Altro «racconto perduto», scritto una prima volta nel 1990 e poi dimenticato. Poi rivisto e riscritto nel 1998 per essere pubblicato - sotto pseudonimo - in Fata Morgana 2 / Bugie.
Come molti debbo ammettere che i manichini mi creano una curiosa sensazione di disagio, nata da quando, poco più che seienne, accompagnavo mia madre nelle sue semieterne spedizioni in un «Grande Magazzino», con il nome doverosamente semifascista utilizzato come un neologismo invecchiato.
Non a caso il «Centro commerciale» di questo racconto ha un nome come «GM», facilmente decodificabile.
Di racconti con i manichini in qualità di deuterogonista o di antagonisti ne ho letti più d'uno e ricordo persino, un po' vagamente, una puntata della serie TV de «Ai confini della realtà».
I «miei» hanno la sola caratteristica distintiva di non apprezzare particolarmente il silenzio e il buio di un sotterraneo.
E di non amare il management postmoderno.
Non ho mai capito perché in una ditta
grande come la mia ci si debba preoccupare di tenere tutto, ma
proprio tutto, ingombrando quasi tutto il secondo piano sotterraneo
in questo modo.
Mi stringo nelle spalle e faccio
tintinnare le chiavi aprendo la porta di metallo verniciata di
grigio. Accendo le luci al neon. I tubi lampeggiano a lungo
ticchettando e forse per la centesima volta sento lo strano brivido
che quel posto ha il dono di darmi.
Sono lì, qualcuno in piedi, con lo
stupido sorriso impresso sulla faccia una volta per sempre, ma per la
maggior parte sdraiati per terra e accatastati gli uni sugli altri,
nudi, calvi, in un intrico di braccia, gambe, crani lucidi, torsi
senza capezzoli né ombelico, ventri lisci, simili a quelli delle
bambole. E sugli scaffali più alti toraci senza braccia e senza
gambe, teste, arti assortiti, frammenti dei vecchi manichini che è
impossibile utilizzare ancora per le vetrine o i banchi.
I due magazzinieri che sono con me si
guardano intorno con curiosità e fanno commenti a bassa voce.
- ...Un'orgia sintetica...
Il più anziano, Carrù, sorride
controvoglia per la battuta del collega e mi guarda. Mi sembra un po'
imbarazzato, come se non trovasse giusto stare qui, noi vivi, a
spiare questi simulacri senza dignità, senza abiti o parrucche,
ridotti a semplici oggetti, come bambole gettate via.
Da piccola non ho mai amato troppo le
bambole, non mi piaceva immaginare
che potessero parlare, né ho mai
giocato con loro a prendere il tè in salotto o a fare la spesa. Ogni
tanto le guardavo, le spogliavo e le rivestivo, provavo a cambiare
loro la pettinatura, con gli esiti che si possono immaginare, o
scambiavo gli abiti per vedere che effetto facevano.
Qualcuno potrà pensare che fare la
capodivisione abbigliamento alla GM era già una specie di vocazione,
per me, ma allora non lo facevo per un motivo preciso, ero
incuriosita e un po' spaventata per la durezza dei loro visi e dei
loro corpi, per le loro piccole natiche non completamente divise, per
i piedini rigidi, che non riuscivano a mantenerle in piedi, per quei
sorrisi immobili, inscritti tra le fossette di plastica.
- Allora, signorina Gobetti, quali
prendiamo? - La voce del più giovane, Longo, mi scuote e ricordo che
sono qui per un lavoro.
- Ne servono una trentina, di quelli
in condizioni migliori. Dovete portarli su: c'è una zona chiusa al
pubblico, dove c'era abbigliamento ragazzi: metteteli lì.
- Va bene. Cominciamo subito? -
Annuisco. Mentre cominciano a
schierarli nell'ascensore montacarichi decido di dare un'altra
occhiata, nella speranza di trovare una buona idea. E' il trentesimo
anniversario dei magazzini GM e da Milano è arrivato un fascio di
fax che, più o meno dicono la stessa cosa:
«Bisogna dare al pubblico la
sensazione dei grandi cambiamenti avvenuti nella GM, movimentare il
più possibile la nostra immagine, facendo ricorso anche ad
allestimenti stupefacenti o non comuni, particolarmente in vetrina o
comunque, in rapporto alla posizione ed alla situazione di ciascun
magazzino, valendosi anche dello spazio antistante ad esso.»
