Questa
serie di articoli è a suo tempo uscita su LN-LibriNuovi in forma di
«Memorie Anticipate di un Librivendolo (libraio) Pre-global»,
M.A.d.u.L.P.. in breve.
Un
incontro con uno dei miei pochi lettori – sia pure un lettore
particolare, attualmente direttore di un testata di recensioni on
line – mi ha ricordato la sua esistenza e la necessità di ritirare
fuori l'insieme degli articoli. «Magari potresti persino farne un
e-book», ha suggerito il buon Enzo, «e venderlo, che so, a un euro
o due euro e 99».
Sulle
prospettive di farne un libro non mi pronuncio. Ne riparleremo,
semmai, una volta vista l'accoglienza dei lettori. Quanto
all'aggiornamento degli articoli, beh, la situazione è largamente
cambiata ma non pochi aspetti sono rimasti gli stessi, quanto basta
per non gettare via tutto. Quanto infine al titolo, la situazione è
parecchio cambiata e adesso non posso certo parlare di «memorie
anticipate», anche se, da un certo punto di vista tali sono. Si
tratta di un futuro anteriore, ovvero di un futuro immaginato in un
punto indefinito del passato e messo a confronto il presente reale.
Qualcosa di sottilmente malinconico, ideale per un daimyo decaduto a
rônin. Rimarranno tali, dunque.
Le
memorie usciranno con cadenza settimanale, di venerdì o di sabato. La rubrica
occupò l'ultima parte della rivista per 14 numeri, dal 27 –
settembre 2003 – fino al 40 – dicembre 2006. Diciamo che per 14
settimane posso dare ai miei gentili lettori qualcosa da masticare.
Come
si diventa librai?
Già,
come. Il perché non è necessario. Basta riprovare a ogni ingresso
in libreria l’antica sensazione che da bambini dava l’attesa
della mattina di Natale – la sensazione che qualcosa di bellissimo,
non si ancora che cosa né come sta per accadere –, per aver
afferrato il perché.
In
realtà qualsiasi lettore feticista, esagerato e fanatico è un
possibile libraio. Il desiderio di possedere libri – molti libri,
vari libri, troppi libri – è la parte libidinale dell’essere
librai, o meglio, librivendoli.
Ma
su questo torneremo.
La
domanda, però, era un’altra: «Come si diventa librai?»
Mah?
Non lo so. Ma sospetto che il sistema migliore e più tranquillo non
sia quello che ho vissuto (vissuto, non scelto) io.
Ho
iniziato per caso, seguendo l’istinto e un’occasione che non ho
ancora stabilito se considerare tale. No, non è falsa modestia.
Nella vita riconoscere le occasioni è tutto, ho letto da qualche
parte. Ma questa è una di quelle frasi che si pensano e si scrivono
da ben sistemati per ammaestrare le giovani generazioni, frasi che
implicano lo sviluppo lineare di qualcosa, un successo maturato
attraverso un accorto mix tra fiuto, intelligenza e quel minimo di
spregiudicatezza. E che infatti trovano il giusto risalto in vere
memorie. Ma queste sono M.A. (memorie anticipate) e quindi…
Comunque,
ho cominciato e dopo qualche anno ho sentito la necessità di
iscrivermi anch’io alla Scuola Librai «Umberto ed Elisabetta
Mauri». Era giugno, anche se non un giugno assassino come quelli del
nuovo millennio. Ma comunque un giugno caldo. Si stava chiusi in
un’auletta, sul banco un cartellino con il proprio nome e quello
della società. «Company», veniva da pensare. A essere senza giacca
e cravatta e senza tailleur eravamo in due. A essere non troppo ben
pettinati, non troppo executive, non troppo qualsiasi cosa, sempre in
due. C’erano anche alcuni librai cooperatori milanesi (come il
sottoscritto, peraltro, cooperatore anche se non milanese), ma il
loro essere senza giacca-e-cravatta era troppo programmatico, troppo
attentamente cercato per essere genuino.
