26.1.13

Rumore bianco

Un racconto relativamente recente - pubblicato su Fata Morgana 9, «Età, tempo, passaggi, oblio». La presentazione che scrissi allora era: «Massimo Citi, con frequenza non ancora allarmante, scrive racconti contorti e enigmatici come questo. Se qualcuno gli chiede: “cos'hai voluto dire?” balbetta qualcosa di oscuro e, appena possibile, si dà alla fuga. L'unica spiegazione è che certe storie vengono, ti attraversano e se ne vanno senza lasciare messaggi né recapiti. Probabilmente continuano a esistere da qualche parte». Una buon presentazione, direi, anche se infiltrata da un po' di baricconismo nella seconda parte. La realtà è che il titolo «Rumore bianco» mi perseguita da anni e anni e ho tentato di appiccicarlo a una mezza dozzina di racconti. Per il momento l'ho appiccicato a questo, ma se ne scrivo uno più adatto questo diventerà «Perdere la voce» o qualcosa del genere.Buona lettura



Il problema del nome è reale e non un fantasma dell’immaginazione medievale. Il Logos, il verbo, trasforma il caos in una serie di oggetti diversi e separati.
(P. K. Dick)

Ci sono solo i piccioni, ora.
Il tetto della fabbrica è una serie di archi color fegato. Non sono archi diritti, piani, tesi e rigidi tra un punto e l’altro dei due muri più lunghi, ma si inclinano come palpebre semichiuse, e hanno per occhi vetri scuri.
...
Una volta vendevano delle cartoline speciali in bianco e nero, qualche rara volta a colori. Poche auto in un piazzale e una fabbrica nuova, appena finita di costruire. C’era qualcuno che le spediva, mandava una cartolina dalla modernità, dalla felicità, dalla sicurezza, dal lavoro. Ne conservo alcune dentro un libro. Quei piazzali per sempre vuoti nella fotografia mi danno una sensazione di pena smarrita, come immaginare la gioia di una festa alla quale non sono stato invitato.
Viste dall’alto del mio quinto piano le onde calcificate della fabbrica mostrano ventri spezzati, frammenti di cristalli che spiovono dall’alto e sporgono dal basso come irregolari denti di squalo. I piccioni si fermano sulla cresta dei mattoni, infilati uno di seguito all’altro come i merli di un castello. Probabilmente ogni tanto volano all’interno. Mi piacerebbe essere un piccione. Da un po’ di tempo ho bisogno di spazio e la fabbrica abbandonata dev’essere piena di vuoto, spazio polveroso, senza più odore, spazio chiuso ma ampio. Un uccello che sfiora il soffitto di luce grigia e ragnatele e passa con le ali aperte accanto ai denti di cristallo sporco delle vetrate.
Ho spesso la tentazione di entrare, passare un pomeriggio sotto la protezione del suo silenzio definitivo. Quando lavoravano ancora (c’è una tettoia arrugginita, la immagino irta di una rastrelliera, carica di uncini per appendere le biciclette) non abitavo qui. Adesso mi basta calare la mia tenda verde a pacchetto che scende a scatti, singhiozzando, per poter dimenticare e concentrarmi su altro.
...
Concentrarmi sulla vicina di fronte – 35 anni, bionda tinta, una bambina ma nessun marito – che ogni sabato mattina sul pianerottolo discute con sua madre. Lei, la nonna, ha passato la notte con la bambina (la piccola ha un pigiama verde con pipistrelli viola e labbra brevi, stranamente colorite come se si desse il rossetto). La madre di trentacinque anni è stata via, ha dormito fuori e torna con il trucco dato malamente. La bambina la guarda dal basso, complice ma perplessa. La madre la prende in braccio frettolosa, in un gesto spezzato dall’esitazione. La nonna non lo fa vedere per via della bambina (che tra vent’anni comunque capirà) ma ha paura per sua figlia, divenuta adulta senza essere grande e che vola stretta e cieca come una falena intorno al lampadario. Ci sono già troppe ferite, la nonna non ha cuore di chiederle nulla.
Le guardo trattenendo il fiato: minuscole nella luce chiara che entra dal finestrone condominiale oppure pallide nel riflesso al neon. Misuro il loro minuto interminabile, prima che la porta mi salvi dal sapere troppo di loro.