Il mio direttore ha avuto l'idea di
schierare una trentina di manichini, opportunamente abbigliati,
davanti alle vetrine, a fingersi passanti, idea che naturalmente
tutti i suoi tirapiedi hanno trovato eccellente.
Io non la trovo eccellente. Non so di
preciso cos'abbia che non mi piace, la trovo puerile, un omaggio
smaccato allo stupido esibizionismo televisivo di cui il nostro
supremo padrone è stato l'inventore.
Ho provato a dire che a mettere i
manichini davanti alle vetrine si sarebbe impedito alla gente di
guardare l'esposizione, ma mi hanno guardata come un'idiota e non ho
insistito.
In fondo al magazzino ci sono i
manichini più vecchi. La loro plastica si è screpolata e sono
opachi, ruvidi al tatto, ma grazie al cielo non sorridono. I loro
occhi sono semplicemente disegnati e sono più rigidi, con
articolazioni simili a quelle delle bambole della mia infanzia.
Avrei voluto usare loro per le vetrine,
ma non ho avuto nemmeno il coraggio di proporlo. La politica
aziendale non contempla il ricordo, la tenerezza che può fare
rivedere quei vecchi manichini abbigliati con abiti d'epoca, vuole
solo stupire, impressionare.
- Poveretti, per voi niente festa.- Lo
dico a bassa voce, perché i magazzinieri non mi sentano.
Mi volto per andarmene, ma mi
immobilizzo a metà del gesto, trattenendo il fiato. Con la coda
dell'occhio ho avuto la sensazione di cogliere un movimento quasi
impercettibile alle mie spalle, qualcosa come un lento dondolio di
una mano subito interrotto.
Mi faccio forza, resisto alla
tentazione di andarmene di corsa e mi giro completamente,
squadrandoli come un gruppo di reclute.
Naturalmente nulla che si muova, né
alcunché di strano. Rido, poi non so perché mi viene in mente da
dirlo: - Beh, ragazzi, posso provarci, ma non vi prometto nulla. - Li
squadro con attenzione ma ovviamente non succede niente. Mi dò
silenziosamente dell'idiota e raggiungo i due magazzinieri.
- Ma ci ha almeno pensato su un
momento, tanto per darti soddisfazione? - Elena è un'ingenua in
alcune cose, le voglio più bene che a una sorella, ma alle volte il
suo implacabile candore ha il dono di farmi perdere il lume degli
occhi.
- Ma pensa! Ha scrollato la testa come
un professore di quelli di una volta. «Signorina Gobetti, gli
amarcord non vendono più, se lo ricordi bene.» Poi ha preso il
telefono e non mi ha nemmeno salutato.
- Bello stronzo. Però l'idea dei
manichini fuori dalle vetrine non è poi tanto brutta.
Alle volte non capisco se lo fa
apposta per il gusto di discutere o è semplicemente il suo pessimo
gusto a farla parlare, quello che la induce a mettere senza batter
ciglio gonne viola con camicette cremisi.
- Hai ragione, non è brutta, fa
vomitare.
Ride - È l'incazzatura a farti
parlare, Anna. Cerca di essere equanime.
- D'accordo sarò equa. La gente
passerà, riderà, qualcuno scuoterà la testa, i bambini verranno a
guardare i manichini più da vicino, magari ne butteranno giù
qualcuno. Commento generale: «Che cazzata!» e via, tutti a
fare la spesa alle Delta dove sono di Stato e grazie al cielo hanno
molta meno fantasia.
- Cazzi del tuo direttore, a te cosa
importa?
Ci penso su un momento. Effettivamente
a me cosa importa? Poi mi vengono in mente gli «Amarcord»
come li ha chiamati il mio capo, da soli, al buio. Le mie reclute.
Devo essere stanca, magari un po'
esaurita. Elena mi porge un bicchiere con ghiaccio ed un liquore
ambrato.
- Dai, bevi. Serve per il raffreddore,
per tagliare gli alberi nella foresta canadese e per tirarsi su il
morale.
