23.11.12

M.A.d.u.L.p. 5

Questa volta parlerò dei libri universitari. Universitari scientifici - in particolare -, medico-biologici. E della fotocopiatura selvaggia. Resistete alla tentazione di scappare: è possibile che il tema non appaia come uno dei più affascinanti, anzi che appaia anche sottilmente perfido nell'accusare il vasto popolo degli studenti di ciurlare nel manico, ma non è (del tutto) così. Tengo famiglia, come insegnava Leo Longanesi, e ho imparato sulla mia pelle che cosa significa il prezzo eccessivo di un libro. Ma in un certo qual modo rimango fedele al mio punto di vista. I libri che di comune accordo con mia figlia abbiamo ritenuto «essenziali» sono stati regolarmente acquistati. 
Buona lettura a tutti. 



Ho cominciato vendendo libri universitari.
Tuttora (sic!) CS vende libri universitari, anche se sono diventati una parte molto meno importante del fatturato (del sell-out, perdinci!) dell’azienda. Per tanti motivi, primo tra tutti l’introduzione del numero chiuso nella facoltà di Medicina e Chirurgia, in secondo luogo per il capillare diffondersi del fenomeno della fotocopiatura, in terzo luogo per il trasferimento (esilio?) delle facoltà di Agraria e Scienze Forestali e di Medicina Veterinaria, in quarto luogo per il graduale, anche se ancora insufficiente, emergere di testi di dimensioni e prezzi ridotti per corsi di durata ridotta (18 ore, 40 ore, 60 ore ecc.).
All’inizio (al mio inizio) il mercato universitario medico era affollato di titani dai nomi che ricordavano le corazzate e gli incrociatori di inizio ventesimo secolo. Il Dianzani come il Giovanni dalle Bande Nere, il Testut-Latarjet come la Viribus Unitis, il Lenti (di biochimica) come… come… se a qualcuno viene in mente il nome di un vecchio ferro da stiro nato obsoleto e affondato il giorno del varo può completare il paragone. A me non viene in mente nulla.
Erano megalibri dalle mille pagine in su, degni di adozione soltanto se composti da almeno due volumi. Trattati che si sforzavano di esaurire o quasi la materia, nati o curati da generazioni di accademici che in primis cercavano di renderli inaffondabili ai perfidi siluri dei colleghi degli atenei del resto del paese. Libri esorbitanti e, a loro modo, ammirevoli, ricchi di informazioni essenziali come di informazioni sostanzialmente inutili allo scopo ma suggestive (in genere caritatevolmente stampate in corpo minore), in qualche caso summae totalizzanti nate nell’Italia liberale dei galantuomini, adeguatamente rimpinzate in epoca fascista e ulteriormente ingrassate negli anni del boom economico. Templi del sapere, piramidi di conoscenza. Abissi di follia se lo scopo era quello di cavarne le informazioni necessarie a superare un esame.
Navigare nelle loro pagine significava entrare in un mondo ancora largamente premoderno, stare in compagnia di pagine che davano del Voi al lettore, che evitavano la semplicità o la scorrevolezza della lettura come un santo evita le profferte amorose di una donna perduta. Un po’ meglio si andava con i libri tradotti dall’inglese (memorabile il Lehninger di biochimica, libro delizioso ma ahimè insufficiente per gli allora titolari del corso di biochimica per medicina, coevi del dottor Van Helsing), anche se il loro utilizzo era all’epoca scarso e sporadico.
Scopo degli editori era quello di accaparrarsi il parto pluriennale del luminare di turno, stamparlo rigorosamente in carta patinata per renderlo illeggibile sotto una luce da tavolo, applicargli un prezzo sufficientemente vertiginoso e cercare di renderlo il testo di riferimento per tutti i cattedratici italici della medesima materia che non avessero ancora affidato la loro scienza alle stampe.
Le tirature non erano altissime, naturalmente, ma con ondate di studenti che annualmente si rovesciavano sulle insufficienti strutture della facoltà di Medicina la semplice adozione da parte dell’autore/titolare poteva permettere un utile se non considerevole, almeno dignitoso. Buona parte degli allievi, infatti, compravano. Le fotocopie era antieconomiche, all’epoca.
Per indurre il luminare a scrivere era necessario proporgli diritti d’autore non esattamente modesti, ma, d’altro canto, la torta era ricca e abbondante e ce n’era davvero per tutti.
La ricchezza della torta era dovuta anche al costo ridotto della distribuzione libraria, in qualche caso rudimentale, dilettantesca o semplicemente semiclandestina. I grandi editori del settore (UTET, Piccin, Minerva Medica, CEA) possedevano proprie reti di distribuzione, ovvero agenzie che si occupavano della vendita alle librerie e della vendita rateale ai professionisti dei titoli del catalogo professionale. Gli editori medio-grandi, medi o piccoli, viceversa, facevano circolare i propri libri per mezzo di grossisti nazionali o multiregionali che molto spesso si occupavano personalmente dello smercio, della promozione e della consegna dei volumi. Promotori-grossisti-camionisti tanto spregiudicati quanto ricchi di iniziativa, veri e propri corsari coi quali ogni trattativa aveva il fascino romantico di una transazione nella Chicago anni Venti del Piccolo Cesare.
Non solo: forme di commercio ritenute obsolete come il baratto ritornavano allegramente in voga:
Per dieci Battistini, sei Pequod-Melville+venti tavole murali del pisello rugoso.
Il Pequod-Melville è un cimelio. Ci studiano giusto i fuoricorso dell’Ottocento. Mi servono quattro Tannhaüser di Riabilitazione proctologica. Li hai?
Dieci. Dieci Pequod-Melville e in più ti metto un dizionario medico russo-tedesco, due atlanti di anatomia del dito indice di Katagawa e cinquanta tavole murali del pisello rugoso.
E il Tannhaüser?
Quello non ce l’ho.


