10.3.12

Grande Medusa Meccanica



Un vecchio racconto, ripescato casualmente in un dischetto mentre controllavo che diavolo ci fosse su una trentina di dischetti 3,5", ripescati in una scatola dimenticata sotto uno scaffale. 
Ho aperto «GraMeMec» senza sapere che diavolo fosse e mi sono trovato davanti questo racconto, pubblicato, credo, in un LN della prima serie, a circolazione limitata ai soli soci della CS. Pubblicato sotto pseudonimo, per evitare commenti e giudizi da parte dei soci. Rivisto a vent'anni di distanza non mi è sembrato poi così orrendo o impubblicabile. Oltre tutto pubblicandolo sul blog evito di riperderlo. 
Rileggendolo mi è tornato in mente com'è nato: una scommessa fatta con un amico nel tentare di scrivere un racconto su un tema molto banale, come la quantità di ombrelli dimenticati in libreria. Scommessa che non saprei dire se vinta o meno. Comunque sia, buona lettura a tutti.

...


Mai perduto un ombrello in vita mia. Mai capitato di dimenticarlo in un negozio, sull'autobus, sul lavoro, nell'auto di un amico, in casa della fidanzata, sul treno o in uno qualunque dei luoghi dove si è soliti dimenticare ombrelli.
E questo nell'arco di una vita neppure troppo breve: esattamente 37 anni, 7 mesi, 12 giorni e spiccioli.
Ma oggi sono giunto alla decisione irrevocabile di interromperla, spezzarla. Di farla finita, in breve.
E il motivo dell'insano gesto sono proprio gli ombrelli.
Dicevo: mai perduto un ombrello in vita mia. Non intendo vantarmene e neppure rivendicare qualche merito. Posso ammettere di essere una persona molto precisa, attenta, educata. Non tutti sono come me. Non lo dico per superbia, ma se tutti fossero come me non sarei costretto a compiere un gesto così poco connaturato alla mia indole.
Voglio scusarmi fin d'ora per le inutili digressioni e le minute osservazioni personali, ma per la prima volta in vita mia sono assolutamente certo che qualcuno leggerà queste mie righe e non vorrei si traessero conclusioni affrettate su di me e sul modo in cui ho risolto di condurre la mia esistenza.
Ma andiamo in ordine.
All'ultima rilevazione da me personalmente compiuta risulta che ho in casa 271.452 ombrelli. Essi si trovano in 8 delle 11 stanze della casa di mia proprietà, una vecchia villa con giardino nel miglior quartiere della città. Da una banale sottrazione ne risulta che io e zia Elsa siamo confinati in tre stanze, nelle quali siamo costretti ad ammucchiare buona parte dei mobili e tutti i nostri effetti personali. Le altre, e anche la mansarda e la cantina, sono occupate dagli ombrelli.
Ci tengo a dire che non si tratta di un'eccentrica collezione. Tutti gli ombrelli che mi trovo ad ospitare mi sono stati via via consegnati da persone diverse, nella mia città di residenza e nel corso di viaggi, taluni anche all'estero. Non ho mai in alcun modo sollecitato queste consegne. Semplicemente, se entro in un negozio, in un ufficio, in un cinema, in un bar, in qualsiasi luogo pubblico vengo presto abbordato da un benintenzionato che con un allegro sorriso mi consegna un ombrello: « Tenga, questo è suo, l'ha dimenticato qui ieri / la settimana scorsa / un anno fa» Inutile negare o schermirmi. Uscendo mi trovo immancabilmente fornito di un nuovo ombrello. Inutile anche abbandonarlo da qualche parte: mi sarà restituito. In quanto al distruggerlo o al rivenderlo o regalarlo, ognuna di queste condotte si è rivelata inutile o controproducente. Ho infatti registrato costantemente il flusso degli ombrelli in arrivo, constatando che ad ogni gruppo di ombrelli venduto, distrutto o regalato corrispondeva un'impennata nelle consegne. Ho così finito per stabilire che era preferibile per me tenere un basso profilo e non improvvisare manovre temerarie. 
Da qualche tempo a questa parte la perniciosa gentilezza dei miei simili è giunta a perseguitarmi a casa. Non passa giorno senza che la mia quiete familiare non venga turbata da qualche volenteroso armato di ombrello e ben deciso a restituirlo al legittimo proprietario. I più cortesi e precisi arrivano ad avvolgerlo nella carta velina.
Non che non abbia già escogitato numerosi tentativi di liberarmi del mio ingombrante fardello, ma il fatto stesso di trovarmi a dover compiere questo passo estremo testimonia del loro fallimento. Posseggo solo questa casa e una rendita limitata, mi trovo quindi nell'impossibilità economica di inviare i miei ombrelli in luoghi dove ne esista la necessità e manchino le risorse e la tecnologia per produrli. D'altro canto innumerevoli sono stati gli ostacoli che mi sono stati frapposti, gli atteggiamenti sospettosi, le resistenze, le suscettibilità, i sarcasmi.
