Questa volta parlerò dei libri universitari. Universitari scientifici - in particolare -, medico-biologici. E della fotocopiatura selvaggia. Resistete alla tentazione di scappare: è possibile che il tema non appaia come uno dei più affascinanti, anzi che appaia anche sottilmente perfido nell'accusare il vasto popolo degli studenti di ciurlare nel manico, ma non è (del tutto) così. Tengo famiglia, come insegnava Leo Longanesi, e ho imparato sulla mia pelle che cosa significa il prezzo eccessivo di un libro. Ma in un certo qual modo rimango fedele al mio punto di vista. I libri che di comune accordo con mia figlia abbiamo ritenuto «essenziali» sono stati regolarmente acquistati.
Buona lettura a tutti.
Ho
cominciato vendendo libri universitari.
Tuttora
(sic!) CS vende libri universitari, anche se sono diventati una parte molto
meno importante del fatturato (del sell-out, perdinci!)
dell’azienda. Per tanti motivi, primo tra tutti l’introduzione
del numero chiuso nella facoltà di Medicina e Chirurgia, in secondo
luogo per il capillare diffondersi del fenomeno della fotocopiatura,
in terzo luogo per il trasferimento (esilio?) delle facoltà di
Agraria e Scienze Forestali e di Medicina Veterinaria, in quarto
luogo per il graduale, anche se ancora insufficiente, emergere di
testi di dimensioni e prezzi ridotti per corsi di durata ridotta (18
ore, 40 ore, 60 ore ecc.).
All’inizio
(al mio inizio) il mercato universitario medico era affollato
di titani dai nomi che ricordavano le corazzate e gli incrociatori di
inizio ventesimo secolo. Il Dianzani come il Giovanni dalle Bande
Nere, il Testut-Latarjet come la Viribus Unitis, il Lenti (di
biochimica) come… come… se a qualcuno viene in mente il nome di
un vecchio ferro da stiro nato obsoleto e affondato il giorno del
varo può completare il paragone. A me non viene in mente nulla.
Erano
megalibri dalle mille pagine in su, degni di adozione soltanto se
composti da almeno due volumi. Trattati che si sforzavano di esaurire
o quasi la materia, nati o curati da generazioni di accademici che in
primis cercavano di renderli inaffondabili ai perfidi siluri dei
colleghi degli atenei del resto del paese. Libri esorbitanti e, a
loro modo, ammirevoli, ricchi di informazioni essenziali come di
informazioni sostanzialmente inutili allo scopo ma suggestive (in
genere caritatevolmente stampate in corpo minore), in qualche caso
summae totalizzanti nate nell’Italia liberale dei
galantuomini, adeguatamente rimpinzate in epoca fascista e
ulteriormente ingrassate negli anni del boom economico. Templi del
sapere, piramidi di conoscenza. Abissi di follia se lo scopo era
quello di cavarne le informazioni necessarie a superare un esame.
Navigare
nelle loro pagine significava entrare in un mondo ancora largamente
premoderno, stare in compagnia di pagine che davano del Voi al
lettore, che evitavano la semplicità o la scorrevolezza della
lettura come un santo evita le profferte amorose di una donna
perduta. Un po’ meglio si andava con i libri tradotti dall’inglese
(memorabile il Lehninger di biochimica, libro delizioso ma ahimè
insufficiente per gli allora titolari del corso di biochimica per
medicina, coevi del dottor Van Helsing), anche se il loro utilizzo
era all’epoca scarso e sporadico.
Scopo
degli editori era quello di accaparrarsi il parto pluriennale del
luminare di turno, stamparlo rigorosamente in carta patinata per
renderlo illeggibile sotto una luce da tavolo, applicargli un prezzo
sufficientemente vertiginoso e cercare di renderlo il testo di
riferimento per tutti i cattedratici italici della medesima materia
che non avessero ancora affidato la loro scienza alle stampe.
Le
tirature non erano altissime, naturalmente, ma con ondate di studenti
che annualmente si rovesciavano sulle insufficienti strutture della
facoltà di Medicina la semplice adozione da parte
dell’autore/titolare poteva permettere un utile se non
considerevole, almeno dignitoso. Buona parte degli allievi, infatti,
compravano. Le fotocopie era antieconomiche, all’epoca.
Per
indurre il luminare a scrivere era necessario proporgli diritti
d’autore non esattamente modesti, ma, d’altro canto, la torta
era ricca e abbondante e ce n’era davvero per tutti.
