parole che ho imparato. Vuol dire
senz’altro qualcosa, ma non so che cosa. Cerco di non trascrivere
ancora le finte parole che mi vengono in mente. Non ho più aperto
bocca, non ho più pronunciato una sola sillaba a voce alta. Sono
certo che le parole che non pronuncio, la comunicazione ridotta a
zero, finiranno per disseccare la riserva di ricordi che mi cullo
nella mente.
Libero
di ricominciare da capo.
Non
scende più acqua dai rubinetti. Ho riacceso la radio, ma non
esistono più frequenze né trasmissioni, neppure una, solo un rumore
bianco rimbombante.
Ho
alzato il volume al massimo, comincio a riconoscere ritmi e cadenze
in ciò che emerge dalle cuffie, ne intuisco un senso. Non riesco a
immaginare quale sia.
...
Volo
nell’aria polverosa della fabbrica, ne respiro gli odori,
stratificati come lamine di pietra, sfioro il soffitto annidato di
ragnatele, passo accanto alla luce torbida dei vetri retinati. Il mio
sguardo esplora il silenzio, oltrepassa porte dalle cornici
scheggiate. Non sento nessun desiderio di tornare al cielo,
appartengo per intero a un’altra materia e le ali sono il ricordo
di un sogno fatto da bambino.
Sono
quieto, in pace. Ciò che della realtà riesce ad arrivare fino qui,
fino ai miei sensi esaltati è stranamente lucido, essenziale. Puro,
vorrei dire.
Cerco
di dimenticare le parole.
...
Prima
di imbuto ho imparato a scrivere mamma, ho imparato a dire mamma.
Mamma. Scrivo ancora mamma per dimenticare. Facile. Troppo facile.
Non costa fatica, mamma. Non fa fatica. Fatica. Mamma.
...
Fshhhhhhhhhhhh,
rumore bianco. Bianco, camicia, luce. Suoni in strada. È
ricominciato. Come quando si spostano mobili, grossi mobili. La luce
oscilla, scompare, alle volte. Dovrei uscire, parlare. Scivolano via
spariscono se ne vanno una per una senza salutare, senza il mio
permesso scompaiono via via via via un vuoto dentro dentro sorrido
sorrido labbra secche parlo dico mamma mamma mamma senza ancora
riuscire a perderla
...
senza
acqua quattro cinque giorni sono a sette ultimo giorno luce grigia e
bianca luce breve rumori vicino sulle scale rumori si alzano come
acqua alla mia porta sotto la mia porta adesso esco a cercare acqua
poi parlo parlo dico e penso penso ancora penso ancora
2 commenti:
Mi hai fatto venire dei brividi che nemmeno ti immagini!
Bellissimo racconto al solito scritto proprio bene!
Grazie di averlo condiviso, è stato molto emozionante leggerlo e so che l'emozione ci metterà un bel po' a svanire, come accade sempre quando leggo ciò che scrivi. :)
@Cily: mi fa molto piacere ti sia piaciuto, anche se forse "piaciuto" non è del tutto la parola giusta :O
Ho pubblicato il racconto anche se è indubbiamente "difficile" - il che non significa "bello", ovviamente - e sinceramente non osavo sperare in un commento. Il racconto è nato come una scommessa - scrivere un racconto nel quale il protagonista tenti di liberarsi delle troppe parole udite, divenute logore e inutili - che credo di aver perso. Ma è stato comunque bello provarci.
A giudicare dall'ora in cui hai postato il commento direi che hai persino sottratto un po' di tempo al tuo sonno. Grazie e un grosso abbraccio.
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