18.10.12

Cinnamomo


Un racconto datato 1993, cioé quasi vent'anni fa.
Scritto quasi per scherzo, come una sfida a imitare i maestri del gotico, «citando» l'ambientazione cara a M.R.James, Arthur Machen o R.L.Stevenson. Quindi la Gran Bretagna della fine del XIX secolo, quindi un avvocato, un praticante, un ufficiale reduce dall'India, un pastore e una giovane popolana. E un fantasma, naturalmente. Non ho potuto dimenticare, tuttavia, né i miei tempi né il mio temperamento né un certo - per me inatteso - gusto romantico. Così la mia storia è sì perfettamente «regolare», tanto da poter forse piacere persino a un fan del gotico come Franco Pezzini, ma con una chiusa imprevedibile. 
Buona lettura a tutti. 
... 


Non era un bel giovane Earnest Beagle. Esile, i capelli rosso irlandese, il mento sporgente, la statura inferiore alla media ed il portamento incerto, quasi timoroso.
Era dicembre e Natale non era lontano, ma per lui, ultimo e non certo il più amato di sei tra fratelli e sorelle nati da un modesto impiegato e da una cameriera, quella lieta ricorrenza non significava nulla di più che un giorno sottratto al suo affannoso impegno per emergere infine nel mondo delle Professioni.
Procedeva rapido per la via cercando di tenersi lontano dai possibili urti della gente affaccendata, stringendo sotto il braccio la cartella di vitello consumata sui bordi e lanciando di tanto in tanto uno sguardo preoccupato alle rare automobili ed alle carrozze che passavano veloci sollevando schizzi di fango .
- Ah, Earnest, entra, entra. - Disse l'avvocato Fitzwater, riconoscendone i tratti dietro il vetro smerigliato della porta, dove a grandi lettere dorate era scritto:

"Studio Legale Fitzwater & Pringle"

