Ieri pomeriggio ho partecipato all'assemblea annuale del Comitato Editori Piemontesi, dove abitualmente mi incarno abbandonando la mia veste di editore virtuale e di factotum su FB.
Il fatto che il gruppo di piccoli editori che si è riunito sia sopravvissuto e sia persino riuscito a crescere di numero è un dato di non piccola importanza, soprattutto di questi tempi. Il Salone del Libro si profila non troppo distante e anche se il sottoscritto non parteciperà - non è facile farlo con un libro virtuale - si tratta di una manifestazione che riveste un'importanza considerevole per gli editori locali. Il fatto che l'inviata della Regione ci abbia comunicato che il Piemonte non ha al momento i soldi per pagare lo stand dei piccoli editori ha creato non pochi grattacapi - che fortunatamente non hanno avuto conseguenze fisiche sulla delegata regionale - ma che si spera verranno superati.
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Il romanzo breve al quale sto lavorando, titolo provvisorio «Settembre», ha felicemente superato i 115.000 caratteri.
Una conclusione necessaria l'ho afferrata: c'è qualcosa di terribilmente attuale e di cogente, di obbligato nel fondamentalismo, come una strada che fatti i primi passi non puoi che percorrere fino in fondo, a meno che qualcosa ti sottragga ad esso. C'è una consequenzialità fatale in certe scelte che ipotecano il futuro e che finiscono per determinare interamente i loro esiti.[*] Scelte che soltanto chi compie può comprendere e giustificare. Chi ne rimane al di fuori non può che, giustamente, rifiutarle.
Dal punto al quale sono arrivato riesco quasi a vedere la fine del romanzo. Che
comunque - è bene spiegarlo - non è ancora all'ordine del giorno.
È un'emozione curiosa, che non è facile spiegare a chi non si è mai cimentato nella scrittura di un testo che superi le 20-30 pagine. Quando un testo si allunga, germina, vibra sotto le mani è molto facile perdere il controllo di ciò che si sta scrivendo. E per un lungo momento qualunque idea dev'essere soppesata, valutata, provata e ripensata. Sono i momenti delle false partenze gettate nel cestino (virtuale), dei pipponi, pardon, delle lunghe spiegazioni che è bene spezzare, rimandare, affidare a un personaggio, dei dialoghi da trasformare in elementi dell'intreccio. E viceversa. È un duro lavoro ma che ad ogni ostacolo superato dà una sensazione di completezza e insieme di leggerezza, come un colloquio di lavoro superato o un esame universitario.
Difficile spiegare che cosa ci sia di bello nel faticare senza prospettive reali, solo per il gusto di seguire personaggi divenuti reali nella propria immaginazione e che, una volta creati, resteranno vivi anche alle prossime letture.
Anche nelle letture altrui, per quanto mi è dato sapere.
Mi è successo più volte, con il personaggio di Verena de Il perdono a dio, con Balthazar, protagonista di Luna Lontana, con HundAlexis di Zhao o con Gigio de Le bambole in volo.
E con Taubzent di Settembre.
L'unica spiegazione che posso dare è che in loro compagnia mi sento un meno solo e che loro silenziosamente mi accompagnano nel tempo della vita.
Che non è affatto poco.
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Il lungo intervento relativo alle delusioni da concorso mi ha frustrato.
Nel senso che temo di non essere riuscito a spiegare che cosa pensavo realmente.
Ho paura di aver dato la sensazione di sparare più o meno su
tutto o di aver insultato i piccoli gruppi di provincia che cercano di
creare isolate oasi di cultura in un ambiente sempre più depresso.
Mi dispiace, non era questa la mia intenzione.
Temo di non essere
riuscito a dare l'idea del clima sostanzialmente irrespirabile che si
vive in certe giurie dove mi è capitato di lavorare, cariche di una dose
mefitica di intolleranza per chi non scrive secondo regole
cervellotiche e arbitrarie. Ed è difficile commentare la deriva di concentrazione creata da chi enuncia prima di riflettere, di chi - ahimé - non ha sensibilità per la scrittura, di chi condanna un uso opinabile delle virgole senza riuscire a vedere il nuovo contenuto in un testo.
