Nel corso della mia non breve vita mi è capitato in diverse occasioni di leggere racconti, se non addirittura romanzi, basati sulla sovrapposizione di sogno e realtà.
Il sogno è un elemento in qualche modo contiguo alla narrazione, in realtà è esso stesso un racconto — anche se frammentario, disturbato e disomogeneo — nel quale ci accade di essere insieme estensori della vicenda, protagonisti e spettatori, più o meno come quando si scrive. Solo che sognare è più "facile", nel senso che non si sono regole da seguire, anzi, la partecipazione diretta e semiconscia al sogno lo rende falso, vuoto o inutilmente insistito.
Il problema, in narrativa, è che la resa sulla pagina scritta del sogno è una delle più difficili sfide in cui un autore possa impegnarsi.
Dicevo all'inizio di questo post che mi è capitato di leggere testi dove viene narrato come il protagonista stia sognando e/o abbia sognato e le conseguenze, in genere negative, della confusione creata tra il reale e il possibile. A essere sincero, quando mi è capitato di leggere questo genere di storie non riuscivo — e non riesco – a evitare un moto di stizza o di intolleranza. Tanto è vero che molto difficilmente questo genere di racconti o di romanzi ottenevano una seconda lettura per concorsi o altre competizioni o – nel caso di romanzi – recensioni positive, anche scritte privatamente.
E perché mai?
Beh, il sogno nella tradizione occidentale è qualcosa di sacro, il terreno preferito dove il divino appare e suggerisce o minaccia il mortale. Nel XX secolo è diventato terreno preferito della psicoanalisi e successivamente materiale di significato neurologico, non tanto semantico quanto fenomenologico. Ed è bizzarro che un autore pensi di esprimere qualcosa di completo e significante attraverso il racconto di un sogno.
Ma facciamo un passo indietro.
Nella mia produzione narrativa, imponente non foss'altro per il tempo dedicatogli, il sogno appare in due (o forse tre) racconti. Ma non appare mai in quanto tale, come metodo per creare aspettative o suscitare inquietudine nel lettore. Ho inserito alcune suggestioni ricavate dalla mia abituale produzione onirica – uso volutamente modi da rivista di economia – essenzialmente perché un sogno ha messo a fuoco un paesaggio (il paesaggio nel sogno è spesso fortemente suggestivo) chc conteneva in sé elementi di sintesi del reale che non sarei riuscito a trovare altrimenti.
Una sera particolarmente nebbiosa in campagna, le luci incerte di case lontane; un paesaggio urbano reso irriconoscibile dalla presenza di un paio di metri d'acqua e da un calore torrido; rumori lontani, inspiegabili, che annunciano arcane e umanissime presenze... cose così, inserite all'interno di una situazione per il resto reale.
Diciamo che il sogno, ovvero io mio io onirico, mi ha dato una mano, in questi casi, ma la storia ho dovuto sudarmela personalmente, utilizzando il mio lobo frontale, qualche volta vivificato dalla presenza di onde theta. E il risultato finale non ha comunque raggiunto il grado di suggestione che il sogno ha creato in me.
Oh, rabbia.
Ho molto rispetto per il sogno, ma lo considero un obiettivo, piuttosto che un mezzo, per il narratore. Riuscire a creare un grado di suggestione che risvegli i desideri e i sogni più profondi del lettore penso sia uno – anche se soltanto uno — degli effetti di un buon testo.
A questo punto è forse un po' più chiaro perché sopporto a fatica l'utilizzo senza risparmio del sogno in narrativa [*], il sogno che apparentemente risolve i problemi del protagonista, il sogno che permette di sfuggire a un'insidia, il sogno che fornisce elementi di comprensione della situazione data, il sogno che corona la storia d'amore [**]: nella maggior parte dei casi — abbiate pazienza — piccole astuzie per risolvere un intreccio che non tiene o una storia in definitiva banale. Le storie dove il protagonista vive una situazione da incubo – in genere modesta e borghese, sono pochissimi i narratori fuori dal coro – fino a quando, più o meno alla terz'ultima riga, si risveglia e scopre che si trattava di un sogno... Aaarrgghhh...
In narrativa credo risulti più costruttiva e feconda una vicenda dai contorni onirici, una realtà incerta, discutibile, un mondo ulteriore che si nasconde dietro i fondali di questa realtà. Ma qui siamo nei territori di P.K.Dick, di E.T.A. Hoffmann, di James Ballard, di M. John Harrison, di Ray Bradbury, di Leonid Andreev, di Villier de L'Isle-Adam, di Joris-Karl Huysmans, di Alfred Kubin, di Bruno Schulz... Tutti giganti, come si vede, che chiunque scriva come secondo lavoro farebbe bene a evitare.
Rimane aperta una possibilità, nell'utilizzo del sogno, una possibilità che, necessariamente, fa del sogno una metafora, un riferimento più o meno evidente al reale, un sogno che non ha nulla di onirico, ma è semplicemente uno strumento metaforico in una vicenda che ha uno scopo, talvolta politico, talvolta religioso, talvolta di satira sociale. Ovviamente questo non ha nulla a che vedere con i sogni reali, ma è uno strumento che è stato ben utilizzato da Shakespeare in avanti.