- Vorrei esserci, nella foresta
canadese e non dover più tornare. Non dico mica di essere un genio,
appena normale, ma ne ho le scatole strapiene di cacasotto,
leccapiedi, pettegoli, paraculi, cascamorti e piccoli coccodrilli. -
Guardo il bicchiere che Elena continua a offrirmi. Lo bevo d'un fiato
e parlo con voce da uomo. - Colore chiaro, gusto pulito. Dev'essere
il tuo solito whisky da cinquemila.
- Brava, Michele. - Mi applaude. -
Cos'hai vinto?
- Sette ore o anche un po' meno di
sonno. Dormo male, ultimamente. E domani pronta sull'attenti un'ora
prima dell'apertura per l'ennesima pagliacciata. Tardi, tardissimo.
Grazie per la cena squisita. - Rido. - Bella frase, eh? Proprio come
un uomo.
Ho la sensazione poco piacevole di
essere su un palco a recitare, e non so a cosa attribuirla. Non è
certo per Elena, che conosco da quasi dieci anni; no è una
sensazione che mi ha accompagnato tutto il giorno, da quando... Sì è
stato da quando ho parlato con quei vecchi manichini.
Il mio bilocale con vista su balconi e
tetto di garage mi sembra più deprimente del solito. L'adolescente
che ha la sua cameretta proprio di fianco alla mia sta ascoltando
troppo forte qualcosa che non mi piace. Busso alla parete per
ricordargli che esisto anch'io. Mi spoglio, infilo il pigiama, mi
lavo i denti e varie altre parti di me. Ci metto troppo tempo, ma non
ho voglia di dormire. O meglio, non ho voglia di dormire da sola. Mi
dispiace quasi che il giovanotto abbia ubbidito e si sia infilato le
cuffie. Siedo sul bordo del letto con la luce accesa. Potrei
accendere la TV o leggere un libro ma sono troppo su di giri per
riuscirci. Ritorno in bagno a guardare nel cassetto dei medicinali:
c'è giusto della valeriana, probabilmente scaduta. Bevo un bicchiere
di latte e mi chiedo se non sarebbe una buona idea un bel bagno
caldo. Esito a lungo con la mano sulla maniglia della porta del
bagno. No, mi sento già fin troppo pulita, mi dà fastidio l'idea di
lavarmi ancora.
Torno in camera e senza spegnere la
luce mi sdraio sul letto, sopra le coperte. Fisso il soffitto
cercando di non chiudere mai gli occhi. Lo so che è impossibile, ma
provo ugualmente perché sono certa che in quel momento di oscurità
qualcosa intorno a me si muoverà percettibilmente: scivolerà,
fremerà, respirerà, si curverà. Da piccola, prima di dormire,
sobbalzavo udendo lo scricchiolio dei mobili di legno che crepitavano
nel fresco notturno. Nascondevo la testa sotto il cuscino e tenevo
gli occhi ben chiusi per non vedere il loro balletto, il grande
armadio scuro allargare con lentezza le ante come nere ali, per
mostrare corridoi oscuri dove fatalmente sarei entrata per scomparire
per sempre.
Sepolta sotto le coperte, attendendo
che lo scricchiolio si ripetesse, immaginavo i miei genitori che la
mattina dopo avrebbero trovato il letto vuoto e l'armadio ben chiuso,
immaginavo il loro stupore e l'ansia, mentre il colpevole li
osservava immobile, pensando i suoi irraggiungibili e maligni
pensieri da innocuo oggetto quotidiano.
Decido di fare come allora, per quanto
ridicola mi senta. Spengo la luce e mi infilo completamente sotto le
coperte. Ecco, adesso sono al sicuro, sotto le coperte non mi
potranno raggiungere, sono diventata invisibile.
La mattina, di pessimo umore,
organizzo l'esibizione. Li schieriamo davanti alle vetrine,
famigliole, giovani con berretto, anziani col panciotto, donne con il
carrettino della spesa.
Hanno addosso vestiti da pochi soldi,
avanzi di liquidazioni e infatti, per i miei occhi esercitati, hanno
l'apparenza di un'armata Brancaleone di sfigati, con le magliette che
andavano di moda tre anni fa, le camicie scozzesi da taglialegna, le
gonne sotto le ginocchia, le scarpe con i mezzi tacchi.
- Fanno pena, non trova, signorina?
