Un racconto relativamente recente, questa volta. Uscito nel 2007 nell'antologia Tutto il nero del Piemonte, edizioni Noubs, e pubblicato in compagnia, tra gli altri, di Danilo Arona, Fulvio Gatti, Elvezio Sciallis, Davide Mana, Silvia Treves e Alessandro Defilippi.
Una storia nata da un breve momento di smarrimento nel parcheggio del Lingotto, molto prosaicamente mentre andavamo a fare la spesa. Buffo come possono nascere certe storie. L'antologia ebbe comunque una certa risonanza anche se, purtroppo, fu parzialmente danneggiata da un'impaginazione errata, con una «errata corrige» perlomeno sorprendente. D'altro canto chi non fa, non falla, anche nel campo degli editori.
Buona lettura.
Non era certo la prima volta, anzi.
Era un vero e proprio rito, o qualcosa di simile.
Cadeva il giovedì sera, ore 20.00
circa.
Si sa come vanno queste cose: la spesa
di casa tende a sintonizzarsi su un ben preciso giorno della
settimana e, a parte qualche esigenza particolare o qualche articolo
che va fuori sintonia finendo il martedì o il mercoledì, il novanta
per cento di ciò che viene a mancare in un firgorifero italiano
medio può essere rifornito con un'unica spedizione.
Era uno dei segreti della vita
casalinga che, sposato da un lustro scarso, avevo appreso con la
pratica.
Non mi dispiaceva e avevo preso
l'abitudine di fare tutto da solo: parcheggio, spesa telecomandata
con lista precompilata da spuntare e qualche piccola infrazione alla
rigidità del mandato acquistando qualche prodotto fuori lista.
Lavoravamo tutti e due e la casa era un regalo dei facoltosi suoceri,
quindi non avevamo problemi a concederci qualche infrazione del
budget previsto per la gestione casalinga.
Non era praticamente mai una spesa
gravosa, la nostra. Non avendo figli e avendo spostato parecchio in
là nel tempo il momento «giusto» per averne, era sufficiente
mettere insieme qualcosa – in genere di precotto, precucinato e
pronto-in-cinque-minuti – per una coppia di D.I.N.K. che comunque
almeno una volta o due alla settimana andavano a cena fuori.
Proprio quella sera doveva esserci
qualcosa di speciale. Forse l’esibizione di un comico di moda o,
più probabilmente, la prima di qualche film lungamente atteso. O,
magari, la concomitanza di due eventi immancabili. Il risultato era
che anche il parcheggio sotterraneo riservato al supermercato era
completamente pieno. Dopo una breve perlustrazione scesi al secondo
piano interrato. Non mi piaceva guidare in quel labirinto di colonne,
frecce, cartelli e rampe troppo strette. Avevo timore di toccare
qualche gradino o qualche muretto che sfuggivano al campo dello
specchietto, senza contare la possibilità che il piede scivolasse
dalla frizione proprio durante una curva in discesa.
Non mi piacevano le luci al sodio del
parcheggio sotterraneo che creavano ombre arancio incrociate,
sovrapposte e sfuggenti che confondevano il profilo di marciapiedi e
alteravano la percezione della profondità.
Al secondo piano interrato la
situazione non era migliore. Auto ovunque, ordinatamente schierate in
una lunga fila senza soluzione di continuità. Non c'erano posti,
neppure lontano dagli ascensori. Vagai per un po’ finendo con il
percorrere i corridoi seguendo una direzione opposta a quella
indicata dalle frecce – gialle, naturalmente – dipinte per terra.
Il fatto che vi fosse pochissima animazione e nessun carrello in giro
confermava la mia ipotesi che a riempire il parcheggio del
supermercato fossero in primo luogo ritardari degli ipotetici eventi,
travasati lì da altri parcheggi completi.
Cominciai a chiedermi se avevo
sbagliato parcheggio. Mi fermai in mezzo al corridoio principale per
controllare. Il simbolo del supermercato, un rombo verde che
inscriveva la sigla della catena scritta in caratteri bonariamente
tondeggianti era affisso ben alto sulla mia testa, a conferma che mi
trovavo nel parcheggio giusto.
Bestemmiai ad alta voce con il
finestrino aperto: in giro non si vedeva anima viva.
Che fare?