E, avendo citato Shakespeare, chiudo questa breve e personalissima riflessione sul sogno in letteratura con una citazione da La Tempesta, pronunciata da Prospero:
«Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno.»
Che mi sembra un ottimo modo per tenere sotto controllo i nostri sogni di gloria.
[*] ma lo sopporto poco anche nel cinema, per la verità.
[**] il rapporto tra sogno ed eros non è facile da cartografare. Dai sogni erotici puri e semplici si giunge a sogni di abbandono o di solitudine, molto meno banali di quanto potrebbe sembrare. Ma comunque da utilizzare con parsimonia nelle storie narrate.
20 commenti:
Mannaggia mi fai sentire una m***a! Io ho usato (o piuttosto raccontato) il sogno, anzi molti sogni, in Irene a mosaico, senza nessuno scopo se non quello di raccontare un sogno. Cioè senza intenzioni metaforiche, e con molti dubbi perché in genere la narrazione del sogno è noiosissima. Ma quel romanzo aveva l'ambizione di raccontare tutto quello che normalmente sta ai margini, o al di fuori, o al di sopra o al di sotto della narrazione principale: appunto i sogni, le storie delle persone incontrate, i vicoli ciechi... Comunque sogni ce n'è, niente da fare.
Ciao Massimo, le tue riflessioni sono sempre molto stimolanti anche per una come me che riflettere non è proprio il suo mestiere.
I sogni che racconti in Irene a Mosaico mi sono piaciuti moltissimo e, da lettore, li ho visti in una funzione, come dire, irrinunciabile, quindi funzionali e letterariamente perfetti :)
E sì, che belli che sono sempre gli articoli di Massimo (anche quando non sono tanto d'accordo con quel che dicono :) )
Tu Consolata e tu Massimo: avete per caso letto "Dimenticami Trovami Sognami" di Andrea Viscusi? A me è piaciuto molto!
Un carissimo saluto a entrambi!!!
Orlando
Ammetto di non aver letto "Irene a Mosaico" quindi adesso mi sento doppiamente in colpa. :C
Consolata: lo stile di alcuni autori può bypassare il problema della noiosaggine dei sogni. Il segreto, per così dire, sta tutto nel modo di raccontare, unendo in un unico insieme il personaggio, i suoi modi, i suoi sogni e la sua realtà di ogni giorno. In questo modo possono nascere personaggi in qualche modo memorabili.
Grazie per il commento alle mie supposte riflessioni, in realtà ponzate o ponzaggini poco fondate e altamente discutibili. Se non altro hanno di buono la possibilità di discutere e magari decidere coram populo che sono un piffero. Non sarebbe nemmeno la prima volta.
@Orlando: il sogno è materia difficile e presumibilmente bisognerebbe discuterne in una biblioteca, andando a cercare i brani e gli autori che possono o meno dare ragione all'uno o all'altro. Il mio breve post in realtà era fondamentalmente rivolto a chi vuole usare il sogno come uno strumento qualsiasi per la narrazione, senza rispettarne la sua struttura profondamente irrazionale e troppo vicina al nostro sé.
Personalmente ho letto il libro di Viscusi, l'ho recensito e ne ho anche discusso con l'autore. Qui puoi trovare la discussione: http://fronteretro.blogspot.it/2015/04/dimenticami-trovami-sognami.html
@Nick: tranquillo, non si possono tutti i libri che merita leggere. Al massimo si può forse fare un patto con la morte, promettendogli la dipartita soltanto quanto si riterrà di aver letto a sufficienza.
Grazie della segnalazione Massimo, ho letto volentieri e con molto interesse la recensione al libro di Viscusi e i successivi, coinvolgenti e interessanti commenti.
Per il resto volevo dirti che condivido i pensieri che esprimi in questo tuo scritto sul sogno.
Grazie ancora e a presto.
Accidenti, io il multiverso me lo sono sempre spiegato con sogno e realtà, che per me sono intimamente connessi, al punto che nel mio racconto lungo d'esordio nella fantascienza, nel lontano 2013, facevo dire a un personaggio questo: "Tra le infinite realtà potenziali, solo una è tangibile; tutte le altre restano sogni".
Infatti quando la realtà veniva alterata nel passato, il tempo veniva riscritto e alterava anche il responsabile della modifica, che ricordava la sua realtà di partenza come un sogno, una fantasia. Il problema è io sono proprio convinta che funzioni così. Spero che la buona fede sia un'attenuante ;)
@Orlando: il sogno è un elemento centrale non tanto degli spunti narrativi ma della struttura stessa del narrare. In sostanza penso che si racconti perché si sogna e che tutti i tentativi di fare arte nascano dalla semplice esigenza di sognare anche da svegli.
