Il burn-out
Credevo riguardasse gli infermieri professionali. I vigili del fuoco. Gli operatori sociali. Chiunque si adoperi a rendere la vita dei propri simili un po’ meno atroce.
Insomma tutte quelle categorie di individui chiamati a un impegno prolungato e costante, alla pazienza e alla gentilezza, all’equilibrio e alla pacatezza.
Credevo.
Poi ho scoperto, parlando con alcuni colleghi ma anche interrogando me stesso, che mi riguarda.
Non sono ancora del tutto bruciato-fuori, ma quasi.
È stato un fenomeno lento e costante, come un bradisismo dell’anima, una deriva dei continenti del temperamento.
Impossibile definirne le tappe, rintracciare un punto di ripristino di configurazione del sistema. Sono soltanto cosciente di essere qui, come in certe mappe («voi siete qui»), mentre prima ero «lì».
Prima, quando ero «lì» avevo pazienza. Sorridevo come un padre benigno davanti alla scheda del libro stupidino («in fondo devono stampare anche questi. Se stampano questi – e “questi” potevano essere le vignette di Forattini come il libro gonfiabile di Roberto D’Agostino – poi hanno i soldi per stampare i veri libri»), scuotevo dolcemente la testa, muovevo la mano in un educato diniego degno di una romantica donna inglese.
Prima, quando ero «lì» ero molto civile. Molto tollerante.
Con i rappresentanti e con i clienti.
Altri tempi, altri momenti.
Adesso so di non avere più pazienza. Non ho più voglia di nascondere il mio parere su un libro, su un editore, su un autore, su un’operazione editoriale. Non sopporto più di fingere educato interessamento per chi cerca di convincermi che il libro su vita e amori di Camilla e Carlo – un esempio tra tanti, i troppi – sia qualcosa di diverso da una volgare speculazione sui fatti privati di gente della quale non me n’importa nulla e che credo – a torto o a ragione – non debba importare nulla a nessuno.
Faccio male.
Sconcerto rappresentanti, turbo benpensanti, terrorizzo vecchiette.
«Non me n’importa nulla se esce la biografia di Valentino Rossi, se escono le memorie di Gianna Nannini, se pubblicano uno studio su Costantino Vitagliano! Me n’impipo dei trascorsi erotici di Paris Hilton, vivo bene anche senza sapere che esiste un tizio di cognome Fullin che va in giro vestito da donna, o che mezzo mondo diventa scemo a scrivere numeri dentro uno schema quadrato».
Eppure dovrebbe importarmene.
I rappresentanti – pochi divertiti, alcuni allarmati – me lo fanno notare. Cercano di ricondurmi alla ragione. «QUESTO è ciò che la GENTE vuole. Son tempi duri, son tempi amari… bisogna abbozzare, lo sappiamo, è m… pura, ma si vende.»
Questo genere di discorso non mi hai convinto.
«Ciò che la gente vuole.»
Volere è una parola grossa. Davvero troppo grossa per questo genere di ogggetti. La gente, quella che secondo il nostro Benamato premier «ha la cultura di uno studente di seconda media non troppo sveglio» non «vuole», si limita a scegliere all’interno di un’offerta sempre più ridotta e standardizzata. Conosco gente che ricerca da anni un libro esaurito e letto in altri tempi. Riuscite a immaginare qualcuno che, tra dieci anni, cerchi disperatamente un libro di Luciana Litizzetto?
Le barzellette su Totti?
Corsi e ricorsi ma non arrivai di Giobbe Covatta?
Il libro di Bruno Vespa uscito nel 2003?
(Chissà com’era intitolato? Ci sarà mica stata la parola «Berlusconi» nel titolo?)
Sui banchi delle librerie e degli store di catena i prodotti cartacei dei grandi editori sgomitano, si accavallano, si sovrappongono, si confondono… La loro futilità tracima, si diffonde nell’aria come un effluvio dolciastro e spossante… come resistere? Perché resistere?
Già. Ma se si tratta dei prodotti che «la gente vuole» perché non sono miliardario? Perché la gente non si accalca ad acquistare?
Ma anche la parola «editori» ha perso significato, ormai.
L’editoria libraria è divenuta una semplice provincia di confine di imperi mediatici sui quali non tramonta mai il sole, parti di una «sinergia» talmente convulsamente reiterata da assumere il sapore di un atto impuro coatto, nato dalla noia e dello spleen.
