Un racconto datato 1993, cioé quasi vent'anni fa.
Scritto quasi per scherzo, come una sfida a imitare i maestri del gotico, «citando» l'ambientazione cara a M.R.James, Arthur Machen o R.L.Stevenson. Quindi la Gran Bretagna della fine del XIX secolo, quindi un avvocato, un praticante, un ufficiale reduce dall'India, un pastore e una giovane popolana. E un fantasma, naturalmente. Non ho potuto dimenticare, tuttavia, né i miei tempi né il mio temperamento né un certo - per me inatteso - gusto romantico. Così la mia storia è sì perfettamente «regolare», tanto da poter forse piacere persino a un fan del gotico come Franco Pezzini, ma con una chiusa imprevedibile.
Buona lettura a tutti.
...
Non
era un bel giovane Earnest Beagle. Esile, i capelli rosso irlandese,
il mento sporgente, la statura inferiore alla media ed il portamento
incerto, quasi timoroso.
Era
dicembre e Natale non era lontano, ma per lui, ultimo e non certo il
più amato di sei tra fratelli e sorelle nati da un modesto
impiegato e da una cameriera, quella lieta ricorrenza non significava
nulla di più che un giorno sottratto al suo affannoso impegno
per emergere infine nel mondo delle Professioni.
Procedeva
rapido per la via cercando di tenersi lontano dai possibili urti
della gente affaccendata, stringendo sotto il braccio la cartella di
vitello consumata sui bordi e lanciando di tanto in tanto uno sguardo
preoccupato alle rare automobili ed alle carrozze che passavano
veloci sollevando schizzi di fango .
-
Ah, Earnest, entra, entra. - Disse l'avvocato Fitzwater,
riconoscendone i tratti dietro il vetro smerigliato della porta, dove
a grandi lettere dorate era scritto:
"Studio
Legale Fitzwater & Pringle"
-
Buongiorno, buongiorno, avvocato Fitzwater.
Conosceva
il titolare anziano dello studio legale ormai da tre anni, cioé
da quando era entrato come praticante della severa disciplina legale,
ma ancora esitava, si emozionava davanti alle membra massicce
dell'avvocato, ai suoi favoriti colore dell'acciaio, alla voce resa
rauca dal tabacco, finendo col ripetere le stesse parole più
volte, come un inconscio scongiuro.
«È
un bravo giovine, quell'Earnest. Peccato che in quella sua testa da
fiammifero non entrerà mai una sola riga di diritto»,
aveva detto una volta al Club l'avvocato Pringle, un uomo basso e
calvo, sempre impeccabilmente vestito di grigio, tanto apparentemente
sereno quanto freddamente caparbio ed aggressivo. La battuta era
stata accolta come sempre dai risolini compiaciuti dei presenti,
molti dei quali, una volta giunti a casa, si erano chiesti quali
perfidie ai loro danni stava in quel momento sibilando il caro,
vecchio Pringle.
-
Ho portato i documenti del processo contro Galverston. - Annunciò
il giovane Earnest, quasi a giustificare il suo arrivo.
L'avvocato
Fitzwater annuì con un gesto poderoso del capo. - Vede
Colonnello James, di uomini come il nostro Beagle ha bisogno la
Madrepatria... Per Dio, non solo ufficiali, più abituati
all'esercizio della caccia che alle fatiche della guerra! Trovo
riprovevole che i soldati della Regina debbano segnare il passo
davanti a pochi contadini male armati.
-
Hanno armi germaniche. - Si limitò a controbattere il
colonnello, impegnato nella difficile operazione dell'accensione
della pipa. - E poi i Boeri sono cocciuti, rabbiosi, attaccati alle
loro zolle come vecchie talpe. Per il resto i nostri soldati si
battono con il consueto valore e non tarderanno a vincere. E
Kitchener è uno che sa il fatto suo.
-
Kitchener è un macellaio, caro colonnello, e soprattutto è
un maledettissimo Irlandese.
- È la persona giusta al posto giusto, vedrà che entro l'anno
prossimo entrerà a Pretoria. - Senza lasciare all'avvocato il
tempo di ribattere, in una discussione che sembrava premergli assai
poco, l'ufficiale puntò il cannello della pipa verso Earnest.
- Giovanotto, devo chiedervi un favore, con il vostro permesso,
s'intende, Fitzwater.
-
Consideratelo concesso, colonnello.
-
Bene. Si tratta di questo: io possiedo un piccolo appezzamento poco
fuori Londra, un lascito di un mio zio pastore.
-
Sì signore. - Earnest strinse più volte gli occhi,
ancora stordito dalla subitanea svolta della conversazione, fino ad
un attimo prima assolutamente ininfluente per il suo destino.
