31.8.12

La bolla


Un racconto relativamente recente, questa volta. Uscito nel 2007 nell'antologia Tutto il nero del Piemonte, edizioni Noubs, e pubblicato in compagnia, tra gli altri, di Danilo Arona, Fulvio Gatti, Elvezio Sciallis, Davide Mana, Silvia Treves e Alessandro Defilippi. 
Una storia nata da un breve momento di smarrimento nel parcheggio del Lingotto, molto prosaicamente mentre andavamo a fare la spesa. Buffo come possono nascere certe storie. L'antologia ebbe comunque una certa risonanza anche se, purtroppo, fu parzialmente danneggiata da un'impaginazione errata, con una «errata corrige» perlomeno sorprendente. D'altro canto chi non fa, non falla, anche nel campo degli editori.
Buona lettura.



Non era certo la prima volta, anzi. Era un vero e proprio rito, o qualcosa di simile.
Cadeva il giovedì sera, ore 20.00 circa.
Si sa come vanno queste cose: la spesa di casa tende a sintonizzarsi su un ben preciso giorno della settimana e, a parte qualche esigenza particolare o qualche articolo che va fuori sintonia finendo il martedì o il mercoledì, il novanta per cento di ciò che viene a mancare in un firgorifero italiano medio può essere rifornito con un'unica spedizione.
Era uno dei segreti della vita casalinga che, sposato da un lustro scarso, avevo appreso con la pratica.
Non mi dispiaceva e avevo preso l'abitudine di fare tutto da solo: parcheggio, spesa telecomandata con lista precompilata da spuntare e qualche piccola infrazione alla rigidità del mandato acquistando qualche prodotto fuori lista. Lavoravamo tutti e due e la casa era un regalo dei facoltosi suoceri, quindi non avevamo problemi a concederci qualche infrazione del budget previsto per la gestione casalinga.
Non era praticamente mai una spesa gravosa, la nostra. Non avendo figli e avendo spostato parecchio in là nel tempo il momento «giusto» per averne, era sufficiente mettere insieme qualcosa – in genere di precotto, precucinato e pronto-in-cinque-minuti – per una coppia di D.I.N.K. che comunque almeno una volta o due alla settimana andavano a cena fuori.
Proprio quella sera doveva esserci qualcosa di speciale. Forse l’esibizione di un comico di moda o, più probabilmente, la prima di qualche film lungamente atteso. O, magari, la concomitanza di due eventi immancabili. Il risultato era che anche il parcheggio sotterraneo riservato al supermercato era completamente pieno. Dopo una breve perlustrazione scesi al secondo piano interrato. Non mi piaceva guidare in quel labirinto di colonne, frecce, cartelli e rampe troppo strette. Avevo timore di toccare qualche gradino o qualche muretto che sfuggivano al campo dello specchietto, senza contare la possibilità che il piede scivolasse dalla frizione proprio durante una curva in discesa.
Non mi piacevano le luci al sodio del parcheggio sotterraneo che creavano ombre arancio incrociate, sovrapposte e sfuggenti che confondevano il profilo di marciapiedi e alteravano la percezione della profondità.
Al secondo piano interrato la situazione non era migliore. Auto ovunque, ordinatamente schierate in una lunga fila senza soluzione di continuità. Non c'erano posti, neppure lontano dagli ascensori. Vagai per un po’ finendo con il percorrere i corridoi seguendo una direzione opposta a quella indicata dalle frecce – gialle, naturalmente – dipinte per terra. Il fatto che vi fosse pochissima animazione e nessun carrello in giro confermava la mia ipotesi che a riempire il parcheggio del supermercato fossero in primo luogo ritardari degli ipotetici eventi, travasati lì da altri parcheggi completi.
Cominciai a chiedermi se avevo sbagliato parcheggio. Mi fermai in mezzo al corridoio principale per controllare. Il simbolo del supermercato, un rombo verde che inscriveva la sigla della catena scritta in caratteri bonariamente tondeggianti era affisso ben alto sulla mia testa, a conferma che mi trovavo nel parcheggio giusto.
Bestemmiai ad alta voce con il finestrino aperto: in giro non si vedeva anima viva.
Che fare?
Ebbi la tentazione di rinunciare. La sera successiva ci sarebbe stata meno calca. Ma la sera successiva sarebbe stato un venerdì. Ci saremmo incontrati con Gilda e Miki, come capitava spesso il venerdì o avremmo comunque avuto qualche impegno preliminare al week-end. Impossibile. E il sabato… nemmeno a parlarne. La spesa del sabato è per i coatti.

