2.12.20

Dopo lunga attesa…


Buongiorno a tutti i superstiti, ovvero tutti coloro che sono passati più volte di qui nella speranza che il Nostro si decidesse a scrivere qualcosa di nuovo. Bene, è accaduto.

«Ma in fondo alla tua età di cosa vuoi parlare? Cosa vuoi che ti sia capitato? Nulla o giù di lì.»

In realtà di cose me ne sono accadute tante, alcune delle quali tutt’altro che positive – ho scoperto di avere il diabete e, oltre a questo, devo farmi operare all’aorta addominale – ma anche qualcuna positiva, come il dato di fatto che la mia Silvia ha finalmente ottenuto un successo – ovviamente relativo, trattandosi di fantascienza italica – con la curatela insieme a M.Caterina Mortillaro dell’antologia “Divergender”, la pubblicazione di un fenomenale racconto come Zero e la partecipazione all’antologia “Assalto al Sole”. E altre cose stanno bollendo in pentola, ma delle quali parlerò in seguito.

Per quanto mi riguarda posso enumerare l’uscita di ALIA Evo 4.0, antologia nata tardi ma comunque viva e vitale, con la partecipazione straordinaria di Sergio Gaut Vel Hartman, autore argentino di antica data e lunga carriera, e altri 14 racconti dei soliti noti, tutti al loro massimo. È anche uscita una recensione di Romina Braggion che segnalo volentieri (anche se del mio racconto non se ne parla né punto né poco, ma pazienza) e che potete leggere qui

 

 

Oltre a questo segnalo l’uscita dell’antologia Mondi paralleli [Delos Ed.], il meglio della fantascienza italiana indipen-dente del 2019, che ospita un mio racconto, «Un rifugio a Baba Yaga», testo uscito in origine su ALIA 3 (2007), ripreso in Isole nella Corrente (2019). antologia pubblicata nella collana ALIA Arcipelago e infine ripescato dal buon Carmine Treanni per la sua antologia. Non parlerò di altre cose alle quali ho lavorato o sto lavorando e vengo a ciò che intendo fare in questo post: parlare di libri letti.

Qualcuno ricorderà la mia abitudine di impilare i libri da recensire sulla scrivania e di come ero costretto a fare una rapida serie di rece per liberare parte della scrivania, bene, ora sono stato costretto a fare un po’ di posto sullo scaffale vicino per sistemarvi (in qualche modo) i libri non recensiti. Alcuni li ho anche presentati su LN-LibriNuovi ma per la maggior parte sono rimasti a prendere polvere su uno scaffale in attesa di una possibile rivincita.

Non garantisco di recensirli tutti, né che le mie presentazioni saranno utili a qualcuno, ma non sopporto più di vederli acquattati a coprire i libri alle loro spalle, con un atteggiamento generale di immusonita tristezza. 

 

 

Il primo della serie, scelto per le dimensioni tutt’altro che modeste è L’assassinio del commendatore, di Murakami Haruki [Einaudi], corposo romanzo in due volumi. «Commendatore» è una parola che non ha praticamente traduzione in giapponese, come Murakami ci fa sapere, e il protagonista deve tradurlo in qualche modo, utilizzando una forma cortese risalente al medioevo nipponico. Il commendatore del titolo è la persona trucidata in duello da Don Giovanni nel corso della vicenda narrata da Da Ponte e musicata da Mozart e che appare in un quadro ritrovato dal protagonista nel sottotetto della casa appartenuta a un grande pittore giapponese: Amada Tokohito. Curioso che Amada abbia impacchettato il quadro senza averlo distrutto, ma facendo in modo che nessuno potesse ritrovarlo, curioso e inspiegabile come il fatto che il grande pittore dopo un periodo nel quale di era dedicato alla pittura moderna, dopo il ritorno da Vienna si sia interamente rivolto al Nihongo la pittura tradizionale nipponica. Ma è solo il primo dei misteri che dovrà affrontare il protagonista dei due volumi e narratore in prima persona – mai citato con nome e cognome, a ribadire il legame profondo tra l’autore e il suo personaggio.

