Il
mio penultimo M.A.d.u.L.p., visibilmente datato - viene persino
citato l'anno in cui lo stesi - ma che constato essere rimasto
perfettamente attuale, tanto che non ho dovuto cambiare nemmeno una
virgola. Qui ci sono quasi tutti i motivi per i quali ho chiuso la
libreria e mi sono autopensionato - senza pensione - in netto
anticipo.
Esiste
il burn-out del libraio?
Quando
si cominciano a sentire segni di stanchezza? I primi sintomi di
esaurimento?
Me
lo sto chiedendo con frequenza allarmante in questa demente estate
del 2006, constatando con orrore che la semplice idea del rientro
autunnale con il conseguente arrivo di altri libri, nuovi
titoli, sensazionali novità mi provoca un tremore alla bocca
dello stomaco. Qualcosa di molto simile alla nausea.
È
una sensazione ai limiti dell'incomprensibe e dell'osceno per chi si
limita ad amare i libri senza averne fatto lo scopo della propria
vita – ne sono ben conscio – ciò non toglie la realtà tangibile
della sensazione, mai tanto evidente come in questo agosto irresoluto
e inclemente.
Semplice
stanchezza? Mal de vivre? Spleen? Mi risulta difficile
crederci se provo a concentrarmi su altro. No, la nausea nasce
proprio dalla prospettiva di un altro anno in trincea a difendermi
dalla produzione editoriale e dall'ennesima recrudescenza di titoli
in uscita. Il rapporto di molti operatori del settore editoriale
librario sta diventando sempre più simile a un viaggio sulla Freccia
Gialla di Viktor Pelevin: un interminabile tragitto in treno senza la
possibilità di scendere, a guardare dal finestrino paesaggi che,
fatalmente, finiranno per ripetersi.
Brrrr…
Ma
forse vale la pena si scavare ulteriormente in questa sensazione,
provare a delimitarla meglio.
«Persistenza».
È
una parola-chiave.
I
libri che leggevo un tempo avevano maggiore «persistenza».
Probabile
che fosse perché non seguivo da presso la produzione editoriale ma
mi limitavo a leggere ciò che trovavo in giro.
O
forse, semplicemente, perché ero più giovane.
Brutto
tasto, passiamo oltre.
Ma
la persistenza non è solo una categoria soggettiva, la convinzione
ingenua che un libro debba lasciare un segno in chi legge. La
persistenza è anche una caratteristica oggettiva. È oggettivo che
molti titoli – belli, brutti o così così non importa – non
possano sperare in una sopravvivenza in libreria che superi i 3-4
mesi. A parte ogni considerazione economico-finanziaria, il problema
fondamentale finisce per essere: «E questo dove lo metto?»
Non
si tratta soltanto di una conseguenza della metratura della libreria,
tanto è vero che le grandi librerie e le librerie di catena sono
assolutamente feroci nella selezione dei titoli da tenere a stock.
Improbabile che un titolo che non ha avuto performance di vendita
notevoli sopravviva a scaffale oltre i novanta giorni.
E
loro non hanno problemi di spazio.
No,
semplicemente il vecchio (sempre di più l'«appeno meno nuovo» o il
«recente») deve lasciare spazio al nuovo (o presunto tale). Le
macchine da stampa debbono continuare a girare perché l'investimento
in capitale fisso sia produttivo e i giornali debbono riempire altre
pagine di futili chiacchiere sul caso letterario, sull'autore –
nuovo anche lui – o sull'eterna penultima tendenza.
Che
p…
Scusate.
La
nausea è un utile sismogramma, in questa indagine.
Aver
citato gli articoli di argomento letterario dei maggiori quotidiani
mi ha dato un brivido quasi insostenibile.
La
parola «circo» non indica soltanto una forma di spettacolo ma
definisce anche la circolarità dello spazio nel quale avviene la
rappresentazione. «Circo» e «ciclo» sono lemmi molto vicini,
etimologicamente legati. È così che il «ciclo editoriale» diviene
con uno slittamente semantico quasi inavvertibile un «circo
editoriale».