Potevo abbandonare la macchina in qualche angolo morto. L’avevo già visto fare. Non era particolarmente pericoloso. La mia spesa era in genere veloce, si sarebbe trattata di una mezz'ora, non di più.
Già… già… ma se un furgone…
Automaticamente mi guardai intorno. Una paio di furgoni c'erano. Sicuramente avrebbero scelto di andarsene nell’esatto momento nel quale avessi abbandonato la macchina per infilarmi nell'ascensore. E si sarebbero messi a suonare con la bovina ostinazione di tutti i conducenti di furgone, richiamando l'attenzione dei custodi. Forse mi sarebbero venuti a chiamare, o forse… L'idea di raggiungere «la depositeria» all'altro capo della città, con la spesa al traino, per riscattare l'auto sequestrata mi parve semplicemente agghiacciante.
Non me n'ero mai accorto ma il parcheggio continuava. Esisteva un terzo piano interrato. Le frecce riportavano un bel «– 3» verde. Riaccesi e scesi ancora.

Dovessi giurare di averlo visto davvero quel «–3», soprattutto nelle mie attuali condizioni, non potrei. Può darsi che mi sia sbagliato, forse illuso.
Certo, giunto a questo punto debbo pensare si sia trattato di un'allucinazione. Non posso davvero credere che qualcuno… O forse il terzo piano sotterraneo esiste davvero, così come il quarto e… solo che si tratta di qualcosa di normale, ordinario. Luci al sodio, sentore di benzina e di gas di scarico, umidità e silenzio.

Nulla, nemmeno un angolo libero.
Battei un pugno sul volante con stizza, ripetendo la stessa bestemmia pronunciata non più di cinque minuti prima.
Ma era possibile? Era ragionevole?
Le luci in questa parte del parcheggio erano differenti. Tubi al neon sporcati dagli scarichi racchiusi in reti di metallo grigie come ragnatele. Avevano qualcosa di vecchio, quasi decrepito. Nessun faretto acceso sotto insegne che ripetevano il logo del supermercato. Macchie sul pavimento e sui muri, invece, il lontano suono di gocce e angoli profondamente immersi nell’ombra. Un posto per nulla piacevole. «Pulizia e modernità», doveva essere o essere stato il motto di quel supermercato o forse di altri, non ricordo. «Fresh & Clean», come cantava Tom Waits. Beh, ero dalla parte opposta dello spettro, immerso nell'odore vago ma nauseante di gomma combusta e nafta.
Percorsi il primo corridoio.
Pazientemente, all'inizio, poi sempre più incredulo.
La fila di auto ordinatamente parcheggiate non sembrava aver fine: un’interminabile distesa di capotte rese uniformemente grigie dalla luce incerta e debole. Accelerai. Il pavimento del sotterraneo era cambiato. Il cemento aveva lasciato il posto a un pavimento scheggiato e tormentato. Pozzanghere, crepe, frammenti di mattonelle color sangue di bue: li sentivo sotto le ruote, ma non osavo fermarmi.
Il terzo livello era deserto, in apparenza. A chi appartenevano tutte quelle auto grige abbandonate ad arrugginire sotto una luce lattiginosa? Non traevo nessuna conclusione, né facevo ipotesi. Ero scivolato nell'assurdo e percorrevo per quel mondo meccanico e crepuscolare aggrappato al volante della mia auto, l’unica ancora viva in un minaccioso e grottesco cimitero di veicoli dimenticati, in attesa di un segno del ritorno della realtà.
Procedevo ormai a una velocità piuttosto sostenuta, scandita dalla frequenza con la quale il riflesso dei neon si accendeva sul mio parabrezza. Se qualcuno fosse improvvisamente apparso tra un’auto e l’altra non sarei riuscito a frenare né a evitarlo. Ma non sarebbe accaduto: quel livello non faceva parte – anche se forse soltanto provvisoriamente – del nostro mondo. Con la coda dell’occhio seguivo il moto invariabile delle colonne e delle auto intorno a me. Un'ipotesi, anche più assurda di quelle che si erano formate nella mia mente da quando mi trovavo in quel luogo, aveva preso ad accompagnarmi e, pur essendone terrorizzato, ne ero anche attratto, affascinato. Forse il mio percorso non era realmente rettilineo come mi appariva. Forse stavo percorrendo una curva tanto ampia da risultare impercettibile, un arco infinito che mi avrebbe condotto in un altro luogo e in un altro tempo.
Mi prese un’eccitazione delirante, una sensazione di potenza e sicurezza che mi indussero a dimenticare che mi trovavo a bordo di un veicolo sospinto da una quantità finita di energia e di carburante e che se pure il mio percorso potenziale fosse stato infinito non lo ero io né lo era la mia auto.
Con la mente offuscata, probabilmente ipnotizzata dal ritmo regolare delle luci, delle auto e delle colonne, mi sollevai a sedere meglio, lanciai uno sguardo di sfida al buio inerte che si raccoglieva oltre l'ultima fila di neon accesi e accelerai ancora. Per la prima volta tentai davvero di comprendere la natura di quel luogo e capire che tipo di auto fossero raccolte in quell'assurdo e impossibile santuario dell’autoveicolo.