- Buongiorno, buongiorno, avvocato Fitzwater.
Conosceva il titolare anziano dello studio legale ormai da tre anni, cioé da quando era entrato come praticante della severa disciplina legale, ma ancora esitava, si emozionava davanti alle membra massicce dell'avvocato, ai suoi favoriti colore dell'acciaio, alla voce resa rauca dal tabacco, finendo col ripetere le stesse parole più volte, come un inconscio scongiuro.
«È un bravo giovine, quell'Earnest. Peccato che in quella sua testa da fiammifero non entrerà mai una sola riga di diritto», aveva detto una volta al Club l'avvocato Pringle, un uomo basso e calvo, sempre impeccabilmente vestito di grigio, tanto apparentemente sereno quanto freddamente caparbio ed aggressivo. La battuta era stata accolta come sempre dai risolini compiaciuti dei presenti, molti dei quali, una volta giunti a casa, si erano chiesti quali perfidie ai loro danni stava in quel momento sibilando il caro, vecchio Pringle.
- Ho portato i documenti del processo contro Galverston. - Annunciò il giovane Earnest, quasi a giustificare il suo arrivo.
L'avvocato Fitzwater annuì con un gesto poderoso del capo. - Vede Colonnello James, di uomini come il nostro Beagle ha bisogno la Madrepatria... Per Dio, non solo ufficiali, più abituati all'esercizio della caccia che alle fatiche della guerra! Trovo riprovevole che i soldati della Regina debbano segnare il passo davanti a pochi contadini male armati.
- Hanno armi germaniche. - Si limitò a controbattere il colonnello, impegnato nella difficile operazione dell'accensione della pipa. - E poi i Boeri sono cocciuti, rabbiosi, attaccati alle loro zolle come vecchie talpe. Per il resto i nostri soldati si battono con il consueto valore e non tarderanno a vincere. E Kitchener è uno che sa il fatto suo.
- Kitchener è un macellaio, caro colonnello, e soprattutto è un maledettissimo Irlandese.
- È la persona giusta al posto giusto, vedrà che entro l'anno prossimo entrerà a Pretoria. - Senza lasciare all'avvocato il tempo di ribattere, in una discussione che sembrava premergli assai poco, l'ufficiale puntò il cannello della pipa verso Earnest. - Giovanotto, devo chiedervi un favore, con il vostro permesso, s'intende, Fitzwater.
- Consideratelo concesso, colonnello.
- Bene. Si tratta di questo: io possiedo un piccolo appezzamento poco fuori Londra, un lascito di un mio zio pastore.
- Sì signore. - Earnest strinse più volte gli occhi, ancora stordito dalla subitanea svolta della conversazione, fino ad un attimo prima assolutamente ininfluente per il suo destino.
- Si tratta di un vecchio presbiterio. Credo sia antico, del dodicesimo o tredicesimo secolo, costruito anche prima della vecchia cappella. Mio zio è morto piuttosto anziano, tuttavia godeva piena salute fino a pochi mesi prima della scomparsa. In quegli ultimi mesi ho ricevuto da lui lettere che non so se definire più bizzarre o più assurde. Ve le mostrerò, se lo desiderate. Nell'ultima mi è parso di ravvisare, ma solo ad una seconda lettura più attenta, toni di profonda disperazione e forse persino di terrore. In quanto alle circostanze della sua morte... - Il colonnello esitò a lungo prima di proseguire.- Ecco, è molto imbarazzante a dirsi, ma è stato ritrovato annegato nel piccolo abbeveratoio delle pecore, morto in tre dita d'acqua piovana. E la cosa ancor più incomprensibile è che stringeva in mano un frammento di un crocefisso, il braccio inferiore ed i due bracci laterali. Qualcuno, non posso credere sia stato lui, aveva accuratamente segato - che il cielo ci aiuti - la testa del Salvatore, che è stata ritrovata in un cassetto solo qualche giorno dopo.
- Veramente una situazione bizzarra, ma può essersi trattato di un semplice malore. - Osservò l'avvocato Fitzwater. - Un momentaneo accesso di follia dovuto ad una morte dolorosa.
- È quello che ho creduto, ma rimangono le lettere, e vi posso assicurare che il loro testo getta una luce maligna su tutta la vicenda. Mio zio ha sempre tenuto onorevolmente la propria missione, era uomo mite, poco avvezzo ai voli di fantasia, e per quanto piccolo fosse il suo gregge egli ne era in tutto e per tutto il miglior rappresentante presso la divinità. Tanto più stupefacenti ho quindi trovato le osservazioni e considerazioni che andava scrivendomi.
- Ma di cosa si tratta infine? Non potete stuzzicarci così senza darci nulla da mordere. - L'avvocato Fitzwater, calatosi nella grande poltrona di pelle, si era versato una discreta dose di whisky con acqua e fissava il colonnello senza nascondere l'emozione innocente che l'aveva preso.
James non sembrava accorgersene. Parlava con voce il più possibile piana e calma, a smorzare la drammaticità degli eventi.
- Le sue ultime lettere avevano strane date, sì, proprio date ed era sparito ogni riferimento o formula relative alla nascita del Signore. Non sembra gran cosa, certo, un ghiribizzo, un capriccio da anziano, ma mio zio non era persona da simili giochetti. - Il colonnello James si schiarì la voce e staccò dalle labbra la pipa divenuta rovente. - E poi vi sono altre... cose. Non nego una certa difficoltà a parlarvene, ma affrontare certi argomenti alla luce del sole può sembrare anche ridicolo...
- Suvvia colonnello, decidetevi una buona volta a sputare il rospo, e voi sedetevi, Earnest.
Il giovane praticante, rimasto fino a quel momento in piedi accanto alla grande scrivania del titolare dello studio, si affrettò ad annuire ed a installarsi su una delle sedie foderate di marocchino rosso appoggiate al muro.
- Parla di sogni, strani sogni, del Peccato e della collera di Dio. Ma è molto difficile dare un senso al suo racconto, che soprattutto nelle sue ultime lettere diviene confuso, quasi affannoso. Non nego di aver provato un certo smarrimento alla lettura. - Il colonnello guardò nel fornello della pipa debitamente riempito di tabacco, come a chiedersi chi mai l'avesse caricata e con un gesto automatico, quasi involontario, afferrò il bicchiere di whisky che Fitzwater gli aveva posto vicino e lo vuotò d'un sorso.
- Perbacco, questa si può davvero definire sete! - Esclamò ridendo l'avvocato.
L'interpellato si voltò con uno scatto improvviso, gli occhi fissi e sbarrati. Non era certo la prima volta che Earnest incontrava Mr.James nello studio, ma in uno stato così alterato non l'aveva mai veduto. Pur essendo un giovane molto morigerato e, come diceva lo zio Arthur, decisamente con i piedi per terra, fu molto impressionato dallo sguardo intenso, quasi maniacale dell'ufficiale.
- Scusatemi! - Quasi urlò. - Devo proprio andare. L'aspetto domani mattina a casa mia alle nove, Earnest.
Senza aggiungere altro l'ufficiale infilò la porta ad una velocità assolutamente sconveniente e poterono udire ancora per diversi secondi i suoi passi affrettati oltre la soglia e sulle vecchie scale.