Con mia moglie non se ne parlava, di lei, di loro.
Si aspettava prima di uscire, se erano sul pianerottolo. Si scivolava fuori a testa china, con un sorriso vuoto già pronto a un incontro casuale. Adesso che mia moglie è via – tre mesi, con i bambini e i genitori – posso ubriacarmi dell’imbarazzo che provo a spiarle.
Le spio perché non riesco a parlare. Perché quando, raramente, mi capita di incontrarle sento che le parole mi si ingolfano dentro, tutte ugualmente sciocche, tutte ugualmente sbagliate. Perché io suppongo molto della loro vita, riesco a immaginarla senza un filo di compassione.
...
Accendevo sempre la radio mentre facevo qualcosa in casa, come spolverare, rimettere a posto un cassetto, spostare i libri in biblioteca. E raramente mi capitava di fare davvero attenzione alle trasmissioni. Era un’abitudine presa nell’infanzia, come il caffelatte e le scarpe lasciate dietro la porta del bagno.
Come in tante altre mattine la radio era scivolata dal GR del mattino al notiziario regionale, al programma di oroscopi.
Seguiva un programma di telefonate in diretta. Rispondeva una psicologa, una voce garbata, accorata e noncurante come tante altre prima di lei.
Riconosco la sua voce. Leggermente rauca, già stanca. Posso immaginare la sigaretta accesa che tiene tra l’indice e il medio della mano sinistra. Si spinge indietro i capelli con il pollice e il mignolo della destra mentre tiene il telefono portatile tra il mento e la spalla.
Da qualche parte in casa dev’esserci anche la bambina. Come sempre fa finta di non ascoltare.
– Perché a un certo punto della vita manca qualcosa, capisce? Qualcosa.
– Diciamo un affetto?
– Una presenza. Meglio. Ma lei sta pensando a un uomo vero? A un marito?
– Io non sto pensando. La ascolto.
– Non sono gli uomini il mio problema.
(Ecco che sorride. Per radio non la possono vedere, ma sicuramente sorride. Nei suoi pensieri incantati c’è posto anche per il desiderio di essere ammirata da un pubblico lontano che non la conosce e la sua voce ha una nuova sfumatura, più conscia. La bambina, che ha sollevato il capo per guardarla, non si rende ancora conto di capire anche questo. Qualcun altro proverebbe disapprovazione o comprensione per loro. Io solo una curiosità essenziale, priva di emozioni).
– Certo, i tempi, le situazioni sono molto cambiate. Ma ha già pensato di chiamarlo?
– Non è questo il problema.
– Certo, ma ci ha pensato?
– Tante volte, glielo assicuro.
– Crede di trovarlo poco disponibile?
– Non credo di trovarlo. O magari dorme ancora, a quell’ora.
...
C’è qualcosa di tenacemente incoerente nelle loro frasi, un filo sotterraneo che per me è impossibile da afferrare. Provo ammirazione per la sua capacità di esporsi, di raccontarsi, compiere con leggerezza ciò che per me è sempre stato impossibile.
Chiudo il cassetto. Temo di saltare un passaggio, qualcosa di essenziale.
Mi costringo a un’assoluta immobilità, ridendo di me e del mio stupido impulso.
...
– E perché non lo chiama?
– Mi interrompo a metà. Mi appare anche nei sogni, è pallido, quasi non lo riconosco.
– È sgradevole.
– Sa, mi viene da accarezzarmi, toccarmi.
– È normale, è normale. Normale ma sgradevole.
– Mi tocco, mi fa male, non ho le mani pulite mentre lo faccio, qualche volta ho in mano un coltello. Tagliavo le fragole. Esce sangue o forse sono le fragole.
– È normale, normale ma sgradevole.
– Ma non è per me, è per la bambina. Si può impressionare.
– Certo, mi chiami ancora, le posso dare il numero del mio studio.
– Posso memorizzarlo sul portatile. Ha molte memorie, posso memorizzare fino a duecento numeri. Me l’hanno regalato.
– Certo. È bello. Scriva…
...
Sono certo di avere ascoltato con attenzione, di non aver perduto nemmeno una parola.
E allora perché ho la netta sensazione di non aver capito nulla? Non solo, perché ho la sensazione che il loro dialogo raccontasse qualcosa che io non potrò mai comprendere?