La
ricchezza della torta era dovuta anche al costo ridotto della
distribuzione libraria, in qualche caso rudimentale, dilettantesca o
semplicemente semiclandestina. I grandi editori del settore (UTET,
Piccin, Minerva Medica, CEA) possedevano proprie reti di
distribuzione, ovvero agenzie che si occupavano della vendita alle
librerie e della vendita rateale ai professionisti dei titoli del
catalogo professionale. Gli editori medio-grandi, medi o piccoli,
viceversa, facevano circolare i propri libri per mezzo di grossisti
nazionali o multiregionali che molto spesso si occupavano
personalmente dello smercio, della promozione e della consegna dei
volumi. Promotori-grossisti-camionisti tanto spregiudicati quanto
ricchi di iniziativa, veri e propri corsari coi quali ogni trattativa
aveva il fascino romantico di una transazione nella Chicago anni
Venti del Piccolo Cesare.
Non
solo: forme di commercio ritenute obsolete come il baratto
ritornavano allegramente in voga:
Per
dieci Battistini, sei Pequod-Melville+venti tavole murali del pisello
rugoso.
Il
Pequod-Melville è un cimelio. Ci studiano giusto i fuoricorso
dell’Ottocento. Mi servono quattro Tannhaüser di Riabilitazione
proctologica. Li hai?
Dieci.
Dieci Pequod-Melville e in più ti metto un dizionario medico
russo-tedesco, due atlanti di anatomia del dito indice di Katagawa e
cinquanta tavole murali del pisello rugoso.
E
il Tannhaüser?
Quello
non ce l’ho.
CS,
nata con intenti severamente rivoluzionari (Diritto allo studio! 20
per cento di sconto a tutti!) non ebbe vita troppo facile. Le
librerie e le cooperative (genovesi) già esistenti non approvarono
la nostra generosità egualitaria e bolscevica e per prima cosa si
rivolsero agli agenti dei grandi editori (Utet ecc., già citati)
diffidandoli dal venderci anche solo una pagina. Il blocco funzionò
anche se non troppo bene per qualche anno, almeno fino a quando CS
non atterrò in via Ormea dopo qualche anno di lotta dura e senza
paura nelle mitiche soffitte di Fisiologia. La nostra resistenza
(pagata con agghiaccianti rossi di bilancio) fu salutata con
l’accessibilità alle forniture da parte degli editori maggiori e
con una campagna di sconti feroci (20 - 30 per cento) proposta e
praticata dalla già citata supposta cooperativa genovese. CS, che
era sopravvissuta grazie ai camionisti del libro scientifico, capaci
di trovare qualsiasi libro in barba a esclusive e zone d’influenza,
fu costretta a farvi nuovamente ricorso, questa volta per trovare
sconti sufficienti a resistere.
Sconti
del 30-35-40 per cento non sono così usuali nel settore librario. Ma
il settore universitario scientifico era (e in parte tuttora è) una
zona franca – o forse sarebbe bene dire zona grigia – dove la
relativa certezza dell’investimento (adozione universitaria) e gli
alti prezzi di copertina contribuiscono a moltiplicare gli
intermediari. Grossi volumi di acquisto determinano ribassi di prezzo
anche molto vistosi, secondo principî commerciali tipici del mercato
ortofrutticolo. Mentre il mercato strettamente scolastico è più o
meno rigidamente regolamentato, quello universitario è stato per
molto tempo luogo d’incursione e di felice invenzione distributiva.
Margini anche molto bassi su grossi volumi di vendite erano
sufficienti a figure di vario genere per inserirsi nel meccanismo
commerciale proponendo sconti straordinari e pagamenti in tempi
geologici. Medi o piccoli editori, titolari di uno o due titoli
«pesanti» nell’università italiana e in grado di garantire
sconti molto elevati, potevano rivelarsi elementi di mediazione molto
interessanti, divenendo carta di scambio e valuta franca.
CS,
aggrappata a margini lordi che non superavano il 5 per cento riuscì
a resistere anche agli «sconti folli» (che non hanno comunque
smesso di apparire, sia pure sporadicamente in un mercato in profonda
crisi), approdando finalmente (???) alla stagione d’oro della
fotocopiatura.
AIE
stima in circa duecento milioni di euro la quota di fatturato di
libri universitari annualmente sottratta a editori e librai dalla
fotocopiatura.
«Pazienza.
In fondo c’è stata gente che ha straguadagnato negli anni scorsi».