Ebbi la tentazione di rinunciare. La
sera successiva ci sarebbe stata meno calca. Ma la sera successiva
sarebbe stato un venerdì. Ci saremmo incontrati con Gilda e Miki,
come capitava spesso il venerdì o avremmo comunque avuto qualche
impegno preliminare al week-end. Impossibile. E il sabato… nemmeno
a parlarne. La spesa del sabato è per i coatti.
Potevo abbandonare la macchina in
qualche angolo morto. L’avevo già visto fare. Non era
particolarmente pericoloso. La mia spesa era in genere veloce, si
sarebbe trattata di una mezz'ora, non di più.
Già… già… ma se un furgone…
Automaticamente mi guardai intorno.
Una paio di furgoni c'erano. Sicuramente avrebbero scelto di
andarsene nell’esatto momento nel quale avessi abbandonato la
macchina per infilarmi nell'ascensore. E si sarebbero messi a suonare
con la bovina ostinazione di tutti i conducenti di furgone,
richiamando l'attenzione dei custodi. Forse mi sarebbero venuti a
chiamare, o forse… L'idea di raggiungere «la depositeria»
all'altro capo della città, con la spesa al traino, per riscattare
l'auto sequestrata mi parve semplicemente agghiacciante.
Non me n'ero mai accorto ma il
parcheggio continuava. Esisteva un terzo piano interrato. Le frecce
riportavano un bel «– 3» verde. Riaccesi e scesi ancora.
Dovessi giurare di averlo visto
davvero quel «–3», soprattutto nelle mie attuali condizioni, non
potrei. Può darsi che mi sia sbagliato, forse illuso.
Certo, giunto a questo punto debbo
pensare si sia trattato di un'allucinazione. Non posso davvero
credere che qualcuno… O forse il terzo piano sotterraneo esiste
davvero, così come il quarto e… solo che si tratta di qualcosa di
normale, ordinario. Luci al sodio, sentore di benzina e di gas di
scarico, umidità e silenzio.
Nulla, nemmeno un angolo libero.
Battei un pugno sul volante con
stizza, ripetendo la stessa bestemmia pronunciata non più di cinque
minuti prima.
Ma era possibile? Era ragionevole?
Le luci in questa parte del parcheggio
erano differenti. Tubi al neon sporcati dagli scarichi racchiusi in
reti di metallo grigie come ragnatele. Avevano qualcosa di vecchio,
quasi decrepito. Nessun faretto acceso sotto insegne che ripetevano
il logo del supermercato. Macchie sul pavimento e sui muri, invece,
il lontano suono di gocce e angoli profondamente immersi nell’ombra.
Un posto per nulla piacevole. «Pulizia e modernità», doveva essere
o essere stato il motto di quel supermercato o forse di altri, non
ricordo. «Fresh & Clean», come cantava Tom Waits. Beh, ero
dalla parte opposta dello spettro, immerso nell'odore vago ma
nauseante di gomma combusta e nafta.
Percorsi il primo corridoio.
Pazientemente, all'inizio, poi sempre
più incredulo.
La fila di auto ordinatamente
parcheggiate non sembrava aver fine: un’interminabile distesa di
capotte rese uniformemente grigie dalla luce incerta e debole.
Accelerai. Il pavimento del sotterraneo era cambiato. Il cemento
aveva lasciato il posto a un pavimento scheggiato e tormentato.
Pozzanghere, crepe, frammenti di mattonelle color sangue di bue: li
sentivo sotto le ruote, ma non osavo fermarmi.
Il terzo livello era deserto, in
apparenza. A chi appartenevano tutte quelle auto grige abbandonate ad
arrugginire sotto una luce lattiginosa? Non traevo nessuna
conclusione, né facevo ipotesi. Ero scivolato nell'assurdo e
percorrevo per quel mondo meccanico e crepuscolare aggrappato al
volante della mia auto, l’unica ancora viva in un minaccioso e
grottesco cimitero di veicoli dimenticati, in attesa di un segno del
ritorno della realtà.