L'uomo che lo accolse alla porta in quella silenziosa e fredda mattina domenicale non sembrava aver molto in comune con l'ufficiale che aveva reso visita la sera precedente all'avvocato Fitzwater.
Mr.James era alto, dritto, il volto tuttora giovane, nonostante le sue quaranta e passa primavere. Earnest non poté evitare di soffermare a lungo lo sguardo sulla figura stanca, curva e sul volto pallido dell'uomo che gli stava di fronte.
- Voi non vi sentite bene, colonnello. Forse è meglio che ritorni.
- C'è un altra lettera. - La voce dell'ufficiale sembrava aver percorso la stessa parabola del corpo ed era divenuta flebile, incerta, come se quella notte gli avesse portato in dono almeno due dozzine di anni.
- Un'altra lettera sempre di...
- È stata posta tra altri documenti di scarsa importanza. - Spiegò il colonnello. - Solo ierisera, cercando sollievo in una occupazione purchessia, ho deciso di riordinare le mie carte e l'ho trovata. Ma perché vi faccio attendere sulla porta come un predicatore? Su entrate, venite.
Nella casa dell'ufficiale ogni più piccolo spiraglio di luce era stato soffocato da pesanti tende e solo poche deboli lampade a gas illuminavano i ricchi arredi e gli oggetti giunti dalle Indie, dove il colonnello James aveva prestato servizio per una quindicina d'anni.
- Vi state chiedendo il perché di questo buio, vero? E altrettanto probabilmente siete giunto alla conclusione che il mio povero cervello, perso ormai il lume della ragione, stia andando alla deriva come la nave di Ulisse nell'ultimo viaggio. - Rise, una risata secca come un colpo di pistola, che si spense all'improvviso con una sorta di singhiozzo. - E forse avete ragione...
Senza curarsi di aspettare alcuna risposta Mr.James entrò nel suo studio ed afferrò un foglio appoggiato sullo scrittoio. - Ecco, mr. Beagle, leggete.
Il giovane praticante si pose sul naso i piccoli occhiali da lettura che teneva abitualmente appesi al bavero della giacca con un piccola catenina d'argento e, non poco scosso, si dispose a leggere.

Non ho più tempo. Mai mi è sembrato importante averne, ma ora ho il terrore, un vero, profondissimo terrore di quanto mi attende. La prova che mi è stata imposta volge al termine e non credo di avere la forza di resistere per un'altra notte. Altri non possono immaginare cosa significa vivere sul confine di quella regione buia, la sofferenza che non abbandona mai la mia anima in nessun momento del giorno e della notte, che non ha mai termine né redenzione. Non voglio dirti altro, mio infelice M., anche perché come potrei raccontare il terribile vuoto che si è fatto in me? No, non voglio trascinarti nel mio assurdo, feroce viaggio... Nulla di quanto ho provato deve trapelare, nulla di nulla... Non l'attenderò più. Non sarò, non posso essere perdonato, avrei voluto, ma il braccio di Lui è stato avido... ha dato e ha tolto...Forse non mi addormenterò questa ultima notte, per attenderla, affrontarla. Sono stanco, troppo stanco...