 Non è la prima volta che mi accade. Spesso ho la sensazione che manchino brani di frasi, parole, sillabe ai discorsi degli altri.
Probabilmente me ne sono accorto da anni, pur senza volerlo ammettere. E infatti da anni evito le conversazioni – ogni volta che mi è possibile – mi nascondo dietro formule ovvie, affermazioni recise e irrefutabili, riferimenti a terzi, citazioni. Mi sforzo di non mettere nulla, di mio. Mi risparmio, mi trattengo. Se tento di dare un colore, un senso a tutto ciò che ho detto in anni di vita e di conversazioni ho la sensazione che resti ben poco, bolle di sapone che lasciano un breve cerchio di umidità sul muro. E sono certo che tutti se ne siano accorti.
...
Ho in mente un’immagine, forse il ricordo di un sogno. Formiche brune che scivolano lente su un muro coperto di asfalto, freddo ma non ancora solidificato. Le formiche sollevano le zampe dall’asfalto che le trattiene, lentamente, ma non sono spaventate. Scuotono il capo, oscillano le antenne. Minuscole dense gocce di asfalto scivolano loro sul corpo. Le formiche volgono la testa, succhiano l’asfalto – forse non si tratta di asfalto, ma di qualcosa di denso e dolce – e riprendono a camminare. Tutto avviene con una lentezza snervante. Le formiche giungono al limite del muro e riprendono a salire. Il movimento – insistito, languido – non cessa mai.
...
Certi giorni ho la sensazione di essere l’unico a vedere il mondo in bianco e nero mentre tutti gli altri lo vedono colorato. Ho smesso di aspettare il ritorno della famiglia («Sarà meglio che facciamo un po’ di vita separata, noi», ha detto, «sarà meglio che tenga io i bambini», va bene va bene) e ho fatto in modo di dover uscire il meno possibile.
Ascolto. Collego alla radio le cuffie dello stereo – cuffie ottime che liberano un suono puro, perfetto – e virtualmente mi siedo accanto a chi trasmette.
Sono colpito da un’accidia bizzarra che non riesco a spiegare neppure a me stesso e che si prolunga. Ieri sono arrivato davanti al mare. Passavano poche auto, ancora meno pedoni. Il sole mi sembrava più inclinato, più lento. Di nuovo le formiche, di nuovo quella sensazione snervante di densità, quel languore che odora di bruciato e brulica di innumerevoli movimenti ripetuti, inutili. Le nuvole sospese sull’orizzonte non riuscivano a specchiarsi nel mare, non c’erano più ombre, alle mie spalle il vuoto, un vuoto incolore striato di pochi rumori metallici.
...
A casa ho infilato le cuffie. Rumore bianco. La frequenza è scivolata in una zona vuota. Potrei alzarmi nuovamente per ritrovare la sintonia. Non lo faccio, chiudo gli occhi e ascolto.
...
Non mi interrompo per mangiare. Solo per andare ad ascoltare qualche volta alla porta, sperando di cogliere qualcosa di lei. Tre generazioni di donne senza un solo uomo destinato a durare. Qualche volta la vedo. Stamattina aveva una specie di camicetta, un top di pizzo. Le lasciava scoperte le spalle e una sottile striscia del ventre, appena sopra i pantaloni dalla vita bassa. Non la spio per il desiderio (anche se i suoi capezzoli molto scuri mi hanno emozionato) ma perché non sono obbligato a parlare per lei. Stamattina molto presto ascoltavo la radio e pensavo: quando riprenderò a parlare ciò che riuscirò a produrre sarà solo rumore bianco.
...
Chissà dove va? Chissà con chi va?
Non posso fermarla, non voglio fermarla.
… Mi tocco, mi fa male, non ho le mani pulite mentre lo faccio…
Probabilmente con nessuno. Semplicemente si espone, si concede a lattine taglienti, frammenti di copertone, lamette usate, avanzi di cibo, sacchetti sfondati.
… qualche volta ho in mano un coltello. Tagliavo le fragole. Esce sangue o forse sono le fragole.
Dove va quando si allontana? Quando esce dall’orizzonte curvo e certo della mia osservazione?
...
Mi tolgo le cuffie. Il rumore bianco non mi abbandona.
...
Fuori dalla porta di casa – accuratamente serrata – oltre i muri sottili, odo la replica interminabile di suoni sempre uguali. Una voce nasale, un oggetto che cade, il rumore di una sedia trascinata. Mi sono reso conto che sono sempre gli stessi, ripetuti con una frequenza fissa.
In strada c’è una strana calma: niente motori, niente clacson. Come una domenica mattina di Natale, sotto la neve.
Con la schiena contro il muro, le braccia raccolte intorno alle ginocchia tengo gli occhi ben chiusi e mi affido interamente all’udito.
...
Stamattina sono arrivato sino alla finestra aperta e deliberatamente ho guardato solo verso l’alto: il cielo. Verde-azzurro era attraversato da un sottile ricamo dorato disegnato dalle curve sinuose delle nubi che nascondevano il sole: nubi azzurre, simili a enormi confetti o a matasse di zucchero filato all’anice.
Sul tetto della fabbrica i piccioni sono scomparsi, come non fossero mai esistiti. Chiudo le persiane lasciando vivere solo pochi fili di luce.



