Riprovo, dopo aver promesso di scrivere ed essere riuscito a parlare soltanto di un frammento di un'antologia. Ma in realtà di libri ne ho letti, ultimamente, e la famosa pila sulla scrivania rischia seriamente di crollare.
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Comincerò con i due volumi – il secondo e il terzo – della trilogia di Virga di Karl Schroeder. Si tratta de «Regina del Sole» e di «Sole pirata», editi da Zona42. Un po' in ritardo? Ma-voi-non-avete-idea-di-quanti-libri... vabbè. Sono un lettore compulsivo, cannibale confuso e poco conseguente, mi faccio attrarre da libri di ogni forma e/o colore ma da lì a leggerli... Il minimo che possa succedere è che legga un libro un paio d'anni dopo l'uscita. O, se è per quello, anche dieci anni dopo.
Ritornando a Virga, è opportuno ricordare lo sfondo delle vicende narrate:
Virga
è una sfera di dimensioni planetarie piena d'aria. Al suo interno,
privo di gravità, si muovono isole, alberi e città tenute insieme da un
misto di forze centrifuga e centripeta, e trasportate dai moti
convettivi della masse d'aria che riempiono la sfera. Ad alimentare la
vita di Virga c'è Candesce, il Sole dei soli, da cui deriva tutta
l'energia disponibile.
Come può essere utile ripetere ciò che dichiarò a suo tempo Karl Schroeder:
... Il Sole dei soli e i suoi sequel [...] hanno un
tono da XIX secolo e, stilisticamente fanno parte della tradizione
Steampunk, ma sono ambientati tra mille anni nel futuro [...]
E puntualmente i due volumi mantengono ciò che promettono. In Virga II (Regina del Sole) il filo dell'intreccio è affidato a Venera Fanning, scatenata, ironica, testarda e temeraria eroina che organizza tranelli, orchestra congiure, unisce e divide, tradisce e ritorna fedele in una curiosa corsa da fermo, ovvero senza praticamente muoversi da un angolo del mondo di Virga: Spyre. Ed è curioso che Schroeder faccia riferimento, nel corso dell'introduzione, a uno dei grandi romanzi fantasy della tradizione britannica, Ghormengast, dove è il castello ad essere il centro geometrico, oltre che la ragione e l'effetto di ciò che avviene. Conformemente Schroeder racconta del mondo di Spyre, fatto di principati, ducati, signorie e regni che raramente superano l'ettaro di ampiezza e vi fa muovere al suo interno un personaggio maledettamente vivace come Venera Fanning, con risultati sorprendenti. Risultato un romanzo condotto a una velocità inusuale e con una protagonista che non è facile dimenticare.
Virga III (Sole pirata), ha per protagonista il marito di Venera, Chaison Fanning. Questi, catturato al termine dello scontro vittorioso con la formazione Falcon, è tenuto prigioniero e regolarmente torturato, ma riesce a evadere grazie all'intervento di Antaea Argyre della Guardia Patria, ovvero l'organizzazione (segreta) che difende Virga – un pallone pieno d'aria, frammenti di terra e piccoli soli artificiali per 8-9.000 chilometri di diametro.
L'intervento di Antaea si rivela parte di un progetto più vasto che mostrerà come Virga non sia un frammento di umanità chiuso ad ogni intervento esterno ma parte di un universo ben più vasto.
Qual è il segreto di Schroeder nell'aver dato vita a una trilogia che riesce a unire il romanzo d'appendice, la saga marinara, la space opera e, almeno in qualche tratto, il romance? Essenzialmente due elementi: il luogo della vicenda, impossibile da dimenticare, e il ritmo della vicenda che, senza cancellare i personaggi, tiene l'attenzione del lettore inchiodata alla pagina. Una buona scelta, quella di Zona42, editore al quale auguro una lunga e prospera vita.
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Cambiamo completamente area, tema e argomento con un curioso saggio biografico/autobiografico pubblicato in lingua originale nel 2004 e tradotto dallo svedese da Iperborea nel 2015. Si tratta di L'arte di collezionare mosche di Frederick Sjöberg, «Scrittore, entomologo, collezionista e giornalista cultuale», come riportato nell'aletta del terzo di copertina.