Credo che tornerò ancora sul tema. Estote parati. [*] Il che è come dire che ero ateo prima di cominciare a scrivere e tale a maggior ragione resterò.
7 commenti:
"Quando un testo si allunga, germina, vibra sotto le mani è molto facile perdere il controllo di ciò che si sta scrivendo. E per un lungo momento qualunque idea dev'essere soppesata, valutata, provata e ripensata."
Quanto è vero, Massimo. Ho gli stessi problemi con "I Nostri Diritti" e mi sto dando delle regole severe: niente pipponi, punto di vista accuratamente focalizzato, e naturalmente la mia idea fissa del narratore non onnisciente ma "storico" o "cronista" dei fatti - non si racconta ciò che nessuno ha visto o può riferire ("Caccia alla Bismarck" di Ludovic Kennedy è un ottimo esempio di questo approccio storico-narrativo). Con l'aggravante che ero già affezionato ai personaggi: un parziale restyling e un inevitabile slittamento temporale non li hanno snaturati. Ma non so ancora che cosa ne verrà fuori alla fine.
@Paolo: che cosa ne verrà fuori alla fine è sempre l'interrogativo principe, scrivendo. Mi è capitato più di una volta di avere una precisa idea di come doveva finire qualcosa per poi trovare un'idea che mi obbligava a modificare completamente l'exitus. E a modificare non poco anche ciò che lo precede. È anche questo il bello di scrivere, da un certo punto di vista.
Al menestrello capita non solo di "vedere" i personaggi, ma che quegli stessi personaggi dopo un po' vadano per fatti loro, che anzi sia lo scrittore a dover in qualche modo modellare la sua storia nei loro confronti.
In ogni caso superare la soglia dei 100000 caratteri è un bel traguardo, ma il menestrello per sua natura non può arrivare a quella cifra senza avere già il quadro completo. Anche perché il menestrello di solito viaggia su un numero di caratteri maggiore :)
@Menestrello: i personaggi dei romanzi hanno una vita particolare. Talvolta hanno il laccio al collo dell'autore/padrone e possono far poco a parte dire o agire o pensare in un raggio molto stretto. In altri casi l'autore rinuncia al suo ruolo di padrone con tutto ciò che ne consegue, compresa un'indipendenza imprevista. Effettivamente può capitare di dover inseguire il personaggio o di essere stimolati dal suo comportamento o dai suoi pensieri. Una particolare forma di feconda scissione della personalità.
Personalmente non ho quasi mai un quadro ben definito di come procede il testo. Ho un'idea generale di che cosa deve accadere ma nulla di più e posso cambiarle anche due o tre volte in corso d'opera. D'altro canto non posso sapere esattamente che cosa accadrà nel romanzo, altrimenti avrei la sensazione di leggere qualcosa di già letto, ovvero di scrivere qualcosa di già scritto. Mi dispiace per i giusti insegnamenti apparsi qualche anno fa su L'Indice a cura dell'allora preside di lettere, ma non riesco a stendere una traccia prima di scrivere...
Io ho preso in considerazione anche un finale "col botto" ma mi sembrerebbe di snaturare un racconto che per il momento è tutto giocato su toni crepuscolari e che, in un certo senso, mette le carte in tavola fin dalle prime righe.
I personaggi facevano parte di un ciclo di racconti rimasti inediti e già allora avevano una sorta di vita propria: apparivano in una storia, restavano sullo sfondo in altre. Complessivamente hanno richiesto pochi aggiornamenti, ma almeno uno ha assunto una fisionomia più definita e una complessità assente nell'originale. Mi piacevano allora e mi piacciono anche oggi: uno dei miei limiti è che non riesco a mettere in scena delle vere carogne.
@Paolo: anch'io fatico non poco a mettere in scena un vero cattivo. Un cattivo di quelli meschini: mentitore, sfacciato, calcolatore e spietato. Tutte le volte che ho dovuto mettere in scena un villain ho poi finito per renderlo più interessante del dovuto e concedergli qualche giustificazione. Invidio profondamente gli scrittori di horror che riescono a rappresentare in forme assolute
ii male.
Messere ovviamente non è nulla di così statico, anche per il menestrello c'è sempre un certo generalizzare, ma le parti fondamentali dell'intreccio arrivano quasi subito.
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