Provo il desiderio spasmodico di ridere: un prurito alla base del cervello che non avevo mai sentito prima. I profili degli oggetti in penombra sono sfumati, come in un disegno in bianco e nero bagnato e poi asciugato.
Faccio scattare il grilletto dell’affetto e dell’ansia, ma scatta a vuoto. La famiglia al mare è lontana, tranquilla. Foto di gruppo, senza dedica né didascalie. Sento il silenzio, dentro, e la voglia di ridere.
...
Da bambino… che cosa si ricorda di reale della propria infanzia? C’è il proprio ricordo, inerte, nebuloso e ci sono i ricordi degli altri, degli adulti che non sono affatto nebulosi ma definiti, netti, lucidi come compassi e si imprimono nella mente più dei propri, fino a sostituirli completamente. Quella volta che… allora hai dimostrato il tuo carattere… un caratterino… l’hai preso al volo… l’hai preso per la mano e… Come essere un uovo: nel piccolo, nel poco, c’era già scritto per intero il codice del futuro. Gli adulti che cercavano rassicurazioni, che volevano la prova, la testimonianza che qualcosa di loro sarebbe sopravvissuto.
Da bambino inventavo le parole. C’erano le parole dei grandi, solidamente ancorate a oggetti, stati d’animo, sensazioni. E poi c’erano le mie parole: volubili, instabili, che non si ripresentavano mai due volte nella stessa forma. Che non avevano mai un senso dichiarato, un corrispondente nella realtà. Le pronunciavo di nascosto, a bassa voce, prima di dormire o quando mia madre riposava e non poteva ascoltarmi. Ero assolutamente solo in quei momenti. E l’essere solo mi esaltava, mi faceva sentire unico. Unico come altri cinque miliardi di individui, ma allora non potevo saperlo.
...
Oggi è venuta a trovarmi. L’ho vista inquadrata nella porta accesa di una luce di cenere. Portava solo il suo top di pizzo e aveva capezzoli del colore del catrame. Gusci d’uovo attaccati all’interno delle cosce. Le formiche la seguivano. Ho sorriso anche mentre lei mi guardava. Non so come abbia fatto a entrare ma sono stato felice. Non mi ha chiesto di parlarle, non mi ha chiesto di risponderle. Potevo vederla anche senza aprire gli occhi. C’era un silenzio solido, denso che avrebbe potuto ingoiare ogni rumore. Onde lente che mi hanno gentilmente spostato, trascinato fuori dalla vita, liberato dalle parole. 