Del
circo editoriale fanno parte artisti, impresari e banditori. La prima
categoria può e deve essere «ruotata» con una certa frequenza,
mentre impresari e banditori sono essenziali, irrinunciabili.
Fatali.
In
tutti i sensi possibili.
È
ragionevole pensare che in questo circo isterico e isterizzante possa
trovare asilo una parola come «persistenza»?
Da
bambino ho sentito dire che nel 2000 (scritto così, in forma di
numero, aveva un fascino maggiore) avremmo lavorato al massimo per
tre o quattro ore al giorno e il resto del tempo l'avremmo potuto
dedicare a hobby, passioni, formazione personale. Abbiamo
trionfalmente superato l'anno Duemila per arrivare a vivere in un
mondo dove il tempo libero (ovvero il tempo da dedicare a se stessi)
è diminuito rispetto agli anni Sessanta e dove capita di sentire
idiotissime e nefaste classifiche mondiali sul numero di ore lavorate
all'anno e dove l'Italia Produttiva si distingue da quella
Improduttiva sulla base del vanto di coltivare l'abitudine incivile
di lavorare troppo, ovvero di essere sempre più schiavi della
propria avidità di denaro, oggetti, futile esibizione di lusso e
ricchezza.
Che
sarebbe bene darsi una calmata l'ha detto persino il papa che pure,
date le sue origini tutt'altro che caraibiche, non è sospettabile di
essere un sostenitore dell'ozio creativo.
«Peace
& Love».
«Friede
und Liebe», suona nell'idioma natale di Benedetto XVI.
Un
po' meno frivolo, ma il significato è lo stesso.
Fatto
sta che la coazione a produrre, ad alimentare ciecamente il ciclo (il
circo) del denaro ci sta rimbambendo tutti quanti.
La
permanenza è un disvalore. La durata una maledizione. La qualità un
intralcio. Comincio a sentirmi più vicino alle radici del mio
malessere.
«Mica
vorrai mettere una pietra tombale sui nuovi autori, le nuove
proposte, le nuove idee?»
Per
carità. Ci mancherebbe.
Il
guaio è che di «nuovo» c'è davvero poco all'orizzonte.
Raramente
il «nuovo» in natura si presenta accompagnato dalle fanfare dei
media. Anche il genere Homo sapiens è stato, a suo tempo,
nuovo. Una novità fiammante sviluppatasi in sordina in qualche
sperduta plaga dell'antichissima Etiopia. Nessuno ci ha presentato
come «la specie che conquisterà il pianeta». Piccoli, brutti,
mezzi glabri e mezzi pelosi non avremmo mai conquistato la prima
pagina di alcunché. Nemmeno un articoluzzo su «Il Venerdì» o un
elzeviro sul «Corriere».
Ci
hanno lasciato in pace, buon per noi.
Il
nuovo spesso si presenta così. Irriconoscibile, fragile, delicato,
sgraziato. È molto probabile che il nuovo si annidi in qualche
produzione minore, in qualche angolo poco frequentato.
«Su
internet!», dice qualcuno
Internet
sì, ma con qualche cautela. Per carità.
Di
falsi «artisti clandestini» emersi soltanto grazie a internet
abbiamo già abbondantemente fatto il pieno. Come di stimolanti blog
e di geniali chat. Internet è la pubblica piazza di un tempo.
Si va a zonzo – o si viene accortamente instradati da un motore di
ricerca – finendo per andare tutti da quello che urla più forte ma
evitando scrupolosamente di leggere qualsiasi testo che superi le
cinque righe.
A
meno che non siano le proprie predilette cinque o cinquecento
righe.
