19.1.13

Alberi d'autunno



Suppongo che pochi di voi abbiano mai fatto mente locale sulla mia origine, ovvero sulla mia città natale. Io stesso, a esser sincero, lo ricordo raramente, definitivamente torinizzato senza possibilità di salvezza. Anche i miei rapporti con i parenti si sono via via sfilacciati e dopo l'adolescenza non ho quasi più avuto occasione di ritornare a Brescia. Ma qualcosa della tradizione veneto-lombarda mi è evidentemente rimasto dentro. Il delirante brano che segue è uno degli esercizi di stile dei quali ho iniziato la presentazione con Perché i benzinai si sentono soli.
Suppongo che questo incrocio tra una scrittura naturalista in versione padana e una soggetto da sussidiario per la scuola elementare sia nato da un malconsigliato incontro tra le mie origini, le mie esperienze d'infanzia con parenti di campagna e qualche lettura da vecchi libri scolastici. Non lo so, io spero davvero che sia così e non sia semplicemente la voce della terra: «Blut und Erde».

RURALE

Essendo io a mio tempo stato uno stretto collaboratore del a voi più che noto insigne direttore della Vostra bella pubblicazione mi permetto offrirmi alla Vostra cortesia per una pronta pubblicazione del mio "Alberi d'Autunno". Con piena stima mi firmo con Vostro permesso

Alberigo Colò.

Alberi d'Autunno 
di Alberigo Colò


Il villaggio è terra di memoria e d'oblìo. Le care voci che tante volte al mattino riempivano il mio animo di tepida allegria, la cara zia Lucilla che cucinava golose frittelle da riempire di confettura e biondo miele e cantava con fervida voce, la stessa voce potente ma riservata e schiva dei miei antenati che già combatterono per la nostra bella patria. "Faccetta nera" ella cantava con bel timbro virile ed ogni volta che giungeva a cheggiàllorasavviiici-ina scodellava una frittella nel mio piattino decorato da prugne e arance in artistica ghirlanda.
E il nonno, ancora saldo e forte a settant'anni sonati, che riportava i cavalli a stalla sotto il braccio quand'essi eran sfuggiti al basto e caracollavano inebriandosi della ritrovata libertà nei prati verdeggianti del poggio fiorito.
"Dove l'è che vai, macaco?" 
Urlava il nonno ai cavalli e anche a me e a mio fratello Attilio quando fuggivamo ai lavori campestri inerpicandoci sulla collina che chiudeva l'orizzonte della cascina della felicità. Aveva baffi bianchi a manubrio, il nonno, beveva parecchio e bestemmiava come un saladino, epperò era il primo al momento dell'elemosina in chiesa a por mano al portafoglio. Grande cuore e grandi mani aveva, cuore e mani di una misura che ora non si fabbrica più. Certo se n'è perduto lo stampo!
Mio fratello Attilio aveva due anni più di me e mani come quelle del nonno Aristide, detto Tide. Mi picchiava spesso, mio fratello, quando mamma non lo sentiva, e se andavo a piangere tra le di lei braccia, sul suo petto morbido e comprensivo che tutto sapeva e tutto perdonava, egli, per dispetto, mi riempiva il letto di ortica o di letame, a seconda della stagione e dell'estro del momento.
O Attilio, quanto odiavo le tue mani, le tue rabbie così improvvise e tempestose, il tuo agitare il capo come stormir di fronda che annuncia bufera, il gesto rapido e nervoso con il quale colpivi le mie gambette corte e nude con la sferza di ramo scortecciato. Eppure, quando il cavallo del Gino ti ha spappolato un piede sono andato a comprare - con i pochi soldi sottratti al babbo, che era a letto ubriaco e si sdraiava sulla mamma grugnendo come il Nelson, il maiale di zio Renzo - ti ho comprato, io che tanto ti odiavo, una candela per la piccola Madonna del Crocicchio.
La ricordi Attilio, la piccola Madonna del Crocicchio? Ti ricordi quando le tiravamo con la fionda? E la volta che le hai staccato netto dal busto il bel capo incappucciato d'azzurro e hai detto: Crist, e adess? 
Il babbo ti somigliava, Attilio. Come te era impulsivo e s'infiammava tutto per un nonnulla. Quando lo zio Renzo ci rubava gli zucchini e i pomodori per darli al Nelson, prendeva sempre lo schioppo, tutto rosso in faccia, e andava a sparare dentro la finestra della sua camera da letto. Quante volte ha ferito la povera zia Genuflessa che poi andava a lagnarsi con curato e il podestà? E quelli a dire: "É un bravo giovane, il Tonio, un lavoratore, un esempio per tutti. Lo compatisca, abbia pazienza come Gesù sulla croce!"
Quelle ultime parole il podestà non le diceva, certo, si fermava al compatimento, ma si sa che a ognuno spetta il suo compito, a ogni pastore il proprio gregge, terreno o mondano!
Ricordi gli alberi d'Autunno, Attilio, quegli alberi alti e forti, quei pioppi cipressini così severi e composti, come sentinelle ai confini della nostra povera felicità? La giornata era così breve, correva veloce e leggera come le automobili sulla strada per la città.
Babbo ti guardava tirare le pietre contro le auto e rideva forte, poi guardava me che avevo ancora il braccio e il tiro corto e mi diceva "Cuiun!" e poi rideva e beveva di quel buon vino che faceva nonno Irredento. Quando una volta hai tirato alla macchina di un generale e sono scesi tre soldati con le armi è scappato per i campi come un capriolo e noi siamo stati tre giorni in guardina. "Fatevi furbi!" Ha detto quando siamo tornati.
Era vera vita, quella, vita piena, sana, felice! Una vita che vorrei mostrare ai nostri pallidi giovani che non l'hanno conosciuta, che vivono infelici in queste città, senza ideali né rispetto. Si sapeva essere felici di poco, allora, del sorriso della mamma, delle cinghiate del babbo! Allora non c'era la droga a funestare le nostre giovani vite, né la pornografia a corrompere i nostri ingenui sogni e le nostre innocenti curiosità. Bastava la Gina, la serva, che per una lira, e se era in buona bastavano cinquanta centesimi, mostrava le vergogne o le poppe ad Attilio o a me. Ma per il babbo lo faceva gratis, e questa piccola ingiustizia è ancora nel mio cuore come una spina.
Questa era la vita, o giovani disperati, e spero che queste mie righe siano valse ad accendere in voi la luce della sua bellezza!
Accontentatevi, non cercate ciò che non potete avere, siate modesti, pudichi e sarete felici e ancora ci saranno Alberi d'Autunno a guardia della vostra felicità!