 
L’aria ferma ha un vago odore di chiesa. Legno umido e invecchiato, incenso bruciato centinaia di volte. Entra dalla finestra chiusa e si sovrappone al mio odore animale. O forse non entra e si è semplicemente sostituito al mio, un sentore prodotto da qualcosa che cambia qui dentro, qui proprio vicino a me. Mi sono mosso appena lo stretto indispensabile, in questi giorni. Non ho più parlato. Di tanto in tanto accendo la radio. Non cerco più frequenze abitate. Solo una, dove una voce senza sesso ride e ripete poche parole, fonemi idioti. Parla la propria lingua, anche lui, come facevo io. Probabilmente anche sua madre dorme. O forse è notte, e lui si sente finalmente solo.
...
La luce dietro le persiane ruota nel tempo. Quando un raggio di sole le attraversa guardo la polvere vagare, oscillare seguendo propri percorsi imprevedibili. Da qualche giorno i rumori sono cessati. Silenzio nel condominio e nelle strade. Adesso, a sentirlo, ho la sensazione che sia sempre stato così. Ho notato che le mie parole cominciano a spostarsi, a nascondersi. Scrivo a fatica, ritorno sulle righe e cancello, riscrivo. Oggi ho scritto innumerevoli volte «Imbuto», una delle prime parole che ho imparato. Vuol dire senz’altro qualcosa, ma non so che cosa. Cerco di non trascrivere ancora le finte parole che mi vengono in mente. Non ho più aperto bocca, non ho più pronunciato una sola sillaba a voce alta. Sono certo che le parole che non pronuncio, la comunicazione ridotta a zero, finiranno per disseccare la riserva di ricordi che mi cullo nella mente.
Libero di ricominciare da capo.
Non scende più acqua dai rubinetti. Ho riacceso la radio, ma non esistono più frequenze né trasmissioni, neppure una, solo un rumore bianco rimbombante.
Ho alzato il volume al massimo, comincio a riconoscere ritmi e cadenze in ciò che emerge dalle cuffie, ne intuisco un senso. Non riesco a immaginare quale sia.
...
Volo nell’aria polverosa della fabbrica, ne respiro gli odori, stratificati come lamine di pietra, sfioro il soffitto annidato di ragnatele, passo accanto alla luce torbida dei vetri retinati. Il mio sguardo esplora il silenzio, oltrepassa porte dalle cornici scheggiate. Non sento nessun desiderio di tornare al cielo, appartengo per intero a un’altra materia e le ali sono il ricordo di un sogno fatto da bambino.
Sono quieto, in pace. Ciò che della realtà riesce ad arrivare fino qui, fino ai miei sensi esaltati è stranamente lucido, essenziale. Puro, vorrei dire.
Cerco di dimenticare le parole.
...
Prima di imbuto ho imparato a scrivere mamma, ho imparato a dire mamma. Mamma. Scrivo ancora mamma per dimenticare. Facile. Troppo facile. Non costa fatica, mamma. Non fa fatica. Fatica. Mamma.
...
Fshhhhhhhhhhhh, rumore bianco. Bianco, camicia, luce. Suoni in strada. È ricominciato. Come quando si spostano mobili, grossi mobili. La luce oscilla, scompare, alle volte. Dovrei uscire, parlare. Scivolano via spariscono se ne vanno una per una senza salutare, senza il mio permesso scompaiono via via via via un vuoto dentro dentro sorrido sorrido labbra secche parlo dico mamma mamma mamma senza ancora riuscire a perderla
...
senza acqua quattro cinque giorni sono a sette ultimo giorno luce grigia e bianca luce breve rumori vicino sulle scale rumori si alzano come acqua alla mia porta sotto la mia porta adesso esco a cercare acqua poi parlo parlo dico e penso penso ancora penso ancora


2 commenti:

cily ha detto...

Mi hai fatto venire dei brividi che nemmeno ti immagini!
Bellissimo racconto al solito scritto proprio bene!
Grazie di averlo condiviso, è stato molto emozionante leggerlo e so che l'emozione ci metterà un bel po' a svanire, come accade sempre quando leggo ciò che scrivi. :)

Massimo Citi ha detto...

@Cily: mi fa molto piacere ti sia piaciuto, anche se forse "piaciuto" non è del tutto la parola giusta :O
Ho pubblicato il racconto anche se è indubbiamente "difficile" - il che non significa "bello", ovviamente - e sinceramente non osavo sperare in un commento. Il racconto è nato come una scommessa - scrivere un racconto nel quale il protagonista tenti di liberarsi delle troppe parole udite, divenute logore e inutili - che credo di aver perso. Ma è stato comunque bello provarci.
A giudicare dall'ora in cui hai postato il commento direi che hai persino sottratto un po' di tempo al tuo sonno. Grazie e un grosso abbraccio.