Per
il resto sembrava di essere alla Bocconi. E anche gli argomenti non
erano troppo diversi. Si faceva uso di inglese e di matematica mentre
gli allievi librai progettavano osservazioni calcolatamente acute e
acquiescenti. Le «dimensioni dello stock» e «l’indice di
rotazione» erano il Verbo, l’Alfa e l’Omega del lavoro di
libraio. Scoprii ciò che avevo già subodorato: l’amore per il
libro doveva vestire il cilicio dei costi finanziari. E la sorte del
Libro fu detta non una sola volta ma tante, a scolpirlo
definitivamente nella testa degli allievi. Fui sorpreso dalla
mancanza di reazioni, dall’assoluta identificazione con i Massimi
Sistemi dell’economia di gestione. Intuii il senso di tante
giacche-e-cravatte. Ero e sono io a essere un povero illuso da
fumetto. Ciò che sono tuttora.
Io
e un altro quasi-libraio di Milano, della libreria Hoepli, l’altro
non cravattopendulo, un po’ facevamo la fronda alla tripla I in
anticipo sui tempi. Sorridevamo, sogghignavamo ma quando incontravamo
lo sguardo del prof ritornavamo serissimi. Mangiammo leggermente e
bevemmo executivamente. Questo genere di comodità non si adattava
alla nostra nuova pelle di super-librai. E poi i pasti erano compresi
nel costo del corso. Al tavolo ci trovammo curiosamente con il prof,
persona squisita e realmente interessante. A riprova che gli epigoni
sono sempre peggiori dei precursori.
Mi
rileggo. Non vorrei aver dato una sensazione sbagliata. Non ho nulla
contro l’economia di gestione, l’indice di rotazione, il calcolo
dei costi. Convivo tuttora, in pratica quotidianamente, con questi
elegantissimi e affascinanti modelli matematici. Modelli, però. A
volerli considerare realtà rivelate, cioè qualcosa di diverso dalle
ombre che sfilano sul fondo della caverna platoniana si rischiano
disastri. Che genere di disastri? Il costo del personale, per dire. È
una voce, una semplice riga. Più di una riga, in realtà, visto che
nel personale rientrano anche i contributi, l’accantonamento TFR
eccetera. Bene, caricate i dati del vostro bilancio su un foglio
elettronico. Calibrate opportunamente le interazioni tra le celle.
Poi lanciatevi a simulare. «Via 10.000 (o 100.000 o 1 miliardo) dal
personale». Controllate il valore finale del vostro bilancio, a
questo punto. Aumento di utili (o diminuzione delle perdite)
prodigiosi! Talmente prodigiosi che bisogna essere dei bei pifferi
per credere che sia 1) facile, 2) comunque possibile.
Il
mondo va così, però. Ovunque c’è gente davanti a un PC –
laptop o desktop – che macchina qualche facile idiozia per
rappezzare un bilancio. Anche nelle pubblicità. Da qui la necessità
di diffidare delle pubblicità vipparole ed executive.
Ma
prima della Scuola Librai c’è stata la gavetta. Che non è ancora
finita. Che per un settore come questo non è mai finita,
probabilmente. Gavetta vuol dire dover prendere una dozzina di
decisioni al giorno che si rivelano per il 75% inadeguate, basate su
insufficienti informazioni, avventate o semplicemente stupide. Adesso
sono arrivato intorno al 50%. Ma solo perché ho imparato ad
aspettare, lasciando che certe decisioni si prendano da sole.
Immanuel Kant da Königsberg (ora Kaliningrad, tra un po’ forse di
nuovo Königsberg) ha affermato che qualsiasi problema ignorato si
risolve da solo. E ha lasciato intendere che l’esito finale del
processo non è sempre infausto. Io, che ho inserito Kant anche nella
mia domanda per il servizio civile, mi fido ciecamente del filosofo
prussiano. Primo perché prussiano, secondo perché filosofo.
Il
primo problema per chiunque voglia tentare di fare il libraio è la
composizione dello stock, ovvero, detto in un italiano accettabile,
di quali e quanti titoli volete rifornire la vostra libreria. Un
inciso… Anzi, prima piccolo inciso del piccolo inciso: queste
memorie anticipate non procederanno linearmente e cronologicamente.