4 commenti:

cily ha detto...

Che bel pezzo...così credibile!
Non c'è che dire hai amalgamato benissimo ciò che hai raccontato con lo stile.
E' come se per raccontare certe cose occorresse proprio un determinato narratore.
E' come la voce fuori campo dei documentari è sempre molto famigliare.
Non so ma mi sembra di aver letto moltissimi altri pezzi del buon Alberigo.
Massimo, la tua scrittura riserva sempre delle sorprese! :)

Nick Parisi. ha detto...

Il pezzo è molto bello, un credibile esercizio di stile.
Anzi è fatto apposta per sfottere tutti i barbogi - e ne incontriamo parecchi nella vita quotidiana che non fanno altro che ripetere che una volta si stava meglio.
Sai qual è l' unica cosa che è cambiata meno?
Che ragazze come la Gina esistono ancora.
Soli che adesso invece dei 50 centesimi chiederebbero le ricariche del cellulare.

Massimo Citi ha detto...

@Cily: il pezzo è nato quasi casualmente, in aggiunta a una serie di pezzi che scimmiottavano gli stili «moderni». Questo, all'epoca, non aveva nulla di moderno ma imitava - come giustamente notavi - la prosa dei documentari LUCE o certa paccotiglia parascolastica. La cosa davvero comica - o sinistra, dipende dai punti di vista - è che il pezzo è ritornato «moderno» grazie ai buoni uffici della Lega Nord e della sua mitologia caprona, fatta di ripescaggi e di riproposte ad uso del popolo bue.

Massimo Citi ha detto...

@Nick: le ragazze come la Gina sono sempre esistite. Per un essere pensante è sufficiente arrivare a capire che puoi «noleggiare» una parte di te per ricavarne un utile per spingere qualcuno a farlo. Ovviamente non si tratta di qualcosa di naturale - tipo che le donne amano esibirsi - ma qualcosa di assolutamente storico: noi che siamo poveracci ci arrangiamo come possiamo per un pezzo di pane. E di companatico, ai nostri giorni. Quanto ai barbogi sono una piaga dei nostri tempi, più ricca di anziani di tante altre che l'hanno preceduta...