Qual'è l'anima prevalente tra quelle indicate per Frederick Sjöberg? Difficile dare una risposta precisa, dal momento il nostro scivola costantemente dalla propria storia personale a quella di altri entomologi e naturalisti, raccontandone frammenti di vita, passioni, abitudini singolari e manie personali. E il primo di tali "scivolamenti" avviene quando il nostro entomologo decide di acquistare una Mega Malaise Trap, ovvero una gigantesca trappola per insetti, nel suo caso di mosche sirifidi, una famiglia di ditteri che si nutrono esclusivamente di nettare e polline con livree che ricordano quelle di api, vespe, bombi e altri imenotteri pericolosi. In sostanza le sirfidi indossano costantemente una maschera orripilante per riuscire a pascolare pacificamente e senza volere o poter fare del male a nessuno. In natura paiono esisterne 6.000 specie e nel corso dello spassoso volumetto Sjöberg ne presenta un certo numero, narrandoci anche la difficoltà di riconoscerle e distinguerle, oltre alla gioia – che stranamente risulta condivisibile anche per il lettore – di trovare una specie che teoricamente non dovrebbe esistere tra le isole svedesi. Ma, come dicevo, il co-protagonista del libro è René Malaise, il principale entomologo, collezionista ed esploratore svedese, vissuto tra il 1892 e 1978 e membro della spedizione biennale (1920 - 1922) nella penisola della Kamchatka, una superficie appena inferiore a quella dell'Italia, perduta all'estremo nordest della Siberia e con una popolazione totale di 322.000 abitanti. Ma Malaise compì anche altre spedizioni a Rangoon, a Kamakura e nel nord di Burma e tra il 1953 e il 1958 divenne coordinatore della sezione entomologica del Museo svedese di Storia Naturale. In quegli anni pubblicò un saggio di argomento geologico dal titolo Atlantide, una realtà geologica che riprendeva le teorie di Nils Ohdner, scienziato contrario alla deriva dei continenti di Wegener. Ovviamente il saggio di Malaise divenne la barzelletta dei geologi che si vedevano attaccati da un collezionista di insetti...
Il racconto della testardaggine superba di Malaise, arrivato a pubblicare a proprie spese il saggio "geologico" in inglese, finisce per essere così il contraltare alle disavventure di Sjöberg alla faticosa ricerca di sirfidi su un'isola svedese. Un saggio curioso, a tratti schiettamente comico e che inevitabilmente ricorda la passione di Stephen Jay Gould per i grossi errori di alcuni importanti scienziati, concludendone che tali errori sono spesso stati preziosi per il progredire della scienza. Un libro gradevole e in qualche modo prezioso, dal momento che rende comprensibili e in qualche caso persino gradevoli gli insetti, un genere di creatura che molti – a cominciare da mia figlia – temono, detestano o fuggono.
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Un Urania, ora. Non penserete mica di esservela passata liscia? Si tratta di Senza luce [Lightness], di C.A.Higgins, ed. originale 2015 e traduzione italiana di Annarita Guarnieri per il numero 1641 della rivista.
Di questo libro ho sentito parlare in modi tutt'altro che positivi da più lettori, a cominciare dal dato di fatto che praticamente tutta la vicenda si svolge rispettando l'unità aristotelica, ovvero secondo l'unità di tempo, luogo e azione, una modalità di azione letteraria che venne a suo tempo polemicamente attaccata dai romantici tedeschi. Non credo che tutti i critici del romanzo della Higgins fossero seguaci dei romantici tedeschi di fine '700 / inizio '800 ma che, semplicemente, si siano stancati e sfiancati di un dialogo pressoché interminabile – e apparentemente senza sbocchi – che continua per N pagine.
Il problema del dialogo, anzi il problema del DIALOGO è un elemento che suscita non poche discussioni nell'ambito della sf – e non solo. «Show don't tell» è una dittatura che estende il suo potere anche sul terreno del dialogo e non sono pochi gli autori, anche importanti, che affermano che [*] «Va bene, se solo elimini un po' di dialoghi e inserisci un po' più di azione».
Onestamente non ho nulla contro i dialoghi, purché appaiano reali, ovvero condotti da personaggi ben caratterizzati. In questo senso Senza luce ha uno spessore "teatrale" che non si può sottovalutare e che costituisce gran parte del suo fascino. Il duello verbale condotto da Ivan e Ida per una buona età del libro funziona egregiamente – a mio parere – e scolpisce i personaggi con un rilievo non comune. Ciò che, viceversa, non funziona troppo bene è lo sfondo: un terrorismo che raggiunge vertici e risultati inattesi, la sostanziale debolezza dell'ipotesi di una tecnologia giunta all'autocoscienza e l'incongruenza di un sistema politico mai ben chiarito. In sostanza è l'insieme della vicenda a risultare incerta e a tratti vagamente assurda e non tanto il ritmo, che mantiene comunque un suo valore teatrale innegabile.