Perché sono uno smemorato, innanzitutto. Poi perché ho paura che mi
scappino di mente piccole cose interessanti e inerenti. Quindi chi mi
legge abbia l’accortezza di abituarsi agli incisi perché ce ne
saranno parecchi.
Torniamo
all’inciso originale, ora. Recentemente ho conosciuto una simpatica
ragazza che intendeva aprire una libreria. Attraverso comuni
conoscenze ha chiesto il mio parere e un certo numero di consigli.
Sentendomi profondamente inadeguato l’ho incontrata. Le ho dato
qualche suggerimento e svelato qualche trucco piuttosto banale. Una
volta definite dimensioni e caratteristiche della futura libreria e
le dimensioni dello stock, siamo arrivati a cercare di capire come e
quali collane scegliere per iniziare. La mia amica, che chiamerò per
comodità Francesca (non si chiama Francesca, comunque) aveva in
mente una scelta dei titoli da cliente di libreria. Francesca
pensava: «Vado nel magazzino dell’editore XY, prendo un grosso
carrello e…»
«Ah,
vai nel magazzino…»
«Infatti,
scelgo… a me piace Coelho, per esempio, ne prendo 4 copie, e poi mi
piace Hermann Hesse e…»
«I
magazzini sono a Milano. Qui a Torino rimangono solo grossisti».
«Beh,
l’Einaudi…»
«Il
magazzino di Einaudi è a Verona, insieme a quello di tutto il resto
del gruppo Mondadori. Qui a Torino, in via Biancamano potresti giusto
tentare di grattare qualcosa dalla biblioteca personale dei redattori
superstiti».
«Bollati
Boringhieri?»
«Gran
parte del magazzino è in un posto desolato nell’hinterland
milanese insieme a quello di un’altra cinquantina di editori. Per
girarlo tutto più che un carrello ti servirebbe un furgone. Comunque
nemmeno i librai di Milano vanno ai magazzini a scegliersi i titoli.
Usano i cataloghi».
«Capisco.
Vado da un grossista».
«Bene.
E per le novità?»
«Le
novità, già. Beh, vado a sceglierle dal grossista».
I
grossisti hanno criteri assolumente (e giustamente) demagogici nella
scelta dei titoli. Sui tavoli per i librai hanno un assortimento
fatto di titoli che «tirano». In realtà farsi un’idea della
produzione editoriale partendo dai tavoli di un grossista è come
cercare di capire qualcosa della produzione cinematografica mondiale
sulla base della programmazione in prima serata di Rete 4.
«Dovrai
far venire i rappresentanti, se vuoi sapere davvero cosa esce».
«I
rappresentanti?» Il sorriso di Francesca è via via diventato meno
convinto fino a scomparire completamente alla parola
«rappresentanti». Dall’idea della passeggiata tra due
scintillanti pareti di libri alla materializzazione di individui con
grosse borse che cercano di spacciare libri brutti e inutili
estorcendole un assenso per stanchezza e inesperienza, c’è
effettivamente un abisso. Eppure senza rappresentanti – senza
nessun rappresentante – non è molto facile condurre una libreria
che non sia strettamente specializzata. O che non sia una
cartolibreria con 700 tipi diversi di cartoncini d’auguri e un
assortimento in libri fatto da 25 titoli.
«Ma
ci sono i siti internet», gemeva Francesca, «le recensioni su
quotidiani e settimanali».
«Vero.
Ma le novità, il commercio delle novità, è il lubrificante di
tutto il settore».
«Cioè…»
«Gli
italiani leggono troppo poco per mantenere un’industria editoriale
decente. Purtroppo molti italiani sono ignoranti e come tutti gli
ignoranti pensano che la furbizia più dozzinale e un’astuzia
bertoldesca possano sostituire cultura e intelligenza. Prova ne sia
che hanno votato Berlusconi, i geni. Ma questo è un altro discorso.