Esistono ancora editori, grazie al cielo. Gente che immagina possibili lettori per i propri libri. Non è detto che siano capolavori, i loro libri. Magari non lo sono, ma si dovrebbe apprezzare lo sforzo, la fatica, l’impegno. Sono titoli che faticano a trovare spazio in libreria, pallide ombre seminascoste dai sagomoni e dai crowner. Libri che non hanno una vita lunga e probabilmente nemmeno molte occasioni. Ma sono ciò che ci resta. Il nostro futuro.
Credevo riguardasse gli infermieri professionali. I vigili del fuoco. Gli operatori sociali. Chiunque si adoperi a rendere la vita dei propri simili un po’ meno atroce.
Insomma tutte quelle categorie di individui chiamati a un impegno prolungato e costante, alla pazienza e alla gentilezza, all’equilibrio e alla pacatezza.
Credevo.
Poi ho scoperto, parlando con alcuni colleghi ma anche interrogando me stesso, che mi riguarda.
Non sono ancora del tutto bruciato-fuori, ma quasi.
È stato un fenomeno lento e costante, come un bradisismo dell’anima, una deriva dei continenti del temperamento.
Impossibile definirne le tappe, rintracciare un punto di ripristino di configurazione del sistema. Sono soltanto cosciente di essere qui, come in certe mappe («voi siete qui»), mentre prima ero «lì».
Prima, quando ero «lì» avevo pazienza. Sorridevo come un padre benigno davanti alla scheda del libro stupidino («in fondo devono stampare anche questi. Se stampano questi – e “questi” potevano essere le vignette di Forattini come il libro gonfiabile di Roberto D’Agostino – poi hanno i soldi per stampare i veri libri»), scuotevo dolcemente la testa, muovevo la mano in un educato diniego degno di una romantica donna inglese.
Prima, quando ero «lì» ero molto civile. Molto tollerante.
Con i rappresentanti e con i clienti.
Altri tempi, altri momenti.
Adesso so di non avere più pazienza. Non ho più voglia di nascondere il mio parere su un libro, su un editore, su un autore, su un’operazione editoriale. Non sopporto più di fingere educato interessamento per chi cerca di convincermi che il libro su vita e amori di Camilla e Carlo – un esempio tra tanti, i troppi – sia qualcosa di diverso da una volgare speculazione sui fatti privati di gente della quale non me n’importa nulla e che credo – a torto o a ragione – non debba importare nulla a nessuno.
Faccio male.
Sconcerto rappresentanti, turbo benpensanti, terrorizzo vecchiette.
«Non me n’importa nulla se esce la biografia di Valentino Rossi, se escono le memorie di Gianna Nannini, se pubblicano uno studio su Costantino Vitagliano! Me n’impipo dei trascorsi erotici di Paris Hilton, vivo bene anche senza sapere che esiste un tizio di cognome Fullin che va in giro vestito da donna, o che mezzo mondo diventa scemo a scrivere numeri dentro uno schema quadrato».
Eppure dovrebbe importarmene.
I rappresentanti – pochi divertiti, alcuni allarmati – me lo fanno notare. Cercano di ricondurmi alla ragione. «QUESTO è ciò che la GENTE vuole. Son tempi duri, son tempi amari… bisogna abbozzare, lo sappiamo, è m… pura, ma si vende.»
Questo genere di discorso non mi hai convinto.
«Ciò che la gente vuole.»
Volere è una parola grossa. Davvero troppo grossa per questo genere di ogggetti. La gente, quella che secondo il nostro Benamato premier «ha la cultura di uno studente di seconda media non troppo sveglio» non «vuole», si limita a scegliere all’interno di un’offerta sempre più ridotta e standardizzata. Conosco gente che ricerca da anni un libro esaurito e letto in altri tempi. Riuscite a immaginare qualcuno che, tra dieci anni, cerchi disperatamente un libro di Luciana Litizzetto?
Le barzellette su Totti?
Corsi e ricorsi ma non arrivai di Giobbe Covatta?
Il libro di Bruno Vespa uscito nel 2003?
(Chissà com’era intitolato? Ci sarà mica stata la parola «Berlusconi» nel titolo?)
Sui banchi delle librerie e degli store di catena i prodotti cartacei dei grandi editori sgomitano, si accavallano, si sovrappongono, si confondono… La loro futilità tracima, si diffonde nell’aria come un effluvio dolciastro e spossante… come resistere? Perché resistere?
Già. Ma se si tratta dei prodotti che «la gente vuole» perché non sono miliardario? Perché la gente non si accalca ad acquistare?