- Non capisco. - Il giovane Earnest piegò con cura la lettera e tornò ad appoggiarla sullo scrittoio, come se tenerla in mano fosse prova troppo gravosa per lui. - Di quale prova parlerà mai? E chi è colui che attende? Voi lo sapete colonnello James?
L'ufficiale scosse il capo. - Fino a ieri non lo sapevo, ma stanotte per la prima volta ho sognato.
Il giovane Beagle lanciò uno sguardo involontario alla lettera ed impallidì. - Vi riferite... - Temo di sì. Un'ombra bianca, gracile. Da lei veniva una penosa sensazione di ebbrezza, una gaiezza insana, folle, tale da suscitare un profondo sgomento, un misto stucchevole e intollerabile di pena e di fastidio. Sapete cosa voglio dire, lo immaginate?
Earnest, preso da un senso di disagio che non riusciva più a controllare completamente, annuì rapidamente.
- NON È VERO! - Urlò il colonnello. - Voi non potete averlo provato, non si può provare in vita una simile sensazione, non potete neppure immaginarlo! Avrei voluto sorreggere, soccorrere quel corpo che si trascinava velato sulla strada, ma un'intensa sensazione di orrore me lo impediva, l'avrei voluto distruggere, schiacciare... Ed insieme una curiosità quasi folle mi spingeva a fissarlo, a cercare di riconoscere i suoi lineamenti velati. Attendevo immobile, al centro di una piazza dove sfociavano alcune vie, fiancheggiate da case abbandonate. Alle mie spalle potevo udire il fischio sonoro del vento e dinanzi a me, la figura avanzava con grande fatica, agitandosi convulsa, come se, cieca, cercasse di toccare, di riconoscere. Capite ora?
- E quindi?
- Ha svoltato o chissà cos'altro. D'un tratto era scomparsa e mi sono svegliato di scatto udendo ancora il fischio del vento, le finestre spalancate e gli scuri aperti.
- Siete probabilmente stato suggestionato dalla lettera di vostro zio. - Earnest fu il primo a stupirsi per la sagacia di quell'osservazione. - Attendete qualche altro giorno, svagatevi, dimenticate. Anche i sogni vi abbandoneranno.
Il colonnello ebbe un bizzarro, improvviso moto del braccio, quasi a misurare uno schiaffo per il suo giovane interlocutore, ma si fermò di scatto, come una statua sorpresa dalle prime luci dell'alba. - Credete? - Dalla sua voce traspariva una tetra ironia che più di ogni percossa colpì il povero Earnest.
- Come posso esservi utile?
Mr.James si scosse. - Volevo chiedervi di alloggiare per qualche tempo presso il presbiterio di mio zio, naturalmente pagato per l'incomodo. Ma ora mi chiedo, dopo il sogno... Sareste disposto?
- Naturalmente. - Rispose Mr. Beagle senza esitare. In quel momento era pronto a qualunque cosa pur di sottrarsi a quell'intollerabile colloquio.