Tra i personaggi appare un certo Menshiki (il cui nome significa «colori scomparsi», e che richiama inevitabilmente alla mente «L’incolore Tazaki Tsukuru» del romanzo precedente) un vicino ricchissimo e che ama vivere appartato, che sarà il testimone del mistero che gradualmente avvolge il protagonista e la sua strana casa. Il flebile suono di una campanella che suona nel folto del bosco è il primo elemento che lo spingerà a indagare sulla vita di Amada e sulla rottura che lo spinse ad abbandonare Vienna e la pittura moderna, giungendo a dipingere il quadro, carico di insensata ed esibita violenza e di un mistero inspiegabile.

Il commendatore e la sua morte sono il vero centro della narrazione, il piccolo commendatore – letteralmente “estratto” dal quadro e che soltanto il protagonista riesce a vedere e a parlargli mentre vive nella sua casa – costituisce un contrasto paradossale con l’esagerata violenza della scena alla quale appartiene ed è il viatico al mondo sospeso tra la realtà e il sogno nel quale sono ambientate le vicende narrate.

La sensazione del lettore, al di là della viva simpatia per Murakami, è di avere a che fare con un romanzo indeciso fino allo sfinimento, un ricco dono nascosto da un’imbottitura eccessiva e ridondante, un romanzo nel quale l’autore non riesce – o non vuole – decidere tra il reale e il fantastico, facendo del suo abituale esercizio di equilibrio una pericolosa esibizione sulla corda. Il libro si lascia leggere volentieri, intendiamoci, ma lascia comunque la sensazione di molte idee spese – dal protagonista capace di comporre ritratti nel quale coglie le caratteristiche essenziali dell’io del modello, fino all’imperturbabile Menshiki, individuo fin troppo misterioso – senza giungere a un climax definito e a una risoluzione precisa. Si leggono le 850 pagine de L’assassinio del commendatore senza riuscire a individuare un filo rosso che unisca i diversi elementi via via narrati. In sostanza è la presenza del protagonista/autore a fungere da collante e a rendere il tutto non solo digeribile ma anche gradevole, fermo restando la netta sensazione che manchi “qualcosa” e che, volendo, il romanzo avrebbe anche potuto raggiungere le 10.000 pagine senza che l’autore riuscisse a vincere la sua ambiguità e trovare una nota risolutiva. Ciò detto, penso che comprerò e leggerò anche il prossimo libro di Murakami Haruki.

 

Molti anni separano L’assassinio del commendatore da Vento e Flipper, sempre di Haruki Murakami, pubblicato da Einaudi nel 2016 ma la cui edizione originale risale al 1979/1980. Si tratta in sostanza dei primi due romanzi brevi scritti da Murakami «mentre gestisce il suo jazz bar a Tôkiô» e che, peraltro, per volontà dell’autore, non sono mai usciti dal Giappone nei primi anni. Due romanzi brevi, si diceva, lo stesso protagonista – anonimo – e diversi personaggi giovani che discutono e meditano sulla vita, tra questo «il Sorcio», giovane forse più annoiato che disperato. Ciò che avviene nei due romanzi, evidentemente connessi tra loro, non ha molto di spettacolare: storie d’amore inconcluse, incomprensioni, perdite di innocenza, la ricerca di un flipper leggendario e un protagonista che assiste a quanto gli accade intorno con un trasparente desiderio di fuggire di lì, cosa che inevitabilmente farà. Di piacevole c’è il modo di narrare, tanto evidentemente minimale da richiamare alla mente Raymond Carver – Murakami ne è stato il traduttore – e in grado di evocare con poche parole il «colore» di una vita. Non voglio raccomandarne l’acquisto ma diciamo che se vi capita di leggerlo non sarà stato tempo sprecato.