Longo, autore di quell'osservazione, mi
guarda strizzando l'occhio.
- Può dirlo. - Ribatto. - Cerchiamo
di metterli meglio possibile, anche se penso che verrà comunque una
bella schifezza.
Finiamo pochi minuti prima
dell'apertura. I clienti più mattinieri ci guardano con blanda
attenzione scambiandosi qualche osservazione a bassa voce. Non vedo
entusiasti da nessuna parte.
Rientriamo ed apriamo il magazzino.
Dopo un po' arriva il direttore a
rimirare la realizzazione della sua splendida idea seguito dalla
segretaria, un paio di vice ed un fotografo che ha convocato apposta.
Fa scattare qualche foto, sorride con un aria da politicante, mi
ringrazia per «l'Allestimento» nemmeno fossi Ronconi e
riparte per il suo ufficio, un cubo di cemento al termine di un lungo
corridoio, soprannominato il Bunker.
Per un po' mentre lavoro tengo d'occhio
le vetrine poi scendo nei magazzini a controllare gli ultimi invii.
- Piace di sopra? - Mi chiede la
Petricioli, l'addetta ai controlli spedizioni.
Mi stringo nelle spalle. - Non so, di
gente ce n'è come il solito, mi pare. - Sto attenta a come parlo: la
Petricioli ha la fama di essere una pettegola micidiale e non vorrei
che qualche mio commento arrivasse alle orecchie del direttore,
magari condito con parole non mie. Tutto sommato sto bene lì e non
ho nessun desiderio di finire in un GM della periferia, a litigare
con la gente sul prezzo delle canottiere.
Finisco con i miei nuovi arrivi senza
più dire una parola, nonostante i tentativi della Petricioli di
farmi parlare e me ne vado. Esco dalla porta posteriore per
raggiungere l'ascensore - montacarichi e attraverso il corridoio C,
una specie di lungo budello dove le lampadine, chissà perché, non
durano mai più di una settimana.
Allo sbocco, davanti alle porte chiuse
dell'ascensore c'è della gente. Non distinguo bene di chi si tratta:
c'è poca luce nei sotterranei, ma automaticamente chino la testa e
comincio a canticchiare a bassa voce, tanto per non passare per una
che origlia.
Dopo pochi passi capisco chi sono e mi
immobilizzo, fulminata.
Sono loro: vestiti con abiti degli anni
cinquanta, congelati a metà di movimenti disinvolti, fluidi, come
comparse di un vecchio poliziesco.
Trattengo il fiato guardandoli, adesso
non si muovono, ma mentre mi avvicinavo ho avuto la netta sensazione
di un gruppo di persone vive: gesti minimi, cenni del capo, mezzi
sorrisi. Stringo i pugni cercando di ragionare. Ho pensato che
fossero un gruppo di persone, quindi ho attribuito loro quei
movimenti, non viceversa. Mi costringo a fissarli per un po' per
tranquillizzarmi. Sono perfetti. Esattamente come li avevo
immaginati.
- Beh, ragazzi, siete belli ma non c'è
stato niente da fare. - Dico loro. - Il capo non ne vuole sentir
parlare. - Parlo lentamente, cercando di restare calma.
Una parte del mio cervello si è messa
in moto e si sta chiedendo chi diavolo li ha vestiti e messi lì.
L'unica persona che può averlo fatto sono io, solo che non me lo
ricordo più. Ripenso a quello che ho fatto ieri, improvvisamente
incerta, ma naturalmente non ricordo nulla del genere. Questo, è
ovvio, mi spaventa quasi di più della loro presenza in quel luogo.
L'ascensore si apre di scatto lasciando
uscire Carrù, il magazziniere più anziano. Si guarda intorno e mi
vede.
- Salve, signorina Gobetti. Carini,
proprio carini. - Commenta. - Devo portarli fuori?
Lo guardo in un modo che deve
sembrargli strano. - Carrù, è stato lei a vestirli ed a metterli
qui?
Scuote la testa. - Non era un'idea sua?
- Indica i manichini incerto. - Quella di vestirli così, dico. Mi ha
detto Longo...