Nella
produzione editoriale che assalterà le librerie quest'autunno ci
saranno sicuramente alcune conferme, diverse nuove proposte delle
quali sarà complicato capire il valore nello spazio medio di una
sessantina di giorni e una quantità imprecisata (ma sicuramente
cospicua) di puro letame.
Il
letame letterario (ma anche cinematografico o musicale) è ciò che
viene prodotto per la paura di proporre qualcosa di interessante, e
quindi rischioso. Nasce dal dominio ormai incontrastato degli uffici
commerciali sulle redazioni editoriali.
E
immancabilmente viene presentato come «nuovo».
Come
se una fotobiografia di qualche viceparishilton, un saggiozzo farcito
di ovvietà di qualche sociopsicotuttologo, un ruttino d'autore o
l'ennesimo anonimo romanzetto thrillersplatterpornonoir potessero
contenere anche solo un refolo di aria nuova.
D'altro
canto la gente non ha tempo.
Non
ha tempo.
Non
ha tempo.
Vuole
leggere – o forse riesce a leggere – soltanto cose facili,
veloci, insapori. Da leggere e dimenticare senza rimpianti.
Sono
quasi alla fine del viaggio intorno alla mia stanza.
Alla
radice.
Forse
alla verità, sia pure con la «v» minuscola.
Non
sopporto di essere diventato, a tutti gli effetti, un passacarte.
Con
poco tempo per leggere e poter giudicare con la mia personale
dotazione neurale mi sento diventato un ferrovecchio. Un attrezzo
nato in altri tempi per intenti adesso oscuri.
Non
è una bella sensazione.
La
sola via d'uscita per noi cimeli sembrerebbe quella di poter vivere
in un mondo meno affannosamente lanciato in un loop senza fine di
false scoperte e accorte dimenticanze. Sono stupito nel constatarlo,
ma è grosso modo quello che dice Benedetto XVI.
L'unica
persistenza riconoscibile, a questo punto, rischia di essere la mia.
La nostra, se intesi come librai indipendenti. Più che persistenza,
ostinazione.
Ostinatamente
cercheremo di lavorare. Guardarci intorno e dire la nostra, anche se
sbagliata, insufficiente, parziale o patetica.
Siamo
stanchi, ma sappiatevi regolare.
6 commenti:
Diciamo che il momento del cambio nei tempi della fruizione di un libro in libreria (la cosiddetta "vita media" ) l'ho vissuto anche io da lettore.
Nel 1990 andavo nella mia libreria preferita di Napoli e trovavo gli stessi testi per 6-8 mesi, c'era anche il giusto ricambio, però avevo molto più tempo per scegliere-o meglio, si sono convinto che in realtà è il libro che sceglie te, decidere l'acquisto in maniera ragionata, dosare gli acquisti.
Nel 1998 stessa libreria : il tempo di permanenza di un libro era diventato di 3- 4 mesi al massimo.
Se tornassi oggi nella stessa libreria troverei libri che cambiano di settimana in settimana a meno di non chiamarsi Vespa; Brown e così via.
Sono i tempi ad essere cambiati Max, non certo noi.
@Nick: infatti, nelle librerie di catena funziona esattamente così, Vespa è tuttora esposto ovunque - pur essendo uscito a metà novembre - anche se ho notato un certo rallentamento nel cambio, essenzialmente dovuto a un calo drammatico dei titoli in uscita. La crisi è reale anche per il settore editoriale, anche se ti chiami Mondadori, Rizzoli o Feltrinelli. Il risultato è che la permanenza di alcuni titoli - basterà ricordare la bassa qualità dei best-seller Newton? - diventa sinistra o snervante. Interessante notare, in ogni caso, che uno dei risultati della crisi è il drastico taglio (o l'evaporazione) dei diritti d'autore, con ritardi - di nuovo in prima fila la Newton - che hanno qualcosa di grottesco.