Ecco che sta nuovamente suonando il campanello della porta a pianterreno. Odo zia Elsa che scende le scale ed apre la porta: buongiorno / buongiorno / il signore...suo figlio? / mio nipote / ecco, suo nipote ha lasciato sulla panchina... ho pensato di portarglielo / non è nostro / guardi, ne sono certa, l'aveva quando è arrivato / le dico di no (inutile tutto inutile) / ma l'assicuro, chieda a lui. Lo prenda, comunque, sa un ombrello fa sempre comodo...
Avverto il rumore della porta chiusa, il passo della zia che risale le scale, la sento mentre apre la porta della vecchia sala e getta l'ombrello nel mucchio, ormai arrivato fino al soffitto. Poi chiude la porta e si ritira nella sua piccola stanza.
A questo punto suppongo sia opportuno dilungarmi almeno un po' su zia Elsa. Sono sicuro che a lei farebbe piacere e poi i miei lettori riterrebbe indelicato non dedicarle almeno due righe, dopo averla citata.
Non è mia zia, innanzitutto, ma una sorellastra di mia madre, una bambina dimenticata da qualcuno nel giardino della nostra casa, che i miei nonni hanno prima nutrito e infine adottato, sia pure non ufficialmente. Non ufficialmente perché nel maggio del '45 di ufficiale c'era ben poco.
Adesso zia Elsa vive con me. Mi prepara da mangiare, mi lava la roba, tiene pulita la casa, fa le spese e sa suonare con la fisarmonica l'intero repertorio di Natalino Otto e Oscar Carboni.
Non posso che dirne bene, tanto più in questa mia unica e ultima scrittura pubblica. Anzi, colgo l'occasione per dichiarare che per me Zia Elsa è stata come una seconda mamma. La prego ancora di perdonarmi per tutte le piccole grettezze, le ingratitudini, gli scatti di nervi, le pignolerie e le meschinità che le ho inflitto. Purtroppo la mia indole e la mia educazione mi hanno reso puntiglioso e aspro, insoddisfatto e lunatico.
La mia dipartita prematura comunque la compenserà, lasciandola padrona della casa e probabilmente la mia scomparsa risolverà il problema degli ombrelli. Forse il funesto demiurgo che ha stabilito di far di me lo zimbello della sua bizzarra perfidia, finalmente placato, si deciderà a cercare un'altra vittima.
Non sono solito evocare enti soprannaturali - ho avuto una formazione scientifica - ma, nonostante tutta la mia buona volontà, non sono riuscito a trovare alcuna spiegazione piana e razionale alla mia singolare sorte.
Non ho ricordi rivelatori in proposito, per quanto con la memoria mi sforzi di giungere fino ai miei primi mesi. Pur se figlio unico reputo di aver avuto un'infanzia normale, allietata dai giochi e dagli scherzi del mio povero papà, commerciante di francobolli e collezionista di cotillon di capodanno, e rafforzata dal calmo raziocinio di mia madre, che mi ha insegnato il valore dell'ordine e del metodo.
No, non posso affermare di essere stato in qualche modo predestinato a simile sorte. Eppure...
Ma perché negarlo o nasconderlo? In fondo questa mia è anche palestra di verità e quindi debbo andare fino in fondo, scavare fino a trovare le radici. Debbo ammettere che, di tanto in tanto, in giorni in cui ho avvertito la mia solitudine più acuta, ho dedicato diversi minuti a considerare la smisurata varietà di ombrelli che ormai posseggo. Sono entrato nelle stanze dagli scuri chiusi e ho respirato a fondo l'odore della seta, del nailon, dei legni, della plastica. In piedi nella penombra coglievo il baluginare di giunti, asticciole, molle, mi sentivo immerso in un mondo di fredde e impeccabili articolazioni, di scatti calcolati, di bellezze scheletrite ed essenziali. In quegli attimi, quando il respiro improvviso di un ombrello automatico mi faceva sobbalzare, mi sentivo stranamente sollevato; percepivo la bellezza sovrumana di quei movimenti compiuti, definitivi, e intuivo la presenza del loro Dio, il mio demiurgo. Talvolta mi è anche capitato di averne per qualche attimo la visione. Si tratta di un'immensa, gelida medusa, dai movimenti segmentati, maestosa come il moto di un pianeta o di un satellite.
Sono quelli gli unici riprovevoli momenti nei quali ho concesso libertà ai miei pensieri, nei quali mi sono permesso riflessioni oziose. Esattamente ciò che mia madre non avrebbe mai tollerato e che neppure io, di conseguenza, posso tollerare.

La mia vita ordinata, conseguente è minacciata dal caos che ormai mi sommerge. Qualunque attività mi è preclusa dalla costante consegna di ombrelli, mattino e sera, anche nei giorni festivi. Non riesco più a dedicarmi a nessuna delle mie modeste ma soddisfacenti attività, alle mie collezioni, ai miei studi. Non esiste più per me speranza di solitudine, possibilità di riacquistare l'anonimato.
Trasferirmi, andarmene non risolverebbe il mio problema. E lontano dalla mia abitazione, dalle mie abitudini non potrei sopravvivere.
Procederò al suicidio mediante l'ingestione di una moderata quantità di un veleno che non avrà effetti sull'apparato motorio e che mi lascerà ben composto e ordinato anche oltre la soglia della vita.