Solo più tardi, mentre preparava una piccola valigia con pochi effetti personali, Earnest si trovò ad almanaccare sui motivi di quella bizzarra richiesta. Aveva troppa familiarità di se stesso per non sapere di essere dotato di assai poca fantasia ed ancor minore acume. Era proprio la coscienza della limitatezza delle proprie facoltà ad indurlo ad un atteggiamento misurato e calmo e talvolta, sciaguratamente, a prendere per oro colato tutto quanto veniva affermato con sicurezza da quanti stavano sopra di lui nella scala sociale. Il colonnello era stato quantomeno vago sui motivi della sua spedizione, ma incresciosi incubi a parte, nel corso della giornata Earnest aveva finito col convincersi che la cosa si sarebbe risolta in una tranquilla parentesi di ozio in un luogo che certo non mancava di suggestione.
E ancora animato da questa convinzione prese posto sul convoglio ferroviario diretto verso Manchester, per trasferirsi poi su una carrozza che lo lasciò ad un bivio ad un'ora imprecisata del pomeriggio.
- Deve proseguire per mezzo miglio, la riconoscerà subito. -
Ringraziò il vetturino dal forte accento gallese e stringendo la piccola borsa che aveva portato con sè si inoltrò nel viottolo. Ben presto si rese conto che le recenti, abbondanti piogge avevano reso il percorso assai meno agevole del previsto, facendo impallidire ed infine svanire la prospettiva di una salutare passeggiata nella campagna autunnale.
Le sue scarpe cittadine non erano fatte per affrontare tali disagi e ben presto si arresero all'acqua ed al fango, tanto da lasciarlo virtualmente scalzo. Oltre a questo il paesaggio non sprigionava il tipo di suggestione che si attendeva: le terre di quei dintorni erano grigie e sabbiose e vi prosperavano solo sterpaglie grigie e spinose e canne molto alte, che chiudevano frequentemente la vista.
Il presbiterio comparve all'improvviso, appena superata un'ampia curva che circondava un piccolo stagno dalle acque scure e limacciose. La luce solare, invisibile dietro uno schermo di nubi alte, era prossima ormai al termine quotidiano del suo corso e la piccola costruzione a due piani, appoggiata al grande muro cieco della cappella, sembrava abbandonata da molto tempo.
Cercando di resistere alla violenta sensazione di disagio che l'aveva improvvisamente colto, il giovane estrasse dalla borsa la chiave affidatagli dal colonnello e superò la soglia.
Nell'interno stagnava un'aria pesante, che sapeva di muffa e polvere, con un sentore appena percepibile di cibo rancido. Brancolando nella poca luce proveniente dalla finestra aperta Earnest trovò un lume a petrolio su un tavolo dal pesante piano di marmo e l'accese. La luce della fiamma traspariva a fatica dal vetro reso scuro dalla fuliggine, illuminando un lavatoio di pietra, due sedie impagliate, una piattiera spoglia e pochi altri mobili, malinconici nel loro abbandono.
Posò la lampada sulla cornice del caminetto e, dopo aver stabilito che non meritava aprire gli scuri, posò la sua borsa sul tavolo, deciso per prima cosa ad accendere il fuoco.
La legna era umida e l'operazione gli costò non poca fatica. Al calore del focherello stento e pallido tolse le sue povere scarpe e constatò tristemente i danni sofferti. Non aveva ancora esplorato il resto della casa ma l'esigenza di procurarsi calzature asciutte lo indusse ad affrontare la scala che conduceva al piano superiore. Era molto probabile che il vecchio zio del colonnello non calzasse la sua stessa misura, ma d'altro canto la prospettiva di rimanere senza calzature adeguate era intollerabile. Salì tenendo in alto la lampada a petrolio, attento a non scivolare sui vecchi gradini consumati dall'uso. La scala terminava su un minuscolo pianerottolo non più largo di una yarda e mezzo aperto ai lati su due porte socchiuse. Ne spinse una: si trattava della camera da letto del Pastore, ma il particolare che lo colpì fu la debole luce grigia che proveniva dalla finestra aperta.
Quando era giunto la prima cosa che aveva notato erano gli scuri sprangati, che generosamente contribuivano alla sensazione di abbandono che la costruzione sprigionava. In piedi sulla soglia, perplesso ma non ancora allarmato, notò con un rassegnato disappunto che era scesa una nebbia spessa e immobile.
Dopo un rapido sopralluogo della stanza da letto, che tra l'altro gli fruttò una lettura per il resto della serata ed paio di stivaletti molto consumati che si adattavano perfettamente al suo piede, decise di esplorare anche la stanza a sinistra della scala, mosso da una curiosità che era il primo a stupirsi di provare.
Si trattava dello studio del pastore. Un ampio scrittoio ed una biblioteca che occupava la parete ne formavano l'intero arredamento.
