24.3.18

Editore ed editor


In inglese va molto meglio. Esiste una parola per editore (publisher) e una per editor, per l'appunto editor. Un po' come library (biblioteca) e bookshop (libreria). 
Ma che cos'è un editor?
Bella domanda, come dice chi non ha idea di come rispondere. Leggendo sui giornali-che-contano ce se ne può fare un'idea. Sono editor gente come Antonio Franchini, recentemente passato da Mondadori alla Giunti, o Alberto Gelsumini, sempre della Mondadori, o Joy Terekiev editor della Fiction Mondadori o Nicola Strazzeri della Longanesi o ancora Gemma Trevisani, editor della narrativa italiana per Rizzoli o Nicola Lagioia, editor e scrittore per Minimum Fax fino a Franco Forte, editor ed autore. In sostanza un editor è un soggetto polivalente, capace, in teoria, di fare del romanzo di un sconosciuto un best-seller (o quasi), ma anche – forse – decidere la frequenza delle virgole a pagina o se le parole straniere devono essere scritte in corsivo o meno e dove inserire i testi in maiuscoletto. 
In sostanza (e teoricamente) un buon editor sarebbe colui che fa in modo che la lettura di un libro proceda bella liscia, senza sussulti o impedimenti. Un buon editor dovrebbe essere come un arbitro di calcio, ovvero come colui che non si fa notare in campo.
Ma questo può valere, immagino, per i piccoli e medi editori mentre per i grandi suppongo debba esistere una divisione dei compiti per la quale dei corsivi e degli errori di ortografia si occuperà qualcun altro e non sua maestà l'editor. Suppongo, anche se non ne sono affatto certo, dal momento i refusi anche sui libri anche di alta tiratura non sono poi così impossibili, anzi. 


Il problema è ciò che è accaduto negli ultimi vent'anni al vertice dei grandi editori, con la progressiva scomparsa di molte figure intermedie, i cui compiti sono stati gradualmente affidati a studi professionali, secondo la logica squisitamente capitalista per la quale le spese per creare qualsiasi cosa, dalle guarnizioni in gomma fino ai libri illustrati, devono essere prodotti al prezzo più basso possibile. Il che, probabilmente, è anche la ragione per i refusi che è possibile trovare persino in libri di case editrici di fama come Einaudi o Guanda. 
A questo punto, tuttavia, la nostra immagine dell'editor si è quantomeno appannata o è almeno mossa. 
Ma proviamo a fare un passo indietro. 
Un testo che arriva in lettura a un piccolo editore – se è quantomeno leggibile – viene girato all'editor (ma anche correttore di bozze e millanta altre cose), che da quel momento comincia a girare con un brogliaccio o, più recentemente, con una pendrive al collo, sfruttando ogni minuto disponibile per penetrare nel testo. 
Supponendo che il testo sia considerato leggibile e persino pubblicabile la prima cosa che farà l'editor sarà leggere un paio di volte il libro, cercando di afferrare non solo ciò che l'autore ha scritto, ma anche ciò che non ha scritto, lasciandolo non detto volontariamente o involontariamente. Una volta presa confidenza con il testo, nascono le domande. Poteva andare diversamente? Ha fatto bene a far comparire Calibano a pagina 22? E Miranda fa bene a cedere così tardi alla corte serrata di Ferdinando[1]? Non avrebbe fatto bene a cedere prima o a non cedere affatto? In tutto ciò, tuttavia, non può mancare un'attenzione pressoché patologica per la struttura fine del romanzo: le virgole, i punti esclamativi, i rimandi a capo, gli inserti, i corsivi dei monologhi interiori, tutto ciò che, più o meno consapevolmente, determina il ritmo del testo. 