In sostanza – ed è questo l'aspetto curioso – a rendere criticabile e/o intollerabile il libro non è tanto la sua dimensione di piéce, dove personaggi entrano ed escono da un palcoscenico a bordo di un'astronave, ma il mondo che circonda tale palcoscenico, troppo evidentemente un fondale di poco spessore. In ogni caso una lettura non indegna, in attesa del seguito e della maturità espressiva di un'autrice comunque interessante.
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Leo Perutz, è un tipico esponente di una Mitteleuropa letteraria, più austroungarica che tedesca, nata e cresciuta tra la fine del XIX e l'inizio del XX e che comprese alcuni grandi autori di narrativa tra i quali: Sandor Marai, Ödon von Horvath, Israel Singer, Alfred Kubin, Arthur Schnitzler, Alexander Lernet-Holenia, Hugo von Hoffmanstahl, Franz Wedekind e molti altri più o meno noti. Il legame tra l'attività di questi autori e l'altrettanto mitteleuropea psicoanalisi freudiana è a tratti evidente mentre altrove è uno sfondo potente che permea profondamente i personaggi, la loro condotta e il procedere stesso della vicenda.
È il Sogno e il rapporto con l'Inconscio a costituire un elemento centrale di molte narrazioni e La neve di San Pietro, un romanzo del 1933, è un buon esempio di come si possa "giocare" rimanendo in equilibrio tra il reale e l'irreale, ovvero tra la realtà condivisa e l'attività onirica. Protagonista del romanzo è Friedrich Amberg, un medico ricoverato in ospedale per un grave incidente che, al suo risveglio, si sente come «una cosa senza nome, un essere privo di personalità». Lentamente la memoria ritorna e con essa il ricordo di ciò che gli è accaduto nei mesi precedenti: il lavoro come medico condotto presso un paese della Vestfalia, la conoscenza con il Barone Von Malchin – un latifondista, assurdo sostenitore non solo della causa degli Czar ma anche di quella dell'imperatore legittimo del Sacro Romano Impero e del sovrano spodestato dell'Inghilterra – e con il suo amministratore, il russo bianco principe Praxatin, lo strano parroco della parrocchia di Morwede e la candida e perversa Bibiche, colei con la quale aveva condiviso il lavoro in un laboratorio di batteriologia a Berlino e per la quale continua a provare un devastante amore inconfessato.
Ma la memoria di Amberg fino a che punto è reale? E qual è il rapporto tra memoria e sogno? Un nodo non facile da sciogliere, anche perché – ed è questo il dubbio che coglie il lettore – Perutz sembra aver voluto aggiungere troppi temi in una vicenda troppo breve per sostenerli tutti, da un tema schiettamente politico a un farmaco miracoloso capace di eliminare la depressione a un amore enigmatico e disperato... In sostanza la sensazione che siano un po' troppi i temi affrontati e la chiusura ne lasci diversi aperti e inspiegati. In ogni caso un libro che crea una condizione sottilmente angosciosa, di pura, deliziosa Angst, e al quale si perdona qualche mistero che tale rimane.
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Ultimo libro, o quasi, è La riva del silenzio di Paul Yoon, romanzo del 2013, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri nel 2014, con la traduzione di Manuela Faimali.
Questa volta parto proprio dall'inizio del libro, cioè dalla copertina, che ritengo bella e fortemente evocativa, ovvero il motivo fondamentale per il quale acquistai questo libro nel 2015.
E la copertina fornisce un'ottimo percorso per attraversare il romanzo, la vicenda di un orfano, prigioniero nordocoreano nel conflitto di Corea, inviato dagli americani in Brasile a tentare di rifarsi una vita. In Brasile il giovane, Yohan, trova alloggio in una cittadina di mare e viene ospitato da Kiyoshi, un sarto giapponese, come lui un ex-prigioniero di guerra e come lui un uomo solo, che ha dovuto affrontare una città, un luogo e una lingua sconosciuti.
Yohan, all'inizio sperduto e incapace di ambientarsi, finisce per creare un rapporto particolare con il taciturno sarto, che diviene suo padre putativo e gli insegna il mestiere, la lingua e i modi del luogo. Poco alla volta il giovane Yohan finisce per divenire un membro della comunità e l'aiutante del sarto, provando solo raramente nostalgia per il luogo dal quale proviene, dove ha perduto molto presto la madre, ha avuto un buon rapporto con il padre, morto poco prima dell'inizio della guerra, e dove, durante la prigionia, ha assistito al suicidio del suo amico Peng. Conosce anche Santi e Bia, un ragazzo e una ragazza senza famiglia, ladruncoli che vivono di espedienti, con i quali si crea un rapporto discontinuo ma molto più intenso di quanto avrebbe ritenuto possibile.