D'altro canto quando scriviamo con sufficiente concentrazione il nostro cervello produce le stesse onde theta che produce durante il sonno REM... Tutto ciò per dire che non è facile giocare coi sogni.
@Valeria: devo leggerlo, questo racconto. Il sogno come una realtà possibile soltanto potenziale: modo interessante di presentare la struttura profonda del nostro mondo.
Come è altrettanto stimolante l'idea di giocare con il tempo e le possibili realtà. Ma, mi sorge un dubbio, non sarai per caso un'autrice di fantascienza?
Comunque direi che il tuo non è esattamente giocare con i sogni, ma immaginare un grado ulteriore o collaterale di realtà, più o meno quello che fanno gli autori di sf. Raccontare un io sognante - che in questo caso è un esploratore della realtà più profonda e invisibile - non è esattamente come giocare col subconscio.
Scusami, Massimo, ho dimenticato che commentavo sotto nickname. Sono Valeria Barbera. La pensiamo allo stesso modo sulla genesi onirica del narrare. Le storie che raccontiamo sono sogni a occhi aperti :)
Possiamo dire che il sogno, in base a come è utilizzato in una narrazione, ci dà la misura della stessa? Ascoltassero il consiglio, insomma XD
Un autore che utilizza l'onirico come possibilità di indagine dell'inconscio è Murakami (ad esempio in La fine del mondo e il paese delle meraviglie). Ho notato che spesso questa componente importante è più spesso avvertita come "altro mondo", "mondo fantastico", ciò che mi lascia perplessa...
@Valeria: vedo che abbiamo un modo molto simile di valutare il nostro genere e il nostro lavoro. Siamo due felici illusi, come tutti quelli che si ostinato a scrivere sf e personalmente sono convinto sia un'ottima scelta
@Giò: ho letto Murakami ma non ho pensato di inserirlo per il modo personalissimo che ha di trattare il reale, infiltrandolo costantemente di elementi onirici. Un approccio geniale in una narrativa per il resto quotidiana, ultrarealistica nelle ricette di casa e nei lavori del giardino. Il fatto è che Murakami è un genio quotidiano, modesto, poco appariscente e penetrante, un artista nel far penetrare le suggestioni oniriche nel reale. Ma, per l'appunto, M. non racconta sogni e non contrappone reale e sogno. Fa quaìcos'altro e credo dovremmo essergliene grati.
@Orlando: non ho letto Dimenticami Trovami Sognami e me lo vado subito a cercare. Grazie dell'input e della stima che è un preziosissimo carburante!
Molto interessante. E' vero che solitamente il sogno è usato in maniera maldestra dagli scrittori, ma questo avviene quando l'esperienza onirica è un surrogato della trama. Tra gli autori che usano il sogno in modo personalissimo il mio preferito e Kundera (lo è in quasi ogni ambito...): penso alla penultima parte del Libro del riso e dell'oblio (la protagonista finisce in una sorta di terra dell'infanzia in cui viene molestata da una moltitudine di bambini) o L'identità (il cliché "era tutto un sogno" come non l'avete mai visto).
@Senzapre7ese: io di Kundera ho letto soltanto La lentezza e L'insostenibile leggerezza [...], oltretutto molto tempo fa, quindi ti dò ragione a priori. Comunque autori capaci di utilizzare il sogno nei propri testi non ne mancano, ciò che mi delude è l'utilizzo del sogno come succedaneo alla narrazione o come vaselina narrativa.
Sì, l'avevo capito, e la penso anch'io come te (e immagino lo stesso Kundera, che nei Testamenti traditi critica l'uso del sogno nella Montagna incantata di Mann. Kundera andrebbe letto e riletto tutto! :-) ). C'è tutto un filone letterario che prende le mosse da Kafka e passa per il realismo magico, fino ad autori diversissimi come appunto Kundera e Murakami - in cui il sogno non è un artificio narrativo, ma investe la struttura stessa del romanzo. Non a caso Kundera legge Il processo come una riproduzione dei meccanismi onirici.
@Senzapre7ese: è un nodo di procedere che non è quello della vita quotidiana, dove una conseguenza non ha necessariamente una causa, dove i fatti hanno un andamento obliquo rispetto alla successione del tempo... Sono abituato a considerarlo il modo di procedere degli autori che amo maggiormente. Kundera ha scritto, ne L'arte del romanzo che compito di chi scrive è «mettersi al servizio di una verità da scoprire» E in questo elogia Kafka, che «Ha detto sulla nostra condizione umana (così come si rivela nel nostro secolo) ciò che nessuna riflessione sociologica o politica potrà mai dirci». Il sogno è estremamente vicino alla nostra mente e proprio per questo va trattato con la massima cura.
Però il sogno nella Montagna incantata ha un valore preciso, non serve all'autore per soluzioni rapide :P Ovvero è ciò che permette al protagonista Hans Castorp di accedere al proprio inconscio (anche se la soluzione finale non può che essere fallimentare, essendo Hans stesso un "buonanulla"). Sono curiosa di leggere quel che scrive Kundera in proposito, a questo punto!
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