La luce ormai tenuissima che veniva dagli scuri aperti sembrava raccogliersi su un'ampia macchia scura che si allungava sul pavimento, nello spazio tra la scrivania e la biblioteca. Si chinò a toccarla, stupendosi di trovarla ancora umida. Annusò le dita macchiate: si trattava di un odore molto debole, simile al cinnamomo. Ubbidendo ad un impulso improvviso sedette sulla poltrona appartenuta al pastore, traendone un'ampia serie di scricchiolii. Trovò curioso che fosse orientata in modo da dare le spalle alla finestra, come se l'anziano padrone di casa temesse qualcosa che viveva desolata landa che la circondava.
Era ancora impegnato in quella riflessione quando ebbe la netta sensazione che qualcosa o qualcuno stesse dolcemente accarezzandogli i capelli sulla nuca: un tocco leggerissimo, quasi inavvertibile.
Si alzò di scatto quasi rovesciando la poltrona.
L'odore di cinnamomo si era fatto fortissimo, quasi intollerabile nella sua essenza dolce ed intensa e soprattutto, improvvisamente forte ed intollerabile, era la sensazione.
Uscì dalla stanza a capofitto, la chiuse a chiave alle sue spalle con un gesto che ritenne insieme patetico e goffo e raggiunse a precipizio la cucina.
Tremando dalla testa ai piedi si pose in ascolto. L'unico rumore che proveniva dalla quiete stagnante della vecchia casa era il rintocco regolare del pendolo posto alla sommità della scala. Earnest Beagle strinse i pugni, respirò molto profondamente e si sedette davanti al fuoco.
Dovette resistere alla tentazione di dare la schiena al caminetto per tener d'occhio il vano che dava sulle scale. Cenò frettolosamente con le poche cose che aveva portato con sé, lanciando frequenti sguardi involontari nel buio steso appena oltre il limite rossastro della luce del caminetto.
Dopo cena decise di impiegare utilmente il tempo scorrendo i documenti relativi ad un paio di processi che l'avvocato Fitzwater stava seguendo in quel periodo. Lesse per quasi un'ora senza che nessun rumore venisse a disturbare la sua quiete, ma dovette interrompersi esasperato. Non riusciva a concentrarsi minimamente sulle due cause: un angolo della sua mente era interamente impegnato a riflettere su quanto era avvenuto.
Con uno scatto del braccio chiuse il brogliaccio, raccolse il viso nelle mani aperte e decise di seguire quel filo di pensieri che, sebbene inquietanti, erano certo riconducibili ad un qualche senso compiuto.
La mano, o Dio sa cos'altro, che l'aveva sfiorato o accarezzato sembrava dotata di una grazia estenuata, il tocco era stato languido, esitante, come quello di una donna innamorata che teme l'abbandono.
Averla così ben definita gli diede una sensazione momentanea di trionfo: se spettro era doveva trattarsi di creatura ben debole e disgraziata, avvezza all'uso di un'essenza tanto puerile come quello al cinnamomo.
Si sentì tanto forte e ardito da alzarsi ed andare ad illuminare con la lampada a petrolio la scala. Era più erta e probabilmente più alta di quanto la ricordava, notò. Ad onta di tanto ardimento non riuscì a decidersi a dormire nel letto del pastore e si confezionò un giaciglio purchessia davanti al caminetto. Non appena posò il capo si addormentò immediatamente.
La figura avanzava nella luce chiara e nitidamente dolorosa che talvolta si affaccia dalle nubi di tempesta. Il vento la scuoteva dolorosamente ed il suo passo era esitante, tanto lento e incerto da apparire assurdo. Earnest la osservava in piedi al centro della strada, sentendo insieme orrore e compassione: un misto fortissimo e nauseante delle due emozioni che lo prostrava impedendogli ogni movimento.
La figura procedeva tra due ali di costruzioni scure e fatiscenti, dalle finestre prive di vetri o sbarrate con i materiali più eterogenei. Portava un ampio mantello con cappuccio che ne nascondeva completamente il volto e senza capire il perché un terrore cieco salì dentro di lui al pensiero che una raffica più forte di vento potesse mostrarne i lineamenti. Eppure non riusciva a staccare il suo sguardo da lei, e la fissava mentre sollevava un braccio interamente coperto dal mantello per ritrovare l'equilibrio dopo una raffica particolarmente violenta e brancicare nel vuoto davanti a lei, come a cercare qualcuno o qualcosa.
Impietrito la vide avvicinarsi sempre di più, senza smettere di agitare le braccia a cercare di toccarlo, mentre l'orlo del cappuccio oscillava, mostrandone di tanto in tanto un frammento più chiaro del volto chino. Fu un rumore tanto prosaico quanto provvidenziale a salvarlo. Il canto di un gallo penetrò improvvisamente nel sogno permettendogli di staccare lo sguardo da quell'immagine.