 

Una volta terminato lo spazio – forse eccessivo – dedicato ad Haruki Murakami, per restare nel campo del fantastico, passerò a Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria, ripubblicato da Frassinelli nel 2018 dopo una prima pubblicazione nel 1977 da parte de Il Formichiere che fu sostanzialmente ignorata. Giorgio De Maria non era esattamente un carneade, avendo scritto altri tre romanzi pubblicati da Mondadori, essendo stato un critico teatrale per l’Unità, un commediografo, uno sceneggiatore per la RAI e un membro del gruppo Le Cantacronache, insieme, tra gli altri, a Italo Calvino. Il motivo per il fiasco della prima edizione de Le venti giornate va probabilmente cercato da un lato dell’insufficiente distribuzione dell’editore a suo tempo scelto che – lo so per esperienza personale – faticava a essere presente nelle librerie, dall’altro nel modo molto peculiare di affrontare il tema della narrazione scelto da De Maria.

Di ciò che è accaduto durante le Venti giornate è possibile apprenderne soltanto per frammenti, per accenni, per obliqui riferimenti, ovvero per quanto il protagonista riesce a ricostruire sulla base dei racconti narratigli da diversi personaggi: la sorella di uno dei morti in maniera misteriosa, un avvocato che morirà in circostanze enigmatiche, un altro avvocato che sembra fornirgli qualche elemento che spiega la persistenza del clima malato della città, uno sconosciuto con il quale avrà un curioso rapporto epistolare. Nel corso delle sue indagini emerge ben presto un’entità, la Biblioteca, aperta presso La Divina Casa della Divina Provvidenza – nota a Torino come il Cottolengo – una sorta di social network in netto anticipo sui tempi, dove ognuno è chiamato a scrivere di se stesso, nell’assurda speranza che qualcuno legga i suoi testi. E procedendo nella lettura ci si rende conto che ciò che è avvenuto – qualunque sia l’orrore avvenuto pochi mesi prima – può accadere di nuovo e che Torino non può che essere il Luogo nel quale tutto succederà ancora.

Un piccolo testo che sembra voler ricapitolare in forma di riferimento il fantastico del XX secolo, da Kafka a Borges, a Hope Hodgson, a H.P.Lovecraft, a Landolfi tutti citati con rapidi e celati riferimenti, fino alla chiusa del romanzo che sposta l’intero testo su un terreno ultraterreno, quasi a confermarci che dalle «venti giornate» non esiste salvezza.

Ho letto il libro per ben tre volte, ogni volta stupito dalla sua capacità di affascinare senza cedere ad alcuna osservazione razionale. Oltre a questo, dal momento che ogni giorno mi muovo nella metropoli raccontata da De Maria, in Corso Stati Uniti, in via Vincenzo Vela, in piazza Solferino, in via Castelfidardo (nella sua antica disposizione, ora obliterata dal passaggio di un grande viale che attraversa gran parte della città) è praticamente inevitabile portare con me le immagini sbiadite ma vagamente terrificanti dell’orrore che ha posseduto la città, una città che «non è la Torino inoffensiva e po’ da cartolina fané […] ma la città [dove] i demoni covano sotto la cenere» (dalla postfazione di Giovanni Arduino).

Ne consiglio la lettura? Beh, certo, preavvisando però i lettori di non attendersi un romanzo a forte tinte e carico di sangue e di misteri urlati, quanto un breve romanzo (150 pagine, non di più, semmai di meno) in grado di spaventare anche e soprattutto a distanza di giorni.

 

Dal momento che ho parlato di William Hope Hodgson, passo ora a presentare brevemente Acque profonde, il secondo volume dei suoi racconti di mare, apparsi tra il 1912 e il 1914, pubblicati in Italia dalla benemerita Edizioni Hypnos, tradotti da Elena Furlan e con l’ottima curatela di Pietro Guarriello. Aggiungo che Hypnos ha raccolto i racconti di mare in un tre volumi, dei quali due già pubblicati e il terzo in arrivo.

Hodgson nel corso della sua vita scrisse quattro romanzi e un centinaio di racconti e, oltre che scrittore, fu anche marinaio e fotografo. Questo volume raccoglie dieci racconti, tra i quali due capolavori del genere fantastico, «Il relitto» e «La nave di pietra» ai quali aggiungo volentieri «Le campane della Laughing Sally» che non è un testo fantastico in senso stretto ma che a partire da un elemento spettrale di forte presa risale lentamente a spiegazioni assolutamente naturali, un po’ come Il castello dei Carpazi di Jules Verne.