Le colonne a sezione quadrata era le stesse che formavano l’ossatura della titanica fabbrica anni Trenta dove erano stati sistemati un supermercato, una lunga serie di negozi, diversi cinema, un frammento di università, mostre, rassegne, fiere e molte altre cose. Ma non erano poche le aree tuttora chiuse e inaccessibili. Per esempio non era ancora possibile raggiungere la seconda rampa a vite che conduceva dal piano terreno alla pista posta sul tetto. L’avevo vista di sfuggita una mattina mentre vagavo annoiato in attesa che Luisa avesse terminato il suo shopping in compagnia di un’amica. La seconda rampa era appena oltre una porta antifuoco colorata di rosso lasciata sbadatamente aperta.
Colonne, pavimento, muri non erano stati riverniciati e la rampa, speculare a quella illuminata che scendeva nel mezzo del centro commerciale, aveva un aspetto lurido e trascurato ed era parzialmente immersa nell’oscurità. Rimasi qualche secondo a osservarla mentre per la mente mi passavano strani pensieri, probabilmente assurdi quanto il luogo nel quale mi trovo. In quel momento non ne ricordavo nessuno, soltanto la sensazione di una vita minerale, paziente e dimenticata, che resisteva allo scorrere del tempo. Ricordo che mi allontanai dalla porta rossa con una sottile sensazione di colpevolezza, come avessi osato spiare qualcosa che non era più fatto per essere visto da occhi umani.
Qualcosa di familiare ma che, nello scorrere degli anni, aveva sviluppato una natura profonda e inafferrabile. Qualcosa che era diventato inconoscibile pur potendo essere senza difficoltà riconosciuto.
Le auto.
Modelli familiari, auto che avevano fino a una trentina di anni prima avevano circolato per le nostre strade. Auto con un nome semplice e concreto. Un numero a tre cifre o a quattro. Le riconobbi ma non provai la sensazione di tenue nostalgia un po’ insulsa associata ai troppo facili revival. Quelle auto – cupe, graffiate, incrostate – non erano i veicoli addomesticati e ben tenuti di qualche collezionista. Da loro veniva una sensazione di gelo, di impassibile e livida solitudine quasi palpabili. Mi sforzai di guardare oltre le prime file, di riconoscere altri modelli. Dovetti forzare lo sguardo, persino rallentare mentre sentivo il cuore perdere colpi. Se fino a quel momento avrei anche potuto credere di essere chissà come finito in un deposito di vecchie auto assurdamente dimenticato nel profondo del sottosuolo della città, le forme i profili delle auto più lontane dai corridoi del sotterraneo mi convinsero definitivamente di essere finito Altrove, un altrove dal quale probabilmente non sarei più riuscito a ritornare.
Il disegno di un’auto soggiace a poche norme, facilmente definibili. Una logica «interna» dovuta all'esistenza di un motore, di un albero motore e quattro ruote, un abitacolo, un bagagliaio. Una logica «esterna» dovuta alla necessità di attraversare l'aria senza compromettere la stabilità né consumare troppo carburante.
Quelle auto, schierate alle spalle dei modelli più familiari, sembravano sfuggire in parte o del tutto a quelle poche norme. Abitacoli inesistenti o sporgenti nei modi più grotteschi, motori assurdamente complicati che sporgevano dai cofani come viscere espulse dal ventre, incrostati di morchia e di polvere, auto senza finestrini né parabrezza, cieche come larve disseccate, veicoli asimmetrici, sghembi e assurdi, con il più incredibile assortimento di ruote che avessi mai visto. Mostri, incubi, scherzi di una Madre Natura meccanica che nessuno poteva aver montato, assemblato, verniciato. Un museo infinito di possibilità meccaniche mai immaginate e mai nate, una galleria di orrori che non erano riusciti a materializzarsi sui tecnigrafi di nessun ingegnere ma che erano presenti nel gioco, ombre senza la cui esistenza possibile, sommersa e oscura, il nostro mondo, il mondo «normale», quotidiano, fatto a nostra immagine, non avrebbe mai potuto esistere.