Ma anche la parola «editori» ha perso significato, ormai.
L’editoria libraria è divenuta una semplice provincia di confine di imperi mediatici sui quali non tramonta mai il sole, parti di una «sinergia» talmente convulsamente reiterata da assumere il sapore di un atto impuro coatto, nato dalla noia e dello spleen.
Esistono ancora editori, grazie al cielo. Gente che immagina possibili lettori per i propri libri. Non è detto che siano capolavori, i loro libri. Magari non lo sono, ma si dovrebbe apprezzare lo sforzo, la fatica, l’impegno. Sono titoli che faticano a trovare spazio in libreria, pallide ombre seminascoste dai sagomoni e dai crowner. Libri che non hanno una vita lunga e probabilmente nemmeno molte occasioni. Ma sono ciò che ci resta. Il nostro futuro.
Faccio
male, dicevo.
Non dovrei avere un’espressione tediata e ostentare disgusto se una povera vittima del bombardamento mediatico si palesa in libreria a chiedere «l’ultimo libro di Iva Zanicchi».
Perché ho voglia di rispondere: «Ma sa scrivere Iva Zanicchi? Sa leggere? Sa cos’è un libro? A cosa serve? E lei, lei, lo sa cos’è un libro? Come può pensare che tra Iva Zanicchi e i libri possa esistere un legame? È come credere che esista un legame tra un arcobaleno e un paio di pedalini da palestra. Il sublime e l’ordinario. La luna e sei soldi. Le margherite e i porci.»
Non lo dico, intendiamoci. Taccio. Ma mi rendo conto di dimostrare impazienza e nervosismo. Di apparire superbo e sprezzante.
È il burn-out.
Ciò che io stesso non sopportavo nei librai che frequentavo da giovane.
Non dovrei avere un’espressione tediata e ostentare disgusto se una povera vittima del bombardamento mediatico si palesa in libreria a chiedere «l’ultimo libro di Iva Zanicchi».
Perché ho voglia di rispondere: «Ma sa scrivere Iva Zanicchi? Sa leggere? Sa cos’è un libro? A cosa serve? E lei, lei, lo sa cos’è un libro? Come può pensare che tra Iva Zanicchi e i libri possa esistere un legame? È come credere che esista un legame tra un arcobaleno e un paio di pedalini da palestra. Il sublime e l’ordinario. La luna e sei soldi. Le margherite e i porci.»
Non lo dico, intendiamoci. Taccio. Ma mi rendo conto di dimostrare impazienza e nervosismo. Di apparire superbo e sprezzante.
È il burn-out.
Ciò che io stesso non sopportavo nei librai che frequentavo da giovane.
Strano sia
finito a fare questo mestiere.
Da giovane non amavo le librerie. Fino ai diciassette-diciotto anni ero un frequentatore assiduo di bancarelle. Ho conosciuto Shakespeare, Pirandello, Chesterton, Pavese, Calvino, Borges, Dick, Buzzati e non so quanti altri autori esclusivamente attraverso libri esauriti o usati. Sulle bancarelle nessuno mi stressava, nessuno mi osservava, nessuno mi dava la sensazione di sorvegliare e giudicare le mie mosse.
Disertavo le librerie.
Nelle librerie politicamente schierate la gente se la tirava da morire, in quelle prive di caratterizzazioni politiche controllavano soltanto che non uscissi con un libro sotto la giacca.
In tutti i casi i librai mi sembravano gente che non si meritava di vivere in paradiso. Angeli annoiati e strafottenti, beati con la puzza sotto il naso.
E non sono pochi a dirmi che molti librai non sono guariti da pose e sussieghi.
A guarirli, radicalmente, ci penseranno i megastore che li porteranno via.
Tutti, imparzialmente.
Da giovane non amavo le librerie. Fino ai diciassette-diciotto anni ero un frequentatore assiduo di bancarelle. Ho conosciuto Shakespeare, Pirandello, Chesterton, Pavese, Calvino, Borges, Dick, Buzzati e non so quanti altri autori esclusivamente attraverso libri esauriti o usati. Sulle bancarelle nessuno mi stressava, nessuno mi osservava, nessuno mi dava la sensazione di sorvegliare e giudicare le mie mosse.
Disertavo le librerie.
Nelle librerie politicamente schierate la gente se la tirava da morire, in quelle prive di caratterizzazioni politiche controllavano soltanto che non uscissi con un libro sotto la giacca.