Procedevo ormai a una velocità
piuttosto sostenuta, scandita dalla frequenza con la quale il
riflesso dei neon si accendeva sul mio parabrezza. Se qualcuno fosse
improvvisamente apparso tra un’auto e l’altra non sarei riuscito
a frenare né a evitarlo. Ma non sarebbe accaduto: quel livello non
faceva parte – anche se forse soltanto provvisoriamente – del
nostro mondo. Con la coda dell’occhio seguivo il moto invariabile
delle colonne e delle auto intorno a me. Un'ipotesi, anche più
assurda di quelle che si erano formate nella mia mente da quando mi
trovavo in quel luogo, aveva preso ad accompagnarmi e, pur essendone
terrorizzato, ne ero anche attratto, affascinato. Forse il mio
percorso non era realmente rettilineo come mi appariva. Forse stavo
percorrendo una curva tanto ampia da risultare impercettibile, un
arco infinito che mi avrebbe condotto in un altro luogo e in un altro
tempo.
Mi prese un’eccitazione delirante,
una sensazione di potenza e sicurezza che mi indussero a dimenticare
che mi trovavo a bordo di un veicolo sospinto da una quantità finita
di energia e di carburante e che se pure il mio percorso potenziale
fosse stato infinito non lo ero io né lo era la mia auto.
Con la mente offuscata, probabilmente
ipnotizzata dal ritmo regolare delle luci, delle auto e delle
colonne, mi sollevai a sedere meglio, lanciai uno sguardo di sfida al
buio inerte che si raccoglieva oltre l'ultima fila di neon accesi e
accelerai ancora. Per la prima volta tentai davvero di comprendere la
natura di quel luogo e capire che tipo di auto fossero raccolte in
quell'assurdo e impossibile santuario dell’autoveicolo.
Le colonne a sezione quadrata era le
stesse che formavano l’ossatura della titanica fabbrica anni Trenta
dove erano stati sistemati un supermercato, una lunga serie di
negozi, diversi cinema, un frammento di università, mostre,
rassegne, fiere e molte altre cose. Ma non erano poche le aree
tuttora chiuse e inaccessibili. Per esempio non era ancora possibile
raggiungere la seconda rampa a vite che conduceva dal piano terreno
alla pista posta sul tetto. L’avevo vista di sfuggita una mattina
mentre vagavo annoiato in attesa che Luisa avesse terminato il suo
shopping in compagnia di un’amica. La seconda rampa era appena
oltre una porta antifuoco colorata di rosso lasciata sbadatamente
aperta.
Colonne, pavimento, muri non erano
stati riverniciati e la rampa, speculare a quella illuminata che
scendeva nel mezzo del centro commerciale, aveva un aspetto lurido e
trascurato ed era parzialmente immersa nell’oscurità. Rimasi
qualche secondo a osservarla mentre per la mente mi passavano strani
pensieri, probabilmente assurdi quanto il luogo nel quale mi trovo.
In quel momento non ne ricordavo nessuno, soltanto la sensazione di
una vita minerale, paziente e dimenticata, che resisteva allo
scorrere del tempo. Ricordo che mi allontanai dalla porta rossa con
una sottile sensazione di colpevolezza, come avessi osato spiare
qualcosa che non era più fatto per essere visto da occhi umani.
Qualcosa di familiare ma che, nello
scorrere degli anni, aveva sviluppato una natura profonda e
inafferrabile. Qualcosa che era diventato inconoscibile pur potendo
essere senza difficoltà riconosciuto.
Le auto.
Modelli familiari, auto che avevano
fino a una trentina di anni prima avevano circolato per le nostre
strade. Auto con un nome semplice e concreto. Un numero a tre cifre o
a quattro. Le riconobbi ma non provai la sensazione di tenue
nostalgia un po’ insulsa associata ai troppo facili revival. Quelle
auto – cupe, graffiate, incrostate – non erano i veicoli
addomesticati e ben tenuti di qualche collezionista. Da loro veniva
una sensazione di gelo, di impassibile e livida solitudine quasi
palpabili. Mi sforzai di guardare oltre le prime file, di riconoscere
altri modelli. Dovetti forzare lo sguardo, persino rallentare mentre
sentivo il cuore perdere colpi. Se fino a quel momento avrei anche
potuto credere di essere chissà come finito in un deposito di
vecchie auto assurdamente dimenticato nel profondo del sottosuolo
della città, le forme i profili delle auto più lontane dai corridoi
del sotterraneo mi convinsero definitivamente di essere finito
Altrove, un altrove dal quale probabilmente non sarei più riuscito a
ritornare.
Il disegno di un’auto soggiace a
poche norme, facilmente definibili. Una logica «interna» dovuta
all'esistenza di un motore, di un albero motore e quattro ruote, un
abitacolo, un bagagliaio. Una logica «esterna» dovuta alla
necessità di attraversare l'aria senza compromettere la stabilità
né consumare troppo carburante.