In  sostanza, e a mio personalissimo parere, il vero compito di un editor è quello di riuscire a suscitare – o ri-suscitare – ciò che di profondo il testo contiene, interrogarsi sulla vita dei personaggi, meditare sulle scene centrali, sull'incipit – non credo agli incipit emotivi ma agli incipit che, sornioni, fanno entrare nel libro – e alle scene finali, spesso sottovalutate ma viceversa essenziali nel giudizio definitivo di un testo. 
Un buon finale discende (quasi) matematicamente dalla buona organizzazione interna del romanzo e ne raccoglie tutti i motivi profondi di esso, sia quelli enunciati che quelli volontariamente taciuti. Un buon finale può non essere in calando ma, paradossalmente, in crescendo. 
Se è vero che i romanzi non si fanno con il computer – a meno di produzioni assolutamente seriali – è altrettanto vero che non è nemmeno possibile farli con i programmi di natura finanziaria che stabiliscono i margini di ogni operazione economica. Ma questo è un elemento che ripeto da prima del 2001: i libri sono qualcosa di profondamente diverso da un qualunque elemento di svago o di arredo e penso che lo ripeterò fino alla (mia) morte. 
Ultimo elemento per completare il quadro il mio particolare rapporto con il mestiere di editor. Un mestiere che ho iniziato a fare controvoglia, lavorando sulle centinaia di racconti che giungevano per il concorso Fata Morgana, con testi sottoposti che non sempre erano all'altezza della tenzone. Ma non posso che dirmi felice di quel difficile apprendistato che mi mise contemporaneamente di fronte all'intreccio, alle forma grammaticali, alla punteggiatura, al lessico, agli stili, alle forme paratattiche (troppe) e a quelle ipotattiche (poche), ai birignao degli autori innamorati di se stessi, al dramma/ cartoon che propone morti in successione, al gore, allo splatter – normale o dopato –, alle sofferenze di giovani soli e talmente sfigati che sicuramente sarebbero stati scartati anche in un concorso letterario – appunto – alle descrizioni inesistenti e a personaggi a una o al massimo a due dimensioni. Io e la mia disgraziata moglie eravamo chiamato a intervenire sui pochi racconti leggibili per renderli lucidi, potenti, autosufficienti. Non ci siamo riusciti sempre, sia chiaro, ma in buon numero di casi sì. 


Così ho imparato a leggere profondamente – un termine ovvio, ma non me ne vengono di migliori –, a cercare di capire dove voleva arrivare l'autore e se ci era riuscito o, come certi guidatori con 0,9 di valore alcolemico, ci erano passati vicini senza vederlo o l'avevano centrato in pieno distruggendolo come una pianta sui lati della strada.
L'aspetto fondamentale del mestiere di editor è che, di fatto, non lo si è mai imparato fino in fondo e che ogni nuovo testo è una sfida che è sempre possibile perdere. 
Io non gioco a gratta-e-vinci, mi basta e avanza fare editing.

[1] Il riferimento ai personaggi de La Tempesta di Shakespeare è semplicemente dovuto al fatto che i primi a venirmi in mente sono stati Prospero, Calibano e Miranda, Ariel, Gonzalo e Trinculo.



 

4 commenti:

Nick Parisi. ha detto...

Sagge parole, specie quando hai inquadrato la situazione italiana.

Massimo Citi ha detto...

@Nick: molto contento di rivederti, ti ringrazio per l'apprezzamento. Purtroppo la situazione italiana sembra essere al momento senza una via d'uscita accettabile. Il quadro creato dai grandi editori è tale da aver distrutto gli unici elementi di contatto con il pubblico dei grandi lettori – in pratica la metà degli acquirenti dei libri in Italia – ovvero le librerie indipendenti. E non lo dico perché ne sono stato la vittima, ma perché erano le librerie il primo elemento di valutazione di un libro e le loro prenotazioni costituivano un primo giudizio di merito. Con le librerie di catena divenute semplici terminali degli editori, questi si trovano ad avere a che fare con i lettori e con la loro crescente intolleranza verso le operazioni visibilmente troppo scoperte. Il risultato è una fuga dal libro e dalle novità soprattutto da parte dei forti lettori. Perdona la semplificazione, ma è un quadro fin troppo chiaro ai miei occhi.

Il Menestrello ha detto...

Davvero... un mestiere difficile che non tutti sanno fare!
Io nel mio piccolo mi sono cimentato e spesso mi sono ritrovato a rimproverare me stesso per averlo fatto, perché una volta che entri nell'ottica di leggere da editor è difficile uscirne.

Massimo Citi ha detto...

@Menestrello: molto vero, la lettura da editor è una non-lettura, degna di un lettore per conto dell'Indice dei Libri (quello vaticano, non quelli della rivista). D'altro canto col tempo ho capito che per poter fare bene il lavoro di editor devo prima leggere più volte il testo da lettore e solo di seguito procedere. Sembra una perdita di tempo ma non è così. In ogni caso poche soddisfazioni reggono il confronto con quella di un autore che ti ringrazia per il lavoro compiuto. Ci vuole tempo, come no, ma in fondo che kz ci facciamo al mondo, altrimenti?