Procedo a sciogliere il veleno in acqua. L'acqua è rimasta limpida e insapore. Questo scongiurerà la possibilità di essere rinvenuto con una smorfia disdicevole sul viso.
Mi abbandono cautamente allo schienale della sedia. Da tutte le stanze della casa odo provenire ticchettii e leggeri fremiti. É il Demiurgo che saluta il mio arrivo. Sento le gambe farsi pesanti e fredde. Non riesco più a muovere i piedi. Gli ombrelli automatici si stanno aprendo uno dopo l'altro, come grandi pipistrelli sbattono le ali contro le porte, i muri, le finestre serrate. Immagino la seta e il nailon che scivolano e si muovono a comporre un tempestoso mare teatrale.
Il freddo mi sta raggiungendo. Scrivo con pena queste ultime righe. Un ultimo faticoso pensiero mi accompagna verso la soglia. Non è solo un pensiero: è un urlo, un ruggito, una tempesta di dolore che mi sovrasta e mi assorda. Proviene dai mille e mille ombrelli che vivono nella mia casa, da quelli grandi, foderati di stoffe scozzesi fino a quelli piccoli, da bambino, pieni di graziosi disegni dai colori chiassosi. Sono le loro voci sottili e metalliche dotate di una strana, inafferrabile risonanza, come di stoffa lucida accarezzata. Dentro di me si compone una frase.

«Perché, perché anche tu ci abbandoni? Non siamo già stati tutti abbandonati più volte? Non lasciarci! Resta ancora con noi: sei preciso, ordinato, tu. Non dimentichi mai nulla. Sii ancora una volta il nostro Signore, la nostra Grande Medusa Meccanica!»

Ascolto senza capire prima di scivolare via.

4 commenti:

cily ha detto...

Molto carino e soprattutto diverso dallo stile delle ultime cose che hai scritto.
Devo dire che lo ho divorato perchè ero davvero curiosa.
Mi è piaciuto molto l'uso della prima persona, ottimo ritmo e piuttosto intrigante.
Sarà che la prima persona mi riesce piuttosto male ma invidio sempre chi riesce ad usarla così bene... SIGH!

Cily

Massimo Citi ha detto...

@Cily: il cambio di stile penso sia dovuto alla necessità di non apparire in quanto MC, ma con lo pseudonimo utilizzato. Un piccolo trucco, diciamo così. Infatti ho simulato un distacco nei confronti del protagonista che normalmente non esibisco. Mi fa molto piacere che tu l'abbia letto d'un fiato e, in quanto all'uso della prima persona, è una conseguenza quasi necessaria dell'assurdità che il protagonista racconta. La prima persona è il massimo possibile di parzialità - io racconto solo ciò che io vedo, e nessuno può discuterne - ma come tale può essere messo in discussione da chiunque. Il nostro perseguitato dagli ombrelli può anche essere soltanto un collezionista impazzito o un ciclotimico in fase down, desideroso di trovare un motivo al suo desiderio di morte. Narrare in prima persona è tipico, tra gli altri, di E.A.Poe, di Kafka e di altri autori del fantastico. Sempre per lasciare al lettore un grado di autonomia possibile nel giudicare ciò che accade, come di partecipare più intensamente e profondamente. Un coltello a doppio taglio, insomma, da utilizzare con grande attenzione : )
Con tutto ciò non intendo minimamente paragonarmi a tali scrittori, sia chiaro. Semplicemente è per presentare un pezzetto dei compiti a casa che feci ai tempi del seminario di scrittura creativa.

Lucrezia Simmons ha detto...

Mi piace questa tua epopea degli sconfitti, dei perseguitati, degli assediati. Da fantasmi, da ricordi, da pensieri, da un gorgo di oscurità.
L'oscurità che è vero e proprio personaggio della tua narrativa.
Mi è piaciuto molto, ha un tema originalissimo.
I tuoi assediati sono sempre accompagnati da un altro essere umano, almeno non sono soli...non completamente.

Massimo Citi ha detto...

@Lady Simmons: Il tema è sicuramente curioso, nato, come spiegavo da una sorta di scherzo. Lo svolgimento, me ne rendo conto, è venuto più «nero» di quanto progettassi, anche se c'è un fondo di humour nero avvertibile nella vicenda. In fondo questo personaggio non mi era - in partenza- troppo simpatico ma poi, come mi capita spesso, ho finito per comprenderlo e compatirlo, nel senso di «patire con lui». Mi fa comunque molto piacere che il racconto ti sia piaciuto. Lo temevo un po' troppo lungo per la pubblicazione on line ma evidentemente ha comunque trovato degli estimatori : )