L'anziano Kiyoshi un giorno «non si svegliò più» e Yohan lo sostituisce, divenendo a sua volta il sarto della comunità. Col trascorrere del tempo viene a conoscere alcuni particolari della vita di Kiyoshi, ufficiale medico disertore dell'esercito nipponico, uomo gentile e senza fretta: «non aveva fretta, come avesse già visto tutti i luoghi possibili». Intanto i ricordi della vita in Corea del Nord lo accompagnano, talvolta dolorosi, in altri casi semplicemente intensi ma che vengono a rassicurarlo sulla sua attuale vita, sui suoi lunghi momenti di solitudine e sul lento, trasognato vivere sul confine del mare.
Non è particolarmente importante raccontare come termina «La riva del silenzio», diciamo che il finale è perfettamente adeguato alla vicenda e alla personalità di Yohan, un personaggio che si finisce per amare come un fratello perduto o come un personaggio della letteratura che non è facile dimenticare. Leggere questo romanzo può ricordare che ogni grande momento della storia è fatto delle piccole, modeste ma insieme misteriose e complesse esistenze di tutti coloro che vi hanno partecipato. Un libro profondamente pacifista e intensamente zen, un piccolo gioiello da non perdere.
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Del libro «Lo scudo dell'illusione», antologia curata e tradotta da Massimo Soumaré – Maz per gli amici – mi limiterò a dire che riunisce sei autori giapponesi, alcuni noti anche in Italia come Dazai Osamu, Natsume Soseki Miyazawa Kenji, e altri meno noti (da noi) come Unno Juza, Yamamura Bocho e Yumeno Kyusaku. L'antologia raccoglie racconti fantastici scritti in Giappone nella prima metà del XX secolo e rappresenta degnamente la passione nipponica per questo genere di letteratura. Aggiungo che il libro è stato pubblicato da Atmosphere Libri nel 2017 e fa parte della collana Asiasphere. Ultima nota: sui quattordici racconti pubblicati, dieci hanno avuto una prima edizione su LN-LibriNuovi in forma cartacea o sulle prime edizioni di ALIA. Vantarsene è sicuramente eccessivo, ma una certa qual soddisfazione da editore è inevitabile...
[*] da un carteggio personale, in merito al romanzo «Il settimo Clone».
In sostanza – ed è questo l'aspetto curioso – a rendere criticabile e/o intollerabile il libro non è tanto la sua dimensione di piéce, dove personaggi entrano ed escono da un palcoscenico a bordo di un'astronave, ma il mondo che circonda tale palcoscenico, troppo evidentemente un fondale di poco spessore. In ogni caso una lettura non indegna, in attesa del seguito e della maturità espressiva di un'autrice comunque interessante.
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Leo Perutz, è un tipico esponente di una Mitteleuropa letteraria, più austroungarica che tedesca, nata e cresciuta tra la fine del XIX e l'inizio del XX e che comprese alcuni grandi autori di narrativa tra i quali: Sandor Marai, Ödon von Horvath, Israel Singer, Alfred Kubin, Arthur Schnitzler, Alexander Lernet-Holenia, Hugo von Hoffmanstahl, Franz Wedekind e molti altri più o meno noti. Il legame tra l'attività di questi autori e l'altrettanto mitteleuropea psicoanalisi freudiana è a tratti evidente mentre altrove è uno sfondo potente che permea profondamente i personaggi, la loro condotta e il procedere stesso della vicenda.
È il Sogno e il rapporto con l'Inconscio a costituire un elemento centrale di molte narrazioni e La neve di San Pietro, un romanzo del 1933, è un buon esempio di come si possa "giocare" rimanendo in equilibrio tra il reale e l'irreale, ovvero tra la realtà condivisa e l'attività onirica. Protagonista del romanzo è Friedrich Amberg, un medico ricoverato in ospedale per un grave incidente che, al suo risveglio, si sente come «una cosa senza nome, un essere privo di personalità». Lentamente la memoria ritorna e con essa il ricordo di ciò che gli è accaduto nei mesi precedenti: il lavoro come medico condotto presso un paese della Vestfalia, la conoscenza con il Barone Von Malchin – un latifondista, assurdo sostenitore non solo della causa degli Czar ma anche di quella dell'imperatore legittimo del Sacro Romano Impero e del sovrano spodestato dell'Inghilterra – e con il suo amministratore, il russo bianco principe Praxatin, lo strano parroco della parrocchia di Morwede e la candida e perversa Bibiche, colei con la quale aveva condiviso il lavoro in un laboratorio di batteriologia a Berlino e per la quale continua a provare un devastante amore inconfessato.