CS, nata con intenti severamente rivoluzionari (Diritto allo studio! 20 per cento di sconto a tutti!) non ebbe vita troppo facile. Le librerie e le cooperative (genovesi) già esistenti non approvarono la nostra generosità egualitaria e bolscevica e per prima cosa si rivolsero agli agenti dei grandi editori (Utet ecc., già citati) diffidandoli dal venderci anche solo una pagina. Il blocco funzionò anche se non troppo bene per qualche anno, almeno fino a quando CS non atterrò in via Ormea dopo qualche anno di lotta dura e senza paura nelle mitiche soffitte di Fisiologia. La nostra resistenza (pagata con agghiaccianti rossi di bilancio) fu salutata con l’accessibilità alle forniture da parte degli editori maggiori e con una campagna di sconti feroci (20 - 30 per cento) proposta e praticata dalla già citata supposta cooperativa genovese. CS, che era sopravvissuta grazie ai camionisti del libro scientifico, capaci di trovare qualsiasi libro in barba a esclusive e zone d’influenza, fu costretta a farvi nuovamente ricorso, questa volta per trovare sconti sufficienti a resistere.
Sconti del 30-35-40 per cento non sono così usuali nel settore librario. Ma il settore universitario scientifico era (e in parte tuttora è) una zona franca – o forse sarebbe bene dire zona grigia – dove la relativa certezza dell’investimento (adozione universitaria) e gli alti prezzi di copertina contribuiscono a moltiplicare gli intermediari. Grossi volumi di acquisto determinano ribassi di prezzo anche molto vistosi, secondo principî commerciali tipici del mercato ortofrutticolo. Mentre il mercato strettamente scolastico è più o meno rigidamente regolamentato, quello universitario è stato per molto tempo luogo d’incursione e di felice invenzione distributiva. Margini anche molto bassi su grossi volumi di vendite erano sufficienti a figure di vario genere per inserirsi nel meccanismo commerciale proponendo sconti straordinari e pagamenti in tempi geologici. Medi o piccoli editori, titolari di uno o due titoli «pesanti» nell’università italiana e in grado di garantire sconti molto elevati, potevano rivelarsi elementi di mediazione molto interessanti, divenendo carta di scambio e valuta franca.
CS, aggrappata a margini lordi che non superavano il 5 per cento riuscì a resistere anche agli «sconti folli» (che non hanno comunque smesso di apparire, sia pure sporadicamente in un mercato in profonda crisi), approdando finalmente (???) alla stagione d’oro della fotocopiatura.