- Longo! - Devo avere quasi urlato e
il mio interlocutore mi guarda preoccupato. Assomiglia a mio padre,
me ne accorgo per la prima volta, quando ero ammalata e veniva a
spiarmi, seduto in fondo al letto ed io facevo finta di dormire,
felice che fosse lì. Ho voglia di abbracciarlo ma non lo faccio.
- Mi scusi, Carrù, non mi sento bene.
Vado su, in contabilità. Mi mandi Longo, appena può.
- Sicuro. Cosa ne faccio?
Li guardo. - Li riporti in magazzino. -
Esito per un attimo, imbarazzata. - Non li spogli, per favore. Magari
li userò per la prossima vetrina.
Longo mi raggiunge dopo un quarto
d'ora, ma naturalmente non sa nulla di tutta la storia. Lo guardo
fredda. - Posso ammettere che è stato un bello scherzo, ma vediamo
di non esagerare, eh?
- Glielo giuro, signorina Gobetti, non
sono stato io a metterli lì. E poi, come potevo? Sono stato con lei
quasi tutta la mattina.
Sto per rispondergli che poteva averlo
fatto la notte scorsa, ma mi trattengo: non ci tengo a dare l'idea di
essere andata completamente fuori di testa.
- Grazie. - Dico. - Abbia pazienza. Mi
faccia solo il piacere di non parlare con nessuno di questa storia...
Devo...
- Non si preoccupi. Probabilmente è
stato il direttore. Dopo dirà che l'idea è stata sua.
Sorrido e mi aggrappo a quell'ipotesi
così assurda, tanto per poter andare avanti a lavorare.
Alla chiusura faccio il solito giro
delle casse dell'abbigliamento. Si è incassato meno del solito ma
non faccio commenti né domande alle cassiere che non sono ancora
andate via.
Mi cambio ed esco. Telefono a Elena
chiedendole di venire a casa mia e occupo il tempo preparando una
cena per due.
Arriva abbastanza in fretta. Nonostante
si sia fatta le trecce e assomigli troppo a Pippi Calzelunghe, quando
entra l'abbraccio e lei mi guarda interdetta. Non sono un tipo
espansivo e quel comportamento deve sembrarle strano.
- Sei pallida, Anna. Cos'hai?
Qualche problema sul lavoro. -
Minimizzo. - Vieni, è pronto da mangiare.
Sorride. - Non sei più tu. Hai
addirittura cucinato, peggio di così non puoi stare.
Mentre mangiamo le racconto la mia
storia. E' evidente che non mi considera improvvisamente impazzita,
rimane seria per tutto il tempo, facendomi solo qualche domanda, per
lo più cose alle quali ho già pensato.
- Ma, forse non ha torto quel
magazziniere, quel Longo. - Conclude. - Il tuo direttore mi sembra
proprio il tipo da sfruttare le idee altrui per prendersene il
merito, o sbaglio?
Annuisco. - Il fatto è che non capisco
quando può averlo fatto... E poi gli abiti... Vedi Elena, ormai me
ne intendo abbastanza di abbigliamento e credo di sapere tutto quello
che c'è nei magazzini. Erano abiti nuovi, di un tipo che non si
produce più da anni e che non potevano essere in magazzino.
Ride. - I sotterranei della GM sono
peggio dei sotterranei dell'Opera di Parigi, lo sai meglio di me.
Puoi proprio essere sicura che non ci fosse più quel tipo di abiti,
abiti di trent'anni fa? Magari in qualche angolino, magari nel
castello del fantasma dell'Opera, l'Eric della GM?
Sono costretta a ridere anche se non ne
ho voglia. Preferisco pensare ad un eremita seppellito nei corridoi
senza lampadine dei due piani interrati. E non ho voglia di restare
sola a casa.
- Ho intenzione di ubriacarmi,
stasera, se vuoi farmi compagnia io posso dormire sul divano.
Fa un gesto vago con la mano - Posso
dormirci io, ne parleremo dopo. Comunque ti faccio compagnia.
Beviamo. Ai tuoi amati manichini.
Arrivando posso apprezzare la messa in
scena del direttore molto meglio. È un insieme deprimente, non c'è
nulla da fare, una rappresentazione sinistra che ha il sicuro effetto
di far scappare la gente.
Entro scuotendo la testa e mi trovo di
fronte a Pozzoli, un vice del capo.