-
Si tratta di un vecchio presbiterio. Credo sia antico, del
dodicesimo o tredicesimo secolo, costruito anche prima della vecchia
cappella. Mio zio è morto piuttosto anziano, tuttavia godeva
piena salute fino a pochi mesi prima della scomparsa. In quegli
ultimi mesi ho ricevuto da lui lettere che non so se definire più
bizzarre o più assurde. Ve le mostrerò, se lo
desiderate. Nell'ultima mi è parso di ravvisare, ma solo ad
una seconda lettura più attenta, toni di profonda disperazione
e forse persino di terrore. In quanto alle circostanze della sua
morte... - Il colonnello esitò a lungo prima di proseguire.-
Ecco, è molto imbarazzante a dirsi, ma è stato
ritrovato annegato nel piccolo abbeveratoio delle pecore, morto in
tre dita d'acqua piovana. E la cosa ancor più incomprensibile
è che stringeva in mano un frammento di un crocefisso, il
braccio inferiore ed i due bracci laterali. Qualcuno, non posso
credere sia stato lui, aveva accuratamente segato - che il cielo ci
aiuti - la testa del Salvatore, che è stata ritrovata in un
cassetto solo qualche giorno dopo.
-
Veramente una situazione bizzarra, ma può essersi trattato di
un semplice malore. - Osservò l'avvocato Fitzwater. - Un
momentaneo accesso di follia dovuto ad una morte dolorosa.
- È quello che ho creduto, ma rimangono le lettere, e vi posso
assicurare che il loro testo getta una luce maligna su tutta la
vicenda. Mio zio ha sempre tenuto onorevolmente la propria missione,
era uomo mite, poco avvezzo ai voli di fantasia, e per quanto piccolo
fosse il suo gregge egli ne era in tutto e per tutto il miglior
rappresentante presso la divinità. Tanto più
stupefacenti ho quindi trovato le osservazioni e considerazioni che
andava scrivendomi.
-
Ma di cosa si tratta infine? Non potete stuzzicarci così senza
darci nulla da mordere. - L'avvocato Fitzwater, calatosi nella grande
poltrona di pelle, si era versato una discreta dose di whisky con
acqua e fissava il colonnello senza nascondere l'emozione innocente
che l'aveva preso.
James
non sembrava accorgersene. Parlava con voce il più possibile
piana e calma, a smorzare la drammaticità degli eventi.
-
Le sue ultime lettere avevano strane date, sì, proprio date ed
era sparito ogni riferimento o formula relative alla nascita del
Signore. Non sembra gran cosa, certo, un ghiribizzo, un capriccio da
anziano, ma mio zio non era persona da simili giochetti. - Il
colonnello James si schiarì la voce e staccò dalle
labbra la pipa divenuta rovente. - E poi vi sono altre... cose. Non
nego una certa difficoltà a parlarvene, ma affrontare certi
argomenti alla luce del sole può sembrare anche ridicolo...
-
Suvvia colonnello, decidetevi una buona volta a sputare il rospo, e
voi sedetevi, Earnest.
Il
giovane praticante, rimasto fino a quel momento in piedi accanto alla
grande scrivania del titolare dello studio, si affrettò ad
annuire ed a installarsi su una delle sedie foderate di marocchino
rosso appoggiate al muro.
-
Parla di sogni, strani sogni, del Peccato e della collera di Dio. Ma
è molto difficile dare un senso al suo racconto, che
soprattutto nelle sue ultime lettere diviene confuso, quasi
affannoso. Non nego di aver provato un certo smarrimento alla
lettura. - Il colonnello guardò nel fornello della pipa
debitamente riempito di tabacco, come a chiedersi chi mai l'avesse
caricata e con un gesto automatico, quasi involontario, afferrò
il bicchiere di whisky che Fitzwater gli aveva posto vicino e lo
vuotò d'un sorso.
-
Perbacco, questa si può davvero definire sete! - Esclamò
ridendo l'avvocato.
L'interpellato
si voltò con uno scatto improvviso, gli occhi fissi e
sbarrati. Non era certo la prima volta che Earnest incontrava
Mr.James nello studio, ma in uno stato così alterato non
l'aveva mai veduto. Pur essendo un giovane molto morigerato e, come
diceva lo zio Arthur, decisamente con i piedi per terra, fu molto
impressionato dallo sguardo intenso, quasi maniacale dell'ufficiale.
-
Scusatemi! - Quasi urlò. - Devo proprio andare. L'aspetto
domani mattina a casa mia alle nove, Earnest.
Senza
aggiungere altro l'ufficiale infilò la porta ad una velocità
assolutamente sconveniente e poterono udire ancora per diversi
secondi i suoi passi affrettati oltre la soglia e sulle vecchie scale.