In tutti i casi i librai mi sembravano gente che non si meritava di vivere in paradiso. Angeli annoiati e strafottenti, beati con la puzza sotto il naso.
E non sono pochi a dirmi che molti librai non sono guariti da pose e sussieghi.
A guarirli, radicalmente, ci penseranno i megastore che li porteranno via.
Tutti, imparzialmente.
Ogni tanto
mi viene il dubbio di essere diventato così.
Di guardare con sufficienza, di esprimere degnazione, esibire boria, dimostrare insofferenza. Certo, non sono ancora arrivato a benedire con un «che libro cretino» l’acquisto di un cliente una volta perfezionata la vendita (fatto realmente accaduto) ma forse non mi rendo nemmeno più conto degli scherzi che mi gioca il mio inconscio bruciato.
Forse riesco ancora a fingere, a dissimulare, ma non ne sono troppo sicuro. Sicuramente so di avere sempre fretta, di essere sempre irritato, di passare molto, troppo tempo a immaginare ulteriori spazi per ospitare orde di (inutili) novità che non lasceranno alcuna traccia e altrettanto a preparare scatoloni di rese.
Qualcuno se ne accorge di questo lavorio dietro le quinte? Qualcuno riesce a sapere del romanzo africano giunto in due copie e frettolosamente tolto dall’esposizione per far posto all’ennesima confessione smutandata?
Non credo.
L’«aspra, scandalosa confessione di un malessere esistenziale» (leggi confessione smutandata) troverà posto, colonne e spazi su giornali e settimanali. Favori ricambiati o favori richiesti in un mercato della «promozione» che si candida a sostituire la promozione editoriale vera e propria, fatta di rappresentanti che macinano migliaia di chilometri ogni anno.
Il romanzo o il saggio meno corrivi difficilmente riescono a trovare posto in questa industria dell’infinito intrattenimento, della leggerezza obbligatoria. Viviamo circondati da tragedie poco serie, esistiamo a metà in un presente paralizzato che non riesce a diventare storia.
Probabilmente anch’io, come molti, accumulo impazienza e covo intolleranza. E sono stufo di essere, sia pure in modo marginale e temporaneo, complice di una congiura che mira al rimbambimento generale.
Mi manca chiarezza, certo. Talvolta me la prendo con le persone sbagliate. Un processo non è un individuo, soprattutto se le responsabilità individuali sono diluite in decine, centinaia di passaggi.
Chi dedica spazio a un libro inutile lo fa per sopravvivere. Anche chi l’ha scritto. E chi lo promuove. Chi lo stampa, chi lo espone, chi lo consegna, chi lo acquista e magari lo legge.
I libri inutili sono sempre esistiti. I libri cretinetti, futili, stupidini, insulsi. Ma adesso sono diventati troppi. Soffocanti e protervi, oscurano i libri vivi. Tentano di raccontarci la storia che leggere sia facile come guardare la televisione. Che leggere non costi fatica, non ci coinvolga, non ci chieda di prendere posizione o di riflettere su noi stessi.
Aspirano a diventare l’unica forma di lettura praticabile nei tempi affannosi e frantumati della nostra vita. Sono performanti, creano un canone e una forma destinata a ripetersi e perpetuarsi.
Mirano a diventare l’unico tipo di libro possibile.
Mentre gli altri, i libri veri, sono pesanti, faticosi, lenti.
Vecchi, in un parola.
Di guardare con sufficienza, di esprimere degnazione, esibire boria, dimostrare insofferenza. Certo, non sono ancora arrivato a benedire con un «che libro cretino» l’acquisto di un cliente una volta perfezionata la vendita (fatto realmente accaduto) ma forse non mi rendo nemmeno più conto degli scherzi che mi gioca il mio inconscio bruciato.
Forse riesco ancora a fingere, a dissimulare, ma non ne sono troppo sicuro. Sicuramente so di avere sempre fretta, di essere sempre irritato, di passare molto, troppo tempo a immaginare ulteriori spazi per ospitare orde di (inutili) novità che non lasceranno alcuna traccia e altrettanto a preparare scatoloni di rese.
Qualcuno se ne accorge di questo lavorio dietro le quinte? Qualcuno riesce a sapere del romanzo africano giunto in due copie e frettolosamente tolto dall’esposizione per far posto all’ennesima confessione smutandata?
Non credo.