Vero,
o almeno in parte vero. Almeno in parte perché i grandi editori già
citati non è esattamente che se la siano sfangata troppo bene in
tempi recenti. UTET è stata acquistata da DeAgostini (che, detto per
inciso, non è più un gigante dell’editoria ma una sorta di biscazziere parastatale), CEA da Zanichelli, colosso
dell’editoria scolastica. Minerva Medica ha attuato una profonda
revisione dei propri piani editoriali puntando su titoli di
dimensioni ridotte, e Piccin, sia pure in ritardo, la segue sulla
stessa strada. Gli anni d’oro, fatti di colossali acquisti da parte
delle case farmaceutiche per aggiornare specialisti e omaggiare
mutualisti e di decine di migliaia di matricole iscritte a Medicina e
Chirurgia sono lontani anni luce. Non che il settore sia ridotto alla
fame, naturalmente, ma adesso molto più di un tempo l’offerta del
catalogo è fatta di traduzioni. I luminari, in un’Italia costretta
a confrontarsi con la produzione scientifica internazionale, sono
passati di moda come i cerini o i mangiadischi. Non sono del tutto
scomparsi ma vestono ormai i panni di professionisti più o meno
quotati. Il loro insegnamento non è più Verbo Incarnato ma di volta
in volta istruzione o prassi. I libri universitari hanno perso aura e
considerazione. In molti casi ritenuti un supporto didattico
velocemente obsoleto e troppo costoso hanno l’opzione della
fotocopiatura inscritta nel codice genetico. A salvarsi quasi sempre
i libri ritenuti a vario titolo davvero «importanti» oppure i libri
per i quali è basilare l’uso dell’illustrazione a colori.
Atlanti, testi di anatomia, di istologia, di radiologia. Testi di
medicina interna, manuali di terapia medica. Per gli altri la
fotocopiatura è una tentazione resa ancora più efficace
dall’esistenza di centri di smercio di libri già precedentemente
fotocopiati. Entro una settimana dall’inizio dei corsi i cloni dei
testi adottati sono pronti, a prezzi che vanno dalla metà a un terzo
del listino dell’editore.
Le
tasse universitarie in costante crescita e i costi per il
mantenimento di un figlio all’università (soprattutto se fuori
sede) sono altrettanti elementi che spingono a scegliere il testo
fotocopiato. D’altro canto il libro fotocopiato è una minaccia non
tanto remota per la possibilità di produrre nuovi libri. Il libro
scientifico prevede un lavoro di impaginazione, verifica, correzione
e traduzione (nel caso) necessariamente più accurato del normale
libro di saggistica, anche scientifica. A questo lavoro preparatorio
si debbono i costi nettamente più alti dei manuali universitari ed è
proprio per questo che la fotocopiatura si rivela vantaggiosa. Ma
consulenti, traduttori, redattori debbono essere pagati, anche poco,
anche saltuariamente e in ritardo, anche se in questi anni il lavoro
editoriale si è frammentato, parcellizzato e decentrato quanto
basta. Se a tirature già comunque basse – le tirature su misura
per corsi divenuti troppo piccoli sono scese sotto l’orizzonte
dell’editoria industriale – si aggiunge il rischio di un rientro
delle spese troppo lontano nel tempo, è molto più facile gettare la
spugna e rinunciare alla pubblicazione di un nuovo titolo per
dedicarsi al (finto) aggiornamento di un libro ancora acquistato.
E
così meno titoli (davvero) nuovi, molte traduzioni affrettate e
tanti libri-collage fatti di capitoli scritti da docenti della stessa
disciplina di diversi atenei e una presenza crescente dell’editoria
in lingua inglese. Sconti alle librerie che diminuiscono
avvicinandosi sempre più alle condizioni di sconto dello scolastico
(18 per cento netto sul prezzo di copertina) e prezzi che comunque
salgono, incentivando la fotocopiatura in un meccanismo destinato ad
avvitarsi e che è difficile immaginare come interrompere.
Una
situazione non esattamente rosea.
Non
diversa, comunque, da quella più generale di un paese dotato di una
classe dirigente e di un ceto imprenditoriale che hanno sfruttato i
momenti buoni senza la fantasia, l’immaginazione e la lungimiranza
di immaginare quelli cattivi. Di una Università che non riesce a
laureare nemmeno la metà degli iscritti ma, in compenso, mette in
fuga i migliori cervelli per favorire di volta in volta diversi
gruppi di potere, cordate, consorterie e corporazioni. Un paese di
dubbia civiltà, armato di una proverbiale corta astuzia bertoldesca
che elegge un venditore di pentole e gli permette di obbligare ogni
famiglia a possedere almeno quattro pentole…
Ultima
nota: l’origine bolscevica e massimalista di CS permette di
comprendere le ragioni di molti fotocopiatori. Fotocopiatori bradi,
sia chiaro, soggetti che coscientemente decidono di rinunciare a un
libro magari mediocre per fornirsi di un succedaneo malrilegato e
monouso. Ma c’è una componente di mediocre e stupida furbizia e di
disprezzo per la cartaccia (per la cultura? Vogliamo dirlo?