- Signorina Gobetti è attesa in
direzione. - Mi comunica, rigido come uno stoccafisso. Ha fatto il
militare di carriera per dieci anni e niente riesce a togliergli
quello stile da caricatura di uno Junker.
- Le starebbe bene un monocolo. - Dico
ad alta voce, senza riflettere.
- Come? - Capisce a fatica dov'è la
sua scrivania, il povero Pozzoli, e non è nemmeno abbastanza
intelligente da essere un bastardo: non posso pretendere che capisca
il mio humour un po' amletico.
Sorrido. - Le starebbe bene, un
monocolo, dico. Come un gentiluomo di una volta. Le darebbe
distinzione.
Lo pianto in asso, fatalmente confuso e
salgo al terzo piano. Ad aspettarmi il lunghissimo corridoio, fatto
apposta per disincentivare i timidi e gli incerti.
- Signorina Gobetti, è evidente che
lei si ritiene una persona geniale e spiritosa. - Esordisce il
direttore. I pochi capelli in cima al cranio sono scomposti, sicuro
segno di tempesta.
- A cosa allude? - Chiedo.
Mi fissa. Ha uno sguardo acquoso, poco
espressivo, uno sguardo che mi ha sempre ricordato quei pesci rossi
che si vincono al luna park.
- Vuole darmi un'altra prova del suo
umorismo? Non le avevo detto che la sua idea dei manichini anni '50
non mi piaceva?
Chino leggermente il capo. - Certo.
- Bene, allora per quale motivo ha
voluto procedere ugualmente?
- Se si riferisce... - Comincio. Il GM
è una fabbrica di chiacchiere, avrei dovuto ricordarlo.
- Sì mi riferisco proprio alle due
vetrine centrali. Chi l'ha autorizzata a metterci quei vecchi
manichini, quei cimeli con quegli abiti fuori commercio? La sua
condotta...
- Quali manichini? Ma di cosa parla? -
L'ho interrotto mentre parla, una cosa che non si era mai vista al
GM, ma improvvisamente ho paura, come se fossi finita in un incubo
senza più risvegli.
- DI COSA PARLA? - Urlo.
Mi guarda spaventato. - Signorina
Gobetti, si controlli, la prego. Non...
- Non so nulla di quei manichini, lo
giuro, non sono stata io. - L'ho interrotto un'altra volta,
praticamente imperdonabile.
- Le credo. - Mi dice con cautela. -
Comunque ho dato ordine di portarli via. Domani verranno a prenderli
e li porteranno all'inceneritore, così eviteremo altre... scene di
questo genere. - Si siede. - Credo che l'attività in questo GM, così
centrale sia troppo stressante per lei, non è d'accordo?
Annuisco un po' inebetita. Ho già
capito a dove porta tutto quel bel discorso e non posso farci nulla.
Lo ascolto come un condannato ascolta il giudice.
- Sapevo che avremmo trovato
un'intesa. - Mi guarda compiaciuto. Sicuramente pensa di avere
risolto efficacemente una situazione difficile e altrettanto
sicuramente si sente sprecato lì, uno come lui a risolvere piccoli
problemi, mentre dovrebbe essere a Milano a fare il braccio destro
del capo. Lo odio, me ne accorgo guardando le sue dita corte che
giocano con un dado di legno fermacarte, le unghie ben curate, il
segno più chiaro della fede che toglie per poter fare il cretino con
le impiegate.
- Entro domani posso mandare via la
sua richiesta di trasferimento, signorina Gobetti. Passi nel mio
ufficio verso le dieci, discuteremo della sua destinazione. D'altro
canto debbo ammettere che forse non la conosco a dovere, intimamente,
per così dire. Non crede che dovremmo migliorare i nostri rapporti?
In fondo è parte del mio lavoro... - Sorride. - Ma non precipitiamo
gli eventi. Per oggi può andare, si consideri in permesso pagato.
Lo ringrazio meccanicamente. Mi
accompagna alla porta tenendomi una mano sulla schiena, all'altezza
del reggiseno, tanto per capire se lo porto o no e farci su i suoi
pensieri. Rido con uno scatto nervoso. Mi guarda allarmato e toglie
la mano. - A domani, signorina.
- A domani.