L’«aspra, scandalosa confessione di un malessere esistenziale» (leggi confessione smutandata) troverà posto, colonne e spazi su giornali e settimanali. Favori ricambiati o favori richiesti in un mercato della «promozione» che si candida a sostituire la promozione editoriale vera e propria, fatta di rappresentanti che macinano migliaia di chilometri ogni anno.
Il romanzo o il saggio meno corrivi difficilmente riescono a trovare posto in questa industria dell’infinito intrattenimento, della leggerezza obbligatoria. Viviamo circondati da tragedie poco serie, esistiamo a metà in un presente paralizzato che non riesce a diventare storia.
Probabilmente anch’io, come molti, accumulo impazienza e covo intolleranza. E sono stufo di essere, sia pure in modo marginale e temporaneo, complice di una congiura che mira al rimbambimento generale.
Mi manca chiarezza, certo. Talvolta me la prendo con le persone sbagliate. Un processo non è un individuo, soprattutto se le responsabilità individuali sono diluite in decine, centinaia di passaggi.
Chi dedica spazio a un libro inutile lo fa per sopravvivere. Anche chi l’ha scritto. E chi lo promuove. Chi lo stampa, chi lo espone, chi lo consegna, chi lo acquista e magari lo legge.
I libri inutili sono sempre esistiti. I libri cretinetti, futili, stupidini, insulsi. Ma adesso sono diventati troppi. Soffocanti e protervi, oscurano i libri vivi. Tentano di raccontarci la storia che leggere sia facile come guardare la televisione. Che leggere non costi fatica, non ci coinvolga, non ci chieda di prendere posizione o di riflettere su noi stessi.
Aspirano a diventare l’unica forma di lettura praticabile nei tempi affannosi e frantumati della nostra vita. Sono performanti, creano un canone e una forma destinata a ripetersi e perpetuarsi.
Mirano a diventare l’unico tipo di libro possibile.
Mentre gli altri, i libri veri, sono pesanti, faticosi, lenti.
Vecchi, in un parola.
Sono
bruciato, effettivamente.
O forse dovrei dire che non sono normalizzabile. Non sono funzionale.
O forse dovrei dire che non sono normalizzabile. Non sono funzionale.
Sono
vecchio anch’io e non c’è verso di sistemarmi da qualche parte
nella catena distributiva del libro moderno.
Non si può vendere il libro moderno con la luna storta, via!
Forse sarà bene cominci a imparare a memoria un libro.
Bradbury aveva torto. Non c’era bisogno di bruciarli, i libri.
Basta farli dimenticare. O forse basta bruciare chi li scrive, li pubblica, ne parla, li distribuisce.
Non si può vendere il libro moderno con la luna storta, via!
Forse sarà bene cominci a imparare a memoria un libro.
Bradbury aveva torto. Non c’era bisogno di bruciarli, i libri.
Basta farli dimenticare. O forse basta bruciare chi li scrive, li pubblica, ne parla, li distribuisce.
5 commenti:
Il bradisismo dell'anima (bellissima espressione, complimenti) sta invadendo tutto.
@Marcella: ma non è detto, non è detto. È incredibile ma la gente comincia ad essere stanca e stufa di rimanere ignorante, tanto più se ha la sensazione che qualcuno da tutta questa felice ignoranza ci guadagni e non poco. Posso sbagliarmi e quasi sicuramente è così, ma bisogna stare attenti: il meglio deve ancora venire.
Beh, allora dopo tutto questo bradisismo dell'anima, aspetterò che l'anima esploda! In fondo, in fondo lo penso anch'io.
Il problema non è dare alle persone ciò che vogliono. Il problema è che le persone vogliono le cose sbagliate oppure non sanno cosa vogliono oppure, più onestamente, non vogliono le stesse cose che vogliamo noi.
@Romina: sacrosanto, in teoria. E in vita mia non mi sognerei mai di tentare di subornare un cliente spingendolo più o meno consciamente a scegliere un libro da me preferito. Ma qui non si parla tanto di opinioni proprie quanto di opinioni create da un sistema di comunicazione pervasivo e volgare. Se qualcuno entra (... se qualcuno fosse entrato...) in libreria richiedendo libri di Ezra Pound o di Maurice Brasillach o di Ernst Jünger - cose in realtà realmente accadute - non avrei avuto difficoltà a servirlo. Ma vendere Iva Zanicchi accreditandola come possibile avversario politico... no, questo proprio no : )
A parte gli scherzi, il problema è, secondo me, quello di cedere a una tendenza prevalente piuttosto che di manifestare un parere diverso dal mio.
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