La luce grigia dell'alba lo accolse e mai tale vista gli fu più benvenuta. Si alzò, infreddolito e dolorante, e si affrettò a riaccendere il fuoco. La nebbia si stava alzando e già si poteva intuire la presenza della scura barriera delle canne al limite della strada. Il ricordo di aver controllato la sera precedente che gli scuri fossero ben chiusi non gli impedì di salutare con gioia il nuovo giorno e il tè ben caldo che si preparò.
La giornata trascorse lentamente, sorniona. Tornò nello studio e nella stanza da letto del pastore, passò alcune ore in compagnia dei suoi libri, raggiunse il villaggio per fare qualche acquisto e tornò nel tardo pomeriggio, immergendosi con maggior profitto negli atti processuali.
La luce del giorno e l'impegno con il quale si dedicò ad ognuna delle attività gli permise di occultare in un angolo segreto della sua mente qualunque riflessione su ciò che gli era accaduto e sul sogno.
Dopo cena decise di dedicarsi alla lettura del testo trovato nella stanza da letto del pastore. Con curiosità scoprì che si trattava di un saggio non poco ostico sulle malattie mentali. Il segnalibro era alle pagine dedicate all'oligofrenia e numerosi passi del capitolo erano pesantemente sottolineati. Lesse alcune pagine senza riuscire a comprendere i motivi di un interesse che sfiorava evidentemente la passione.
Insonnolito, ma tuttora restio ad utilizzare il letto del Pastore, come se avesse tra sé concluso che il piano superiore era il luogo preferito degli strani eventi della casa, si sdraiò accanto al caminetto.
Ma il sonno, per quanto pesante sulle palpebre, stentava a venire. Ricordò con un tuffo al cuore che al mattino aveva trovato gli scuri aperti anche al piano inferiore e poi, con una sorta di ebbrezza che lo faceva abbondantemente sudare, si diede a rievocare il delicato tocco che l'aveva sfiorato alla nuca.
Giunse a decidere che di qualunque creatura o entità si trattasse (Earnest era tanto realista e pragmatico da non escludere a priori alcunché) ella doveva essere di genere femminile. Aveva sentito del trasporto, una infinita malinconia in quel semplice gesto. La via presa dai suoi pensieri lo divertì fino a quando non ricordò l'immagine del sogno, come Essa proiettava le braccia davanti a sé per cercarlo, per stringerlo forte.
Prese sonno infine, ma un sonno agitato nel quale il sottile limite tra sonno e veglia era divenuto impossibile da discernere.
Tre rintocchi del pendolo lo informarono dell'ora quando si alzò di scatto a sedere, gelidamente sicuro che accanto a lui qualcuno respirasse e gemesse. Alla scarsa luce della brace ebbe la sensazione di un movimento languido, onde lente in un fluido assurdamente denso.
- Chi sei? - Chiese ad alta voce.
Percepì nettamente un alito tiepido che gli correva prima sulle tempie poi sul collo, accompagnato da un debole contatto freddissimo, così simile a quello di tenere labbra femminili. - Cosa vuoi da me? - Urlò facendo appello a quanto rimaneva del suo controllo di sé.
Se risposta vi fu Earnest non si trovava più lì ad ascoltarla. Un attimo dopo si trovava scalzo sulla straducola che conduceva al bivio, correndo come un uomo che fugga per salvare la vita.
Ma come poteva il povero giovane resistere quando Ella chinò il suo volto su di lui?