Passo il resto della giornata a girare
per la città come un barbone. Mangio in una pizzeria, vado al
cinema, non ricordo nemmeno a vedere cosa e sul tardi vado in
discoteca. Rimorchio un giovanotto, un tipo gentile ma troppo
chiacchierone. Lo invito a casa mia. Facciamo un po' di sesso sul
divano e gli chiedo di fermarsi. Ha un'aria molto compresa, da
scolaretto. Gli uomini sono sempre così seri, così fissati su se
stessi. Lo guardo e rido. Inarca le sopracciglia e fa il sollecito. -
Stai bene?
- Come no. - Dovrei averlo imparato,
ormai. Ridere nel sacro recinto del sesso li inibisce. Esibisco
l'espressione più lasciva che mi riesce e gli dico alcune parole, di
quelle a effetto sicuro.
Si dà da fare per l'ora seguente e
quando se ne va mi lascia un biglietto con nome, cognome indirizzo e
numero di telefono. Lo butto nel bidone e mi addormento per la
stanchezza, senza più pensare a nulla.
Quando arrivo alla GM i manichini
fuori sono stati tolti. Mi avvicino perplessa. Nelle vicinanze conto
quattro auto di polizia e carabinieri, più alcune altre macchine con
quelle antenne lunghissime che puzzano di pula lontano un miglio.
Il magazzino è chiuso, alla porta c'è
un cordone di agenti che controlla i documenti. Mi lasciano passare.
Probabilmente una rapina, decido, e tiro dritto per la mia
destinazione.
Ho visto raramente il GM chiuso di
giorno. Percorro le corsie lentamente, ricordando che probabilmente è
l'ultima volta che lavoro lì. Decido di passare dalle scale esterne
per arrivare al terzo piano, per non dover salutare nessuno.
Quando arrivo al terzo piano mi fermo
interdetta. Se ci sono problemi è ben difficile che il direttore sia
nel suo ufficio. Mi siedo in cima alla scala, chiedendomi se è il
caso di aspettarlo davanti alla porta o se andare a lavorare come
tutti i giorni.
Sono ancora lì a riflettere quando
sento qualcuno salire.
A venirmi incontro è il fatale
Pozzoli, questa volta anche più serio e rigido del solito.
- Buongiorno. Cosa succede?
Sobbalza e si immobilizza a metà tra
due gradini. - Buongiorno, signorina Gobetti. - Termina il passo per
inerzia e mi guarda aggrottando le sopracciglia, perplesso più che
indignato.
Visto che non sembra ricordare la
domanda la ripeto. - Cos'è capitato? C'è la polizia fuori e i
magazzini sono chiusi.
- Sono chiusi? E chi l'ha deciso?
Appena manca il capo subito c'è qualcuno che... - Si fruga in tasca
e ne estrae il cellulare. - Adesso chiamo Lupetti e...
- Forse è stata la polizia, a
deciderlo. Ma cosa c'è stata, una rapina?
- In un certo senso. Il direttore è
scomparso.
Indico l'orologio. - Dev'essere
arrivato molto presto.
- Ovvio, come me del resto. Il grado
significa innanzitutto responsabilità. Ecco ciò che in troppi
dimenticano. - Ha ancora l'inutile telefonino in mano. Lo chiude con
uno scatto secco e lo nasconde in tasca. - Ma pare che il capo
stanotte si sia addirittura fermato qui. Non è rientrato a casa,
iersera. Ha telefonato alla moglie per dirle che avrebbe fatto tardi.
La guardia notturna ha visto la luce del suo ufficio accesa ma non lo
ha disturbato. Dice che il direttore si fermava spesso fino a tardi.
(... ma non da solo e non a lavorare, giurerei) Stamattina, al mio
arrivo, la signora aveva già chiamato diverse volte, allarmata. La
macchina era nel parcheggio, con il biglietto di autorizzazione con
la data di ieri ancora infilato nel tergicristallo.
- Ha dormito qui?
- Se poi ha dormito.
Incongruamente mi viene in mente una
vignetta apparsa su un giornale del tempo di guerra, con la finestra
di Palazzo Venezia accesa a tarda notte. Non riesco a ricordare la
battuta, però.
- Stamattina comunque il suo ufficio
era... deserto.
Percepisco l'esitazione. - C'era
qualcosa di strano?