AIE stima in circa duecento milioni di euro la quota di fatturato di libri universitari annualmente sottratta a editori e librai dalla fotocopiatura.
«Pazienza. In fondo c’è stata gente che ha straguadagnato negli anni scorsi».
Vero, o almeno in parte vero. Almeno in parte perché i grandi editori già citati non è esattamente che se la siano sfangata troppo bene in tempi recenti. UTET è stata acquistata da DeAgostini (che, detto per inciso, non è più un gigante dell’editoria ma una sorta di biscazziere parastatale), CEA da Zanichelli, colosso dell’editoria scolastica. Minerva Medica ha attuato una profonda revisione dei propri piani editoriali puntando su titoli di dimensioni ridotte, e Piccin, sia pure in ritardo, la segue sulla stessa strada. Gli anni d’oro, fatti di colossali acquisti da parte delle case farmaceutiche per aggiornare specialisti e omaggiare mutualisti e di decine di migliaia di matricole iscritte a Medicina e Chirurgia sono lontani anni luce. Non che il settore sia ridotto alla fame, naturalmente, ma adesso molto più di un tempo l’offerta del catalogo è fatta di traduzioni. I luminari, in un’Italia costretta a confrontarsi con la produzione scientifica internazionale, sono passati di moda come i cerini o i mangiadischi. Non sono del tutto scomparsi ma vestono ormai i panni di professionisti più o meno quotati. Il loro insegnamento non è più Verbo Incarnato ma di volta in volta istruzione o prassi. I libri universitari hanno perso aura e considerazione. In molti casi ritenuti un supporto didattico velocemente obsoleto e troppo costoso hanno l’opzione della fotocopiatura inscritta nel codice genetico. A salvarsi quasi sempre i libri ritenuti a vario titolo davvero «importanti» oppure i libri per i quali è basilare l’uso dell’illustrazione a colori. Atlanti, testi di anatomia, di istologia, di radiologia. Testi di medicina interna, manuali di terapia medica. Per gli altri la fotocopiatura è una tentazione resa ancora più efficace dall’esistenza di centri di smercio di libri già precedentemente fotocopiati. Entro una settimana dall’inizio dei corsi i cloni dei testi adottati sono pronti, a prezzi che vanno dalla metà a un terzo del listino dell’editore.
Le tasse universitarie in costante crescita e i costi per il mantenimento di un figlio all’università (soprattutto se fuori sede) sono altrettanti elementi che spingono a scegliere il testo fotocopiato. D’altro canto il libro fotocopiato è una minaccia non tanto remota per la possibilità di produrre nuovi libri. Il libro scientifico prevede un lavoro di impaginazione, verifica, correzione e traduzione (nel caso) necessariamente più accurato del normale libro di saggistica, anche scientifica. A questo lavoro preparatorio si debbono i costi nettamente più alti dei manuali universitari ed è proprio per questo che la fotocopiatura si rivela vantaggiosa. Ma consulenti, traduttori, redattori debbono essere pagati, anche poco, anche saltuariamente e in ritardo, anche se in questi anni il lavoro editoriale si è frammentato, parcellizzato e decentrato quanto basta. Se a tirature già comunque basse – le tirature su misura per corsi divenuti troppo piccoli sono scese sotto l’orizzonte dell’editoria industriale – si aggiunge il rischio di un rientro delle spese troppo lontano nel tempo, è molto più facile gettare la spugna e rinunciare alla pubblicazione di un nuovo titolo per dedicarsi al (finto) aggiornamento di un libro ancora acquistato.
E così meno titoli (davvero) nuovi, molte traduzioni affrettate e tanti libri-collage fatti di capitoli scritti da docenti della stessa disciplina di diversi atenei e una presenza crescente dell’editoria in lingua inglese. Sconti alle librerie che diminuiscono avvicinandosi sempre più alle condizioni di sconto dello scolastico (18 per cento netto sul prezzo di copertina) e prezzi che comunque salgono, incentivando la fotocopiatura in un meccanismo destinato ad avvitarsi e che è difficile immaginare come interrompere.
Una situazione non esattamente rosea.
Non diversa, comunque, da quella più generale di un paese dotato di una classe dirigente e di un ceto imprenditoriale che hanno sfruttato i momenti buoni senza la fantasia, l’immaginazione e la lungimiranza di immaginare quelli cattivi. Di una Università che non riesce a laureare nemmeno la metà degli iscritti ma, in compenso, mette in fuga i migliori cervelli per favorire di volta in volta diversi gruppi di potere, cordate, consorterie e corporazioni. Un paese di dubbia civiltà, armato di una proverbiale corta astuzia bertoldesca che elegge un venditore di pentole e gli permette di obbligare ogni famiglia a possedere almeno quattro pentole…