Prima, quando ero più piccola entravo in libreria e mi sentivo pervadere da una certa eccitazione. La stessa che ti prende quando vai ad un parco giochi come Disneyland e non riesci a decidere da quale giostra cominciare perchè tutte ti piacciono e ti caricano di aspettativa.
I libri come giostre. Il tempo trascorso a leggere come un tempo pieno, ricco, saziante.
Anche la biblioteca mi faceva lo stesso effetto.
Ora da una decina di anni a questa parte, dopo innumerevoli fregature guardo le librerie con un certo ribbrezzo. Come fosserò dei casinò. Dove finirai a perdere i tuoi soldi e non è detto che ti sarai divertito. Un luogo dove vince sempre il banco, alla fine.
Lo so che i librai non c'entrano ma sono gli editori però la diffidenza c'è(non che su IBS non ci sia ad esempio).
Poi ci sono i tanti libri ereditati da mia mamma, mia nonna, mia zia (da notare che a casa mia leggono le donne...)libri che quando li apri sono persistenti, come dici tu.
Eppoi c'è l'infinita collezione di fantascienza e fantasy dei bei tempi andati di mio marito.
Quando voglio qualcosa di buono vado lì. Ai vecchi libri.
La volta che sono incappata in Ballard che non avevo mai letto ero particolarmente assetata e scoraggiata. Uscivo dalla lettura dell'ennesimo urania sottotono, lasciato a metà.
Prendo il libro di Ballard e comincio a leggere e penso, questo ci sa fare.
Sì lo so che parlo di un buon autore però io pesco tendenzialmente a casaccio e di solito mi dice bene. vado in libreria ed è una tragedia.
Infine sottoscrivo il tuo discorso sul troppo lavoro.
Ho lasciato il mio lavoro riducendo un po' la qualità della vita nel senso di rinunciare a qualcosa (andare meno fuori, comprare meno vestiti o comunque meno costosi, riducendo gli sprechi), per stare con i miei figli e soprattutto perchè lavoravo 12 ore a volte 14 ore al giorno, senza sabati e domeniche.
Non era vita quella. Non aveva sapore, io non ero in grado di gestire il mio pochissimo tempo libero perchè ero troppo stanca per intrattanere qualsiasi conversazione e se andavo ad esempio al cinema mi addormentavo puntualmente.
Preferisco avere meno cose ma vivere il mio tempo in pienezza.
Consola il fatto che i classici, anche i moderni, permangono. Ma se la narrativa (giusto per restringere il campo) contemporanea non permane, cosa leggeranno i nostri pronipoti? Quali saranno i classici di questi anni?
@SX: proviamo a cambiare campo: quali sono i classici musicali del nostro tempo? I Sigur Roos? I Coldplay? Temo di no, con tutto il rispetto. Credo che l'ansia di piazzare soltanto colpi vincenti stia rovinando la piazza. Si risparmia sui nuovi per riproporre l'ennesima ristampa dei Beatles. E si ristampa Tolstoi rimandando a data da destinarsi i nuovi autori. Poi la vecchia talpa, quella di Karl Marx, opera ugualmente e sarà il tempo a stabilire i nuovi classici. Io non mi preoccuperei.
@Cily: rinunciare... non è facile. Ho dovuto iniziare a farlo e, se debbo essere sincero, ne sono felice. Ho ritrovato il rapporto con mia figlia e ho scoperto di star bene con mia moglie. Quanto al tuo rapporto con le librerie non è facile descrivere cosa provo guardando adesso un tavolo di novità o uno scaffale di magazzino. Mi viene da cercare libri che non trovo e che probabilmente non esistono. Cerco un colore inesistente, un sapore perduto. Ma non riesco a smettere di entrare, anche se finisco per non comprare nulla. Non so se finirò per abituarmi, ma intanto debbo rassegnarmi: le librerie hanno perduto il loro fascino. E la spiegazione non sta nel fatto che non servono il caffè o hanno magliette loffie: mancano i libri, mancano gli autori, le idee, i sogni.
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