- No, no, Nulla di allarmante. C'erano
due vecchi manichini maschili in un angolo della stanza e quando l'ho
salutato, iersera, giurerei che non c'erano. E non riesco a capire...
- ... Come mai se li fosse portati su
dai sotterranei.
- Proprio così. Sono anche piuttosto
pesanti. Probabilmente voleva studiare qualche nuovo allestimento.
Non ci crede come non ci credo io.
Oltretutto manichini maschili, povero direttore. Sento l'impulso di
ridere, ma sono certa che ciò che produrrei non sarebbe una risata.
- E' probabile, posso andare a vedere
l'ufficio?
- Ma, è opportuno? Non so.
- L'ho visto anch'io, ieri e potrei
ricordare qualche particolare.
- Ha ragione, venga, la precedo.
Riesco solo a dare un'occhiata dal
corridoio. La polizia ha tirato una fettuccia rossa e bianca tra i
battenti della porta. La sedia dietro la scrivania è rovesciata e
buona parte delle suppellettili e dei documenti della scrivania sono
scivolati a terra.
- Vede, ha tutta l'aria di
un'aggressione. - Si sente in dovere di spiegarmi Pozzoli. -
Probabilmente ci dobbiamo attendere una richiesta di riscatto.
Non mi prendo la briga di rispondergli.
I due manichini se ne stanno nell'angolo accanto alla finestra. Uno
dei due ha il viso parzialmente girato mentre l'altro guarda nella
nostra direzione, la mano aperta distesa parallelamente al viso.
Sorridono a labbra strette, gli occhi persi all'infinito. Indossano
un completo blu stile Perry Mason e hanno il fazzoletto, bianco,
ripiegato a V rovesciata nel taschino. Come due agenti federali o due
angeli travestiti.
Di fronte alla scrivania il vecchio
armadio del direttore, fatto portare dalla casa di campagna. Scuro e
panciuto, le porte ben chiuse.
4 commenti:
Effettivamente ricorda molto un episodio di Twilight Zone. Il tuo racconto mi piace molto per la sua aria di quotidianità.
Ultima nota: il personaggio del direttore è veramente molto credibile.
@Nick: mi fa davvero piacere il tuo parere, da esperto e da conoscitore della letteratura del soprannaturale. Detto per inciso, questo è stato il mio primo racconto scritto con un punto di vista «femminile». Mi ricordo che lo diedi da leggere a mia moglie e ad altre due donne, rimanendo in attesa di contumelie e maledizioni. Incredibilmente la passai liscia, ma tuttora non posso che interrogarmi se poi la mia signorina Gobetti può davvero essere verosimile... Per quanto riguarda, infine, Twilight Zone, ammetto che qualcosa nel racconto originale dev'essermi rimasto in testa, abbastanza da ricomparire qui.
Ho adorato questo racconto da subito, perché intreccia due suggestioni della mia infanzia: percorrere di notte un grande magazzino come la Standa o la UPIM illuminato dalle luci fioche provenienti dalla strada, e spiare la vita segreta delle bambole. Pensieri coltivati da un sacco di gente, immagino, che per me si sono coagulati in una passione smodata per gli spazi ampi e in qualche modo pubblici (chiese, chiostri, biblioteche) in cui è d'obbligo muoversi in punta di piedi, ognuno solo in mezzo a tanta gente, e l'incapacità di possedere un simulacro (animali di pezza, bamboline, portachiavi di peluche), senza fornirgli un'identità, una storia, senza immaginarli come compagni e muti testimoni delle nostre vite. Loro “sanno” e vanno rispettati.
Altrimenti si vendicheranno, proprio come i tuoi vecchi, dimenticati manichini.
@S_3ves: il bello di tutto ciò è che non sapevo nemmeno che questo racconto ti piacesse particolarmente... Vivere insieme, evidentemente, non rende sempre più vicini.
Hai ragione, la passione/timore per i simulacri del corpo umano è uno dei caposaldi del fantastico, dai replicanti di P.K.Dick alle marionette di E.T.A. Hoffman e si potrebbero fare centinaia di altri esempi. I miei manichini sono un po' meno socievoli, da un certo punto di vista. E comunque, come sai molto bene, è il lettore a decidere che cosa è davvero accaduto al direttore.
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