Ultima nota: l’origine bolscevica e massimalista di CS permette di comprendere le ragioni di molti fotocopiatori. Fotocopiatori bradi, sia chiaro, soggetti che coscientemente decidono di rinunciare a un libro magari mediocre per fornirsi di un succedaneo malrilegato e monouso. Ma c’è una componente di mediocre e stupida furbizia e di disprezzo per la cartaccia (per la cultura? Vogliamo dirlo? Osiamo dirlo?) in molti di coloro che si gettano alla ricerca del libro fotocopiato – e lo trovano praticamente sempre nei posti giusti che nessuna Guardia di finanza riesce a scovare – in nome di una prepotente urgenza di giungere comunque al risultato con il minimo costo. Il risultato è, naturalmente, il pezzo di carta che garantisce denaro, potere e una o più grosse automobili. Soggetti che sono sempre esistiti, sia chiaro, ma che appaiono ultimamente aumentati ed esibiscono una stolida, allarmante sicurezza. La stessa di tutti coloro che credono che le leggi valgano soltanto per i fessi.
E io sono un fesso.
Fesso, che lavora con altri fessi.
In una libreria di fessi.
Come molti italiani.
Speriamo siano, in fin dei conti, la maggioranza.

Al prossimo giro si ritornerà sul leggero.
Sul perché una libreria non funziona mai come dovrebbe e sul complesso rapporto tra libraio e PC .
Questo era un eufemismo, comunque.


6 commenti:

Marcella Andreini ha detto...

Come odiavo i libri fotocopiati ai tempi dell'università! anche se poi qualche libro l'ho fotocopiato; ma dove sono finiti? Per un po' di tempo accatastati da una parte insieme ad altre fotocopie poi nel cassonetto della carta. I libri universitari invece li ho ancora, rimarranno, ingialliranno, si scolleranno ma in questo invecchiare hanno comunque un futuro.

Nick Parisi. ha detto...

Comprendo in parte il tuo ragionamento, dico in parte perchè da universitario feci anche io ricorso alle fotocopie. Lo feci però con le cosidette "parti speciali" dei vari programmi.
Per parti speciali - e lo spiego a quei fortunati che in vita loro non hanno mai incontrato la fasta dei Baroni universitari- intendo quei libercoli scritti dallo stesso titolare di cattedra ed inseriti nel programma d' esame assieme ai giá costosissimi manuali.
Spesso costosissimi, quasi sempre scritti male, senza capo nè coda, il piú delle volte erano una semplice raccolta di discorsi per seminari o conferenze senza alcun legame logico tra loro rappresentavano solocun ennesimo modo di lucrare sugli studenti da parte dei professori.
Quando si parla di sprechi , di spese e di casta pensiamo anche a queste cose.

Massimo Citi ha detto...

@Marcella: è un po' - anche se virato al peggio - lo stesso problema dei libri elettronici che non lasciano traccia. Io non ho nulla contro questi ultimi, mentre ho una certa antipatia per i blocchi di fotocopie, ma resta il fatto che lasciano traccia soltanto nella memoria. E io, stupidamente, sento la necessità di vedere i miei libri, i miei dischi. Feticismo, probabilmente.

Massimo Citi ha detto...

@Nick: ma per carità. Si trattava di quelle parti assolutamente inutili degli esami che quando capitava, consigliavamo agli studenti dove potevano trovarli già fotocopiati. Faceva parte del nostro retaggio da ex-rivoluzionari duri e puri. Diciamo che il problema era anche di prestigio del docente. La ricerca delle fotocopie era inversamente proporzionale alla sua popolarità. Ciò non toglie che esistessero - e ancora di più di recente - soggetti che se ne fregano della cultura e della scienza e che cercano le fotocopie per risparmiare sulla generosa paghetta passatagli dai genitori.

Argonauta Xeno ha detto...

Io ho credo tre libri fotocopiati, e qualche pdf recuperato per la parte finale dei miei studi. E ho speso cifre esorbitanti per i libri che posseggo, di cui me ne farò poco o nulla (anche perché la compravendita di libri usati è molto meno capillare ed efficiente a livello universitario). Ho anche scoperto che posseggo un libro Piccin. Mille pagine, esaurisce tutta la "Chimica Generale" ma non mi ha aiutato granché a superare l'esame, e ancora rimpiango la chiarezza dei moduli del libro delle superiori!

Massimo Citi ha detto...

@SX: eccoti qui, lo sciagurato che mi ha coinvolto nella scelta degli undici libri secolari... vabbé, poi ne riparleremo.
Il libro Piccin dev'essere lo stesso che usano anche a Torino, il Sienko o forse il Masterton o lo Whitten. Vero, si tratta di libri esagerati, soprattutto per un fisico. Ma la tua categoria non fa testo, da un certo punto di vista. La fisica superiore viaggia a un livello di aggiornamento che nemmeno i testi in inglese riescono a seguire. Nel tuo caso credo che le fotocopie, i .pdf, gli scarichi via internet siano assolutamente essenziali, il problema nostro (di librai, insomma) è quello di sostenervi come si può. E parlo sul serio.