In generale si tratta di buoni o ottimi racconti di ambientazione marinara con, come ambientazione preferita, il mar dei Sargassi, presentato come incubo necessario nel quale, come «Nei profondi abissi» può capitare di incontrare un terrificante mostro marino, sul modello in seguito ripreso in grande stile da H.P.Lovecraft. Quanto ai due racconti considerati capolavori del genere, magistrale «Il relitto», una nave abbandonata popolata da una creatura inumana e assassina e potentemente suggestivo «La nave di pietra», con il suo enigmatico antico vascello interamente costruito in pietra.


 

Sempre nell’edizione Hypnos, collana Biblioteca dell’Immaginario, è anche Sub Rosa, tutti i racconti fantastici 3, di Robert Aickman. L’autore è stato attivo nella seconda metà del ‘900 ed è stato un appassionato cultore della ghost story classica, sul modello dei “due James” (Henry e Montague Rhodes) e di Walter De La Mare.

Racconti interessanti, se non altro per la possibilità per chi legge di paragonare un racconto gotico scritto nel corso del XX secolo con i maestri del genere, che hanno generalmente operato alla fine del XIX secolo e nei primi anni del XX. Come se la cava Aitken? Con onore, anche se è inevitabile la sensazione di deja vu nel suo modo di raccontare – in prima persona, con la visione necessariamente limitata tipica del genere – e nelle vicende che corrono sul limite sottile dell’equilibrio tra realtà e sogno.

Comunque particolarmente meritevoli di lettura La stanza interna, dove la scelta inconsueta di un narratore al femminile riesce ad accrescere la drammaticità del racconto, La polvere sospesa, che, a parte la forte suggestione, ha anche il pregio forse involontario di ammantare la tradizionale avita dimora britannica di una quantità non casuale di polvere e Le case dei russi, racconto trasognato e dall’ambientazione non scontata. E l’ambientazione non ortodossa è una delle caratteristiche senz’altro originali dell’autore, un appassionato di viaggi che il curatore dell’antologia, Andrea Vaccaro, presenta così:

«Tutti viaggi letterari in Sub Rosa sono riflesso di altrettanti viaggi dell’autore: il paese di Unilinna descritto in Le case dei russi si basa sulla cittadina finlandese di Savonlinna […] l’inquietante paese di Nel bosco fa riferimento alla cittadina svedese di Östersund, e la vicenda descritta ne I ciceroni riprende minuziosamente una visita alla cattedrale belga di Antwerp dello stesso Aickman.»

Quanto infine alla femme fatale presente nel racconto Mai dimenticare Venezia risulta parte del fascino fatale della città lagunare, che l’autore non può che raccontare con accenti decadenti e con una passione febbricitante che risulta sin troppo caricata, preannunciandone con largo anticipo lo scioglimento. Ciò detto un’antologia che non guasta per un appassionato di gotico. 

 

Ultima, per questo giro, l’antologia pubblicata da Frassinelli nel 2019 e che raccoglie otto racconti di Ted Chiang, Respiro, titolo di uno dei racconti. Premetto che alcuni dei racconti qui pubblicati (Il ciclo di vita degli oggetti-software, pubblicato da Delos nel 2011, Cosa ci si aspetta da noi, pubblicato da CS_libri in ALIA Anglostorie nel 2008, per la traduzione di Davide Mana) sono già apparsi in Italia ma con una distribuzione (ahimé) insufficiente e/o limitata al pubblico abituale della sf. La presenza in questa antologia costituisce per molti lettori il primo modo – o il secondo dopo Storia della tua vita – per conoscere Chiang.

Il racconto che apre l’antologia, Il mercante e il portale dell’alchimista, affronta un tema abituale per la sf e per il paradosso dei viaggi nel tempo, ovvero se è possibile, modificando il passato, che tale cambiamento possa cambiare la realtà contemporanea. Chiang affronta il tema a suo modo, ambientando la narrazione nell’Arabia delle Mille e una Notte e dimostrando che cambiare il presente mutando il passato è un’impossibilità pratica e che combattere per farlo è un incubo senza uscita.