Ma la memoria di Amberg fino a che punto è reale? E qual è il rapporto tra memoria e sogno? Un nodo non facile da sciogliere, anche perché – ed è questo il dubbio che coglie il lettore – Perutz sembra aver voluto aggiungere troppi temi in una vicenda troppo breve per sostenerli tutti, da un tema schiettamente politico a un farmaco miracoloso capace di eliminare la depressione a un amore enigmatico e disperato... In sostanza la sensazione che siano un po' troppi i temi affrontati e la chiusura ne lasci diversi aperti e inspiegati. In ogni caso un libro che crea una condizione sottilmente angosciosa, di pura, deliziosa Angst, e al quale si perdona qualche mistero che tale rimane.
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Ultimo libro, o quasi, è La riva del silenzio di Paul Yoon, romanzo del 2013, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri nel 2014, con la traduzione di Manuela Faimali.
Questa volta parto proprio dall'inizio del libro, cioè dalla copertina, che ritengo bella e fortemente evocativa, ovvero il motivo fondamentale per il quale acquistai questo libro nel 2015.
E la copertina fornisce un'ottimo percorso per attraversare il romanzo, la vicenda di un orfano, prigioniero nordocoreano nel conflitto di Corea, inviato dagli americani in Brasile a tentare di rifarsi una vita. In Brasile il giovane, Yohan, trova alloggio in una cittadina di mare e viene ospitato da Kiyoshi, un sarto giapponese, come lui un ex-prigioniero di guerra e come lui un uomo solo, che ha dovuto affrontare una città, un luogo e una lingua sconosciuti.
Yohan, all'inizio sperduto e incapace di ambientarsi, finisce per creare un rapporto particolare con il taciturno sarto, che diviene suo padre putativo e gli insegna il mestiere, la lingua e i modi del luogo. Poco alla volta il giovane Yohan finisce per divenire un membro della comunità e l'aiutante del sarto, provando solo raramente nostalgia per il luogo dal quale proviene, dove ha perduto molto presto la madre, ha avuto un buon rapporto con il padre, morto poco prima dell'inizio della guerra, e dove, durante la prigionia, ha assistito al suicidio del suo amico Peng. Conosce anche Santi e Bia, un ragazzo e una ragazza senza famiglia, ladruncoli che vivono di espedienti, con i quali si crea un rapporto discontinuo ma molto più intenso di quanto avrebbe ritenuto possibile.
L'anziano Kiyoshi un giorno «non si svegliò più» e Yohan lo sostituisce, divenendo a sua volta il sarto della comunità. Col trascorrere del tempo viene a conoscere alcuni particolari della vita di Kiyoshi, ufficiale medico disertore dell'esercito nipponico, uomo gentile e senza fretta: «non aveva fretta, come avesse già visto tutti i luoghi possibili». Intanto i ricordi della vita in Corea del Nord lo accompagnano, talvolta dolorosi, in altri casi semplicemente intensi ma che vengono a rassicurarlo sulla sua attuale vita, sui suoi lunghi momenti di solitudine e sul lento, trasognato vivere sul confine del mare.
Non è particolarmente importante raccontare come termina «La riva del silenzio», diciamo che il finale è perfettamente adeguato alla vicenda e alla personalità di Yohan, un personaggio che si finisce per amare come un fratello perduto o come un personaggio della letteratura che non è facile dimenticare. Leggere questo romanzo può ricordare che ogni grande momento della storia è fatto delle piccole, modeste ma insieme misteriose e complesse esistenze di tutti coloro che vi hanno partecipato. Un libro profondamente pacifista e intensamente zen, un piccolo gioiello da non perdere.
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Del libro «Lo scudo dell'illusione», antologia curata e tradotta da Massimo Soumaré – Maz per gli amici – mi limiterò a dire che riunisce sei autori giapponesi, alcuni noti anche in Italia come Dazai Osamu, Natsume Soseki Miyazawa Kenji, e altri meno noti (da noi) come Unno Juza, Yamamura Bocho e Yumeno Kyusaku. L'antologia raccoglie racconti fantastici scritti in Giappone nella prima metà del XX secolo e rappresenta degnamente la passione nipponica per questo genere di letteratura. Aggiungo che il libro è stato pubblicato da Atmosphere Libri nel 2017 e fa parte della collana Asiasphere. Ultima nota: sui quattordici racconti pubblicati, dieci hanno avuto una prima edizione su LN-LibriNuovi in forma cartacea o sulle prime edizioni di ALIA. Vantarsene è sicuramente eccessivo, ma una certa qual soddisfazione da editore è inevitabile...
[*] da un carteggio personale, in merito al romanzo «Il settimo Clone».
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