Quelle auto, schierate alle spalle dei
modelli più familiari, sembravano sfuggire in parte o del tutto a
quelle poche norme. Abitacoli inesistenti o sporgenti nei modi più
grotteschi, motori assurdamente complicati che sporgevano dai cofani
come viscere espulse dal ventre, incrostati di morchia e di polvere,
auto senza finestrini né parabrezza, cieche come larve disseccate,
veicoli asimmetrici, sghembi e assurdi, con il più incredibile
assortimento di ruote che avessi mai visto. Mostri, incubi, scherzi
di una Madre Natura meccanica che nessuno poteva aver montato,
assemblato, verniciato. Un museo infinito di possibilità meccaniche
mai immaginate e mai nate, una galleria di orrori che non erano
riusciti a materializzarsi sui tecnigrafi di nessun ingegnere ma che
erano presenti nel gioco, ombre senza la cui esistenza possibile,
sommersa e oscura, il nostro mondo, il mondo «normale», quotidiano,
fatto a nostra immagine, non avrebbe mai potuto esistere.
Tornai ad accelerare e finalmente
cominciai a cercare qualche segno del mondo dal quale provenivo. Una
possibile via d'uscita, un passaggio. Se era stato possibile
raggiungere quell'inframondo di occasioni perdute doveva essere
altrettanto possibile ripescare il numero che mi avrebbe riportato
nell'universo delle possibilità avvenute.
Almeno, questo è ciò di cui mi
illudo.
Altre rampe scendevano verso ulteriori
gradi di improbabilità. Verso un livello 4, 5, forse all’infinito.
Luci sorgevano improvvisamente da quei passaggi, scorrevano sulle
colonne e sui soffitti, probabilmente fanali impazziti di auto sempre
più lontane dalla norme che sorreggono il nostro universo.
Nell’aria, fredda e secca, l'unico rumore era il battito del motore
della mia auto. Mi ritornava moltiplicato e amplificato dalle pareti
e dalle auto immobili.
Non saprei dire quanta strada ho
percorso alla ricerca di un passaggio per il nostro mondo. Il
contachilometri inspiegabilmente si è bloccato. Sono ore e ore che
guido senza interrompermi e senza mai rallentare o fermarmi. Ho il
terrore di quello che potrebbe accadere se il motore si spegnesse o
se fossi costretto a uscire dall'abitacolo della mia auto.
Appena sopra di me – soltanto
qualche metro – il mondo di luci, plastica, odore di patate fritte,
popcorn, caffé che ci è familiare continua la sua danza, ciecamente
ignaro dei miliardi di possibili passati che ha lasciato dietro di
sé.
Guido, continuo a guidare scrutando
nella poca luce alla ricerca di un cartello con la scritta «–2».
Non sono ancora troppo stanco, posso ancora sperare.
Se sarò costretto a fermarmi…
Finché sarò un passeggero di questo
mondo, finché resterò in movimento, chiuso nella mia bolla di
realtà, sarò soltanto un incidente trascurabile e perfettamente
reversibile, un caso tra miliardi.
Ma devo continuare, non posso
smettere. Questo mondo non deve accorgersi della mia esistenza.
Non potrò fermarmi.
Non posso fermarmi.
Per leggere eventuali commenti ed eventualmente commentare a propria volta è possibile andare anche qui.
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2 commenti:
Che ricchezza di interpretazioni questo racconto! in alcuni momenti ho pensato fosse una discesa all'Inferno con Caronte a bordo della sua auto/barca; per un attimo ho pensato al racconto di una persona in coma che lotta per rimanere in questo mondo, infine la resistenza a non farsi schiacciare dalla depressione, dallo smarrimento della vita che ci colpisce anche in momenti banali, anzi soprattutto banali, come andare a fare la spesa. Vivo, sembrava di essere lì.
@Orlando: sono abbastanza conscio delle possibili interpretazioni che il racconto può risvegliare. Ne sono sorpreso io per primo... eppure non c'è un filo di intenzione. Ho scritto semplicemente guidato dalla visione di un vasto, interminabile parcheggio, dove gli angoli bui nascondono ulteriori passaggi e ulteriori possibilità come inattesi, anonimi e insondabili pericoli.
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