- Era appena oltre lo steccato, nella nuda terra.
L'avvocato Fitwater annuì gravemente. Il colonnello James stava in piedi senza accennare a sedersi né, come era sua abitudine, accendersi la pipa.
- Ho chiesto di rientrare in servizio. Entro la prossima settimana mi imbarco per il Transvaal. Spero che questa decisione chiuda definitivamente il capitolo.
Earnest lo fissò per un attimo, giusto il tempo per stabilire che anche il colonnello non aveva cessato di sognarla.
- Nel frattempo ho provveduto alla sepoltura in terra consacrata di quella disgraziata creatura. - Esitò a lungo. - Le sono obbligatissimo, Mr. Beagle, per la sua preziosa testimonianza.
Earnest scosse la testa senza parlare. L'esperienza gli aveva tolto molto del suo aspetto ingenuo e giovanile e quella patina di insicurezza che lo rendeva a volte petulante. L'uomo che stava ora di fronte al colonnello aveva conosciuto, o ancor peggio, intuito i gradi più profondi dell'abiezione umana e la sua candida ed infantile fiducia nell'umanità l'aveva abbandonato per sempre.
- Era stata soffocata, o colpita con un oggetto molto pesante? - Chiese.
Il colonnello annuì. - Soffocata probabilmente. Il medico legale non ha trovato tracce di fratture. Non ho modo, comunque, di dubitare dell'identità del colpevole.- La sua voce non tremò né mostrò alcun tipo di emozione. - In quanto alla vittima ho fatto qualche piccola ricerca nel villaggio, trovando non poche difficoltà...
- Si trattava di una donna perduta, non è vero?
- Non esattamente. Collie, questo era il suo nome, era una povera creatura dotata di un discernimento in materia solo pari alla sua scarsa intelligenza. Non c'era peccato nel suo offrirsi, il peccato era soltanto nell'occhio di chi la possedeva.
- E non c'è peggior giudice di se stessi in questi casi. - Si sentì in dovere di aggiungere l'avvocato Fitzwater.
- Hanno trovato qualche oggetto nella sua tomba? - Chiese Earnest.
- Ben poco. - Il colonnello si schiarì la voce con un colpo di tosse. - Era vestita con una sorta di ampio sudario e teneva nella mano alcuni pezzetti di corteccia d'albero...
- Era corteccia di cinnamomo. Amava molto quel profumo. - Spiegò Earnest e in quella frase c'era la sofferenza di chi in una sola notte ha conosciuto e perduto l'amore.




2 commenti:

Argonauta Xeno ha detto...

Ogni tanto, in effetti, emerge il "Max" che c'è in te, per esempio in: "Fu un rumore tanto prosaico quanto provvidenziale a salvarlo." Però per la maggior parte del racconto mi hai ingannato e mi è sembrato di leggere davvero un racconto gotico. Se non fosse che manca un preambolo, un po' prolisso, come spesso si trova nella narrativa d'epoca.

Massimo Citi ha detto...

@SX: grazie della lettura, innanzitutto, e di aver avuto la voglia di commentare. Il racconto è nato come «calco» di un gotico, per una sorta di scommessa con mia moglie che riteneva che non sarei mai riuscito a scrivere come i maestri del gotico. Non dico di esserci riuscito, per carità, ma mi accontento di averli decentemente imitati, con un secolo e passa di ritardo. Di «mio» c'è qualche tocco, me ne rendo conto, ma soprattutto l'assenza di un fantasma «visto» e in realtà soltanto sognato e percepito, del quale il buon Earnest è comunque riuscito a innamorarsi.