Osiamo dirlo?) in molti di coloro che si gettano alla ricerca del
libro fotocopiato – e lo trovano praticamente sempre nei posti
giusti che nessuna Guardia di finanza riesce a scovare – in
nome di una prepotente urgenza di giungere comunque al risultato con
il minimo costo. Il risultato è, naturalmente, il pezzo di carta che
garantisce denaro, potere e una o più grosse automobili. Soggetti
che sono sempre esistiti, sia chiaro, ma che appaiono ultimamente
aumentati ed esibiscono una stolida, allarmante sicurezza. La stessa
di tutti coloro che credono che le leggi valgano soltanto per i
fessi.
E
io sono un fesso.
Fesso,
che lavora con altri fessi.
In
una libreria di fessi.
Come
molti italiani.
Speriamo
siano, in fin dei conti, la maggioranza.
Al
prossimo giro si ritornerà sul leggero.
Sul
perché una libreria non funziona mai come dovrebbe e sul complesso
rapporto tra libraio e PC .
Questo
era un eufemismo, comunque.
6 commenti:
Come odiavo i libri fotocopiati ai tempi dell'università! anche se poi qualche libro l'ho fotocopiato; ma dove sono finiti? Per un po' di tempo accatastati da una parte insieme ad altre fotocopie poi nel cassonetto della carta. I libri universitari invece li ho ancora, rimarranno, ingialliranno, si scolleranno ma in questo invecchiare hanno comunque un futuro.
Comprendo in parte il tuo ragionamento, dico in parte perchè da universitario feci anche io ricorso alle fotocopie. Lo feci però con le cosidette "parti speciali" dei vari programmi.
Per parti speciali - e lo spiego a quei fortunati che in vita loro non hanno mai incontrato la fasta dei Baroni universitari- intendo quei libercoli scritti dallo stesso titolare di cattedra ed inseriti nel programma d' esame assieme ai giá costosissimi manuali.
Spesso costosissimi, quasi sempre scritti male, senza capo nè coda, il piú delle volte erano una semplice raccolta di discorsi per seminari o conferenze senza alcun legame logico tra loro rappresentavano solocun ennesimo modo di lucrare sugli studenti da parte dei professori.
Quando si parla di sprechi , di spese e di casta pensiamo anche a queste cose.
@Marcella: è un po' - anche se virato al peggio - lo stesso problema dei libri elettronici che non lasciano traccia. Io non ho nulla contro questi ultimi, mentre ho una certa antipatia per i blocchi di fotocopie, ma resta il fatto che lasciano traccia soltanto nella memoria. E io, stupidamente, sento la necessità di vedere i miei libri, i miei dischi. Feticismo, probabilmente.
@Nick: ma per carità. Si trattava di quelle parti assolutamente inutili degli esami che quando capitava, consigliavamo agli studenti dove potevano trovarli già fotocopiati. Faceva parte del nostro retaggio da ex-rivoluzionari duri e puri. Diciamo che il problema era anche di prestigio del docente. La ricerca delle fotocopie era inversamente proporzionale alla sua popolarità. Ciò non toglie che esistessero - e ancora di più di recente - soggetti che se ne fregano della cultura e della scienza e che cercano le fotocopie per risparmiare sulla generosa paghetta passatagli dai genitori.
Io ho credo tre libri fotocopiati, e qualche pdf recuperato per la parte finale dei miei studi. E ho speso cifre esorbitanti per i libri che posseggo, di cui me ne farò poco o nulla (anche perché la compravendita di libri usati è molto meno capillare ed efficiente a livello universitario). Ho anche scoperto che posseggo un libro Piccin. Mille pagine, esaurisce tutta la "Chimica Generale" ma non mi ha aiutato granché a superare l'esame, e ancora rimpiango la chiarezza dei moduli del libro delle superiori!
@SX: eccoti qui, lo sciagurato che mi ha coinvolto nella scelta degli undici libri secolari... vabbé, poi ne riparleremo.
Il libro Piccin dev'essere lo stesso che usano anche a Torino, il Sienko o forse il Masterton o lo Whitten. Vero, si tratta di libri esagerati, soprattutto per un fisico. Ma la tua categoria non fa testo, da un certo punto di vista. La fisica superiore viaggia a un livello di aggiornamento che nemmeno i testi in inglese riescono a seguire. Nel tuo caso credo che le fotocopie, i .pdf, gli scarichi via internet siano assolutamente essenziali, il problema nostro (di librai, insomma) è quello di sostenervi come si può. E parlo sul serio.
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