Fatto sta che il mercato editoriale italiano ha disperatamente
bisogno di fare circolare denaro. Molti editori hanno bisogno di
anticipi per stampare i libri. Devono produrre novità che le
librerie comprino. Le librerie pagano a 60 giorni, le rese
dell’invenduto arrivano dopo 180 giorni e così gli editori hanno
per un po’ i soldi per poter produrre altre novità. E così via,
finché dura. Che tu, cara Francesca, ordini i tuoi libri sulla base
di recensioni o segnalazioni non serve. Non solo: esiste la
possibilità che tu i libri non riesca proprio a trovarli. Le
tirature, infatti, almeno per gli editori di maggiori dimensioni,
sono basate sulle prenotazioni fatte ai rappresentanti».
«…»
«Quindi,
se vuoi mantenere in piedi una libreria devi rassegnarti alla
presenza dei rappresentanti. Diffidare di tutto quello che dicono,
diffidare delle schede scritte che l’editore ha affidato loro,
diffidare di campagne, condizioni di acquisto mirabolanti, pagamenti
a babbo morto, grandi campagne di stampa, presenza su giornali,
radio, TV…»
«…
Ma, cosa resta?»
«Eh?
Nulla, o almeno ben poco. Cioè no, restano i libri. I libri restano.
In tutti i sensi possibili».
Francesca
ha aperto la sua libreria. Ha incontrato alcuni rappresentanti e, che
io sappia, è viva e vegeta. Non so se sia felice o perseguitata,
come capita a me, dalla pila di invenduti che troneggia in mezzo alla
libreria e che nessun lettore prende in considerazione, nonostante le
rassicurazioni del venditore di turno, al quale ho, nonostante tutto,
creduto… Se potessi mangiare un’idea / avrei fatto la mia /
rivoluzione…
Qui
finisce la prima puntata di queste memorie. Proviamo a fare come nei
romanzi d’appendice e anticipiamo la prossima puntata:
«
Vita quotidiana di un libraio residuale, I best-seller e i chiodi, il
blitz e la resa, l’instant-book e la campagna sui tascabili, guerra
con lo sconto e guerra allo sconto, riflessioni in margine a un bel
libro invenduto davanti a una scatola di cartone»
Resta
naturalmente inteso che non mi sento minimamente vincolato a
quest’anticipazione.
4 commenti:
Io anni fa volevo aprire una mia libreria, poi mi sono trovato davanti alle stesse obiezioni che ha subito la povera Francesca...il resto purtroppo "non è stata storia".
@Nick: comunque hai fatto bene. Questo è (era) un lavoro dove devi essere fuori come un balcone per farlo. Si guadagna poco e, in compenso, ci sono i momenti in cui devi "ricapitalizzare" che, tradotto in italiano, significa "cacciare i soldi" per coprire le perdite. Chi ti ha consigliato ha fatto bene, davvero.
Le «dimensioni dello stock» e «l’indice di rotazione»?! Benissimo. Ho appena scoperto che avere un diploma tecnico commerciale potrebbe tornarmi utile se decidessi di aprire una libreria! Scherzi a parte, le logiche di mercato sono importanti, ma senza passione tutto diventa vano, secondo me. Bisogna sempre fare i conti con il denaro, le risorse, gli utili... è inevitabile, ma quando tutto si riduce a quello ogni lavoro diventa uguale all'altro e non può rendere davvero felici e realizzati. Sono un'illusa? Una sognatrice? Certo che sì, ma il mondo, nonostante tutto, non è ancora riuscito a convincermi che sia un male. In futuro si vedrà.
@Romina T: sembra paradossale ma non è troppo diverso dalle "buone norme per scrivere", che debbono sì essere apprese, ma che non sono un viatico al capolavoro. Rendersene conto è essenziale, anche perché un mondo che funziona a base di norme rigidissime è un mondo semplicemente orrendo. Come per molti negozi di musica (ma prima ancora per gli spazzacamine, i palafrenieri e i piloti di dirigibili) la fine della mia libreria è stata determinata dal mutamento del quadro di riferimento. Ma se avessi seguito ciecamente l'IdR o le DdS oltre che chiudere ugualmente non mi sarei nemmeno divertito : )
Posta un commento