Tornai ad accelerare e finalmente cominciai a cercare qualche segno del mondo dal quale provenivo. Una possibile via d'uscita, un passaggio. Se era stato possibile raggiungere quell'inframondo di occasioni perdute doveva essere altrettanto possibile ripescare il numero che mi avrebbe riportato nell'universo delle possibilità avvenute.
Almeno, questo è ciò di cui mi illudo.
Altre rampe scendevano verso ulteriori gradi di improbabilità. Verso un livello 4, 5, forse all’infinito. Luci sorgevano improvvisamente da quei passaggi, scorrevano sulle colonne e sui soffitti, probabilmente fanali impazziti di auto sempre più lontane dalla norme che sorreggono il nostro universo. Nell’aria, fredda e secca, l'unico rumore era il battito del motore della mia auto. Mi ritornava moltiplicato e amplificato dalle pareti e dalle auto immobili.

Non saprei dire quanta strada ho percorso alla ricerca di un passaggio per il nostro mondo. Il contachilometri inspiegabilmente si è bloccato. Sono ore e ore che guido senza interrompermi e senza mai rallentare o fermarmi. Ho il terrore di quello che potrebbe accadere se il motore si spegnesse o se fossi costretto a uscire dall'abitacolo della mia auto.
Appena sopra di me – soltanto qualche metro – il mondo di luci, plastica, odore di patate fritte, popcorn, caffé che ci è familiare continua la sua danza, ciecamente ignaro dei miliardi di possibili passati che ha lasciato dietro di sé.
Guido, continuo a guidare scrutando nella poca luce alla ricerca di un cartello con la scritta «–2». Non sono ancora troppo stanco, posso ancora sperare.
Se sarò costretto a fermarmi…
Finché sarò un passeggero di questo mondo, finché resterò in movimento, chiuso nella mia bolla di realtà, sarò soltanto un incidente trascurabile e perfettamente reversibile, un caso tra miliardi.
Ma devo continuare, non posso smettere. Questo mondo non deve accorgersi della mia esistenza.
Non potrò fermarmi.
Non posso fermarmi. 



Per leggere eventuali commenti ed eventualmente commentare a propria volta è possibile andare anche qui. 

2 commenti:

Marcella Andreini ha detto...

Che ricchezza di interpretazioni questo racconto! in alcuni momenti ho pensato fosse una discesa all'Inferno con Caronte a bordo della sua auto/barca; per un attimo ho pensato al racconto di una persona in coma che lotta per rimanere in questo mondo, infine la resistenza a non farsi schiacciare dalla depressione, dallo smarrimento della vita che ci colpisce anche in momenti banali, anzi soprattutto banali, come andare a fare la spesa. Vivo, sembrava di essere lì.

Massimo Citi ha detto...

@Orlando: sono abbastanza conscio delle possibili interpretazioni che il racconto può risvegliare. Ne sono sorpreso io per primo... eppure non c'è un filo di intenzione. Ho scritto semplicemente guidato dalla visione di un vasto, interminabile parcheggio, dove gli angoli bui nascondono ulteriori passaggi e ulteriori possibilità come inattesi, anonimi e insondabili pericoli.