Respiro è un delicato gioiello. Raccontato con il consueto distacco trasognato tipico di Chiang, narra della scoperta da parte di un appartenente a una specie altamente civilizzata della fine imminente della sua gente, condannata dal lento crescere dell’entropia negativa. Il fatto che sia il respiro l’elemento fondamentale della loro sopravvivenza e della loro fine è un dato che riesce a rendere ancor più raffinatamente struggente il racconto. Cosa ci si aspetta da noi è un racconto brevissimo che affronta il tema del libero arbitrio, con conclusioni disperanti, mentre Il brevetto della Tata Automatica di Dacey è una storia dell’incontro tra intelligenza umana e macchine, con esiti comicamente drammatici (o drammaticamente comici). Il ciclo di vita degli oggetti software è stato recensito qui,  e mi sembra poco serio ri-recensirlo. Omphalos e Il grande silenzio sono due ottimi racconti, il primo incentrato sul «tradimento» perpetrato dall’Altissimo nei confronti del genere umano e lo stupore disperato di chi ha davvero creduto il Lui, il secondo sull’esistenza di una seconda razza intelligente sul nostro pianeta, condannata all’estinzione per semplice «distrazione» della nostra specie. La verità del fatto, la verità della sensazione è basato su un tema a ben pensarci diabolico: l’impossibilità di dimenticare mentre L’angoscia è la vertigine della libertà parte dalla possibilità di vivere “in differita” la vita di un altro sé in una Terra alternativa, con i confronti, le delusioni e le speranze nate da questa facoltà. Un racconto forse un po’ dispersivo, soprattutto in rapporto alla consueta stringata asciuttezza di Chiang, anche se comunque meritevole di lettura.

Ted Chiang non è uno scrittore che racconta di un futuro più o meno lontano e più o meno verosimile – anche se non vi è assolutamente nulla di sbagliato, riprovevole o volgare in questo – quanto piuttosto un autore che sceglie di occuparsi di temi non facili, come tutti quelli che riguardano profondamente il nostro essere-nel-mondo, temi come la fede, la comunicazione, le emozioni, la solitudine, la comprensione, il ricordo, l’ansia per il futuro o la sua accettazione, il rimorso, il dolore. Uno scrittore impossibile da incasellare in un ben preciso genere, il che, lasciatemelo dire, è una rara e felice facoltà.

Ciò detto saluto i coraggiosi che hanno letto per intero questo lunghissimo post e gli prometto che tornerò presto. Ho ancora nove-libri-nove da recensire...

 


 



4 commenti:

Orlando Furioso ha detto...

Ciao, bentornato!
Ho letto tutto quanto e devo ammettere che il libro di De Maria mi attira un po'.
Lo sento "adatto" a me, che detesto Torino (sorry... sì, mi rendo conto, ma non posso farci niente, almeno fino alla pensione: se ci arrivo - alla pensione - la prima cosa che farò sarà lasciare per sempre questa città).
Congratulazione a Silvia!
Un caro saluto

Massimo Citi ha detto...

Ciao Orlando, mi fa molto piacere ritrovarti qui. Sono qui non so per quanto tempo, ma d'altro canto non potevo trascurare il mio blog per sempre. In quanto ad amare Torino, ho sentimenti bivalenti, a volte la amo profondamente, talvolta vorrei essere molto lontano da qui. Diciamo che il libro di De Maria riesce a interpretarli entrambi. Un grosso abbraccio anche da Silvia.

Nick Parisi. ha detto...

Ciao Max! Sempre bello tornare a leggerti. Sono felice per la tua pubblicazione e quella di Silvia. E' bello vedere che la qualità viene riconosciuta.
Un abbraccio.

Massimo Citi ha detto...

@Nick: grazie per le tue osservazioni: in realtà siamo abituati a lavorare senza guardarci troppo intorno e un riconoscimento ci lusinga ma ci lascia stupiti.
Quanto al blog sono tornato e penso di rimanere, anche se non troppo spesso. In ogni caso questo blog non morità. WoW!