L'uomo
che lo accolse alla porta in quella silenziosa e fredda mattina
domenicale non sembrava aver molto in comune con l'ufficiale che
aveva reso visita la sera precedente all'avvocato Fitzwater.
Mr.James
era alto, dritto, il volto tuttora giovane, nonostante le sue
quaranta e passa primavere. Earnest non poté evitare di
soffermare a lungo lo sguardo sulla figura stanca, curva e sul volto
pallido dell'uomo che gli stava di fronte.
-
Voi non vi sentite bene, colonnello. Forse è meglio che
ritorni.
-
C'è un altra lettera. - La voce dell'ufficiale sembrava aver
percorso la stessa parabola del corpo ed era divenuta flebile,
incerta, come se quella notte gli avesse portato in dono almeno due
dozzine di anni.
-
Un'altra lettera sempre di...
- È stata posta tra altri documenti di scarsa importanza. - Spiegò
il colonnello. - Solo ierisera, cercando sollievo in una occupazione
purchessia, ho deciso di riordinare le mie carte e l'ho trovata. Ma
perché vi faccio attendere sulla porta come un predicatore? Su
entrate, venite.
Nella
casa dell'ufficiale ogni più piccolo spiraglio di luce era
stato soffocato da pesanti tende e solo poche deboli lampade a gas
illuminavano i ricchi arredi e gli oggetti giunti dalle Indie, dove
il colonnello James aveva prestato servizio per una quindicina
d'anni.
-
Vi state chiedendo il perché di questo buio, vero? E
altrettanto probabilmente siete giunto alla conclusione che il mio
povero cervello, perso ormai il lume della ragione, stia andando alla
deriva come la nave di Ulisse nell'ultimo viaggio. - Rise, una risata
secca come un colpo di pistola, che si spense all'improvviso con una
sorta di singhiozzo. - E forse avete ragione...
Senza
curarsi di aspettare alcuna risposta Mr.James entrò nel suo
studio ed afferrò un foglio appoggiato sullo scrittoio. -
Ecco, mr. Beagle, leggete.
Il
giovane praticante si pose sul naso i piccoli occhiali da lettura che
teneva abitualmente appesi al bavero della giacca con un piccola
catenina d'argento e, non poco scosso, si dispose a leggere.
Non
ho più tempo. Mai mi è sembrato importante averne, ma
ora ho il terrore, un vero, profondissimo terrore di quanto mi
attende. La prova che mi è stata imposta volge al termine e
non credo di avere la forza di resistere per un'altra notte. Altri
non possono immaginare cosa significa vivere sul confine di quella
regione buia, la sofferenza che non abbandona mai la mia anima in
nessun momento del giorno e della notte, che non ha mai termine né
redenzione. Non voglio dirti altro, mio infelice M., anche perché
come potrei raccontare il terribile vuoto che si è fatto in
me? No, non voglio trascinarti nel mio assurdo, feroce viaggio...
Nulla di quanto ho provato deve trapelare, nulla di nulla... Non
l'attenderò più. Non sarò, non posso essere
perdonato, avrei voluto, ma il braccio di Lui è stato avido...
ha dato e ha tolto...Forse non mi addormenterò questa ultima
notte, per attenderla, affrontarla. Sono stanco, troppo stanco...
-
Non capisco. - Il giovane Earnest piegò con cura la lettera e
tornò ad appoggiarla sullo scrittoio, come se tenerla in mano
fosse prova troppo gravosa per lui. - Di quale prova parlerà
mai? E chi è colui che attende? Voi lo sapete colonnello
James?
L'ufficiale
scosse il capo. - Fino a ieri non lo sapevo, ma stanotte per la prima
volta ho sognato.
Il
giovane Beagle lanciò uno sguardo involontario alla lettera ed
impallidì. - Vi riferite... - Temo di sì. Un'ombra
bianca, gracile. Da lei veniva una penosa sensazione di ebbrezza, una
gaiezza insana, folle, tale da suscitare un profondo sgomento, un
misto stucchevole e intollerabile di pena e di fastidio. Sapete cosa
voglio dire, lo immaginate?
Earnest,
preso da un senso di disagio che non riusciva più a
controllare completamente, annuì rapidamente.
-
NON È VERO! - Urlò il colonnello. - Voi non potete averlo
provato, non si può provare in vita una simile sensazione, non
potete neppure immaginarlo! Avrei voluto sorreggere, soccorrere quel
corpo che si trascinava velato sulla strada, ma un'intensa sensazione
di orrore me lo impediva, l'avrei voluto distruggere, schiacciare...
Ed insieme una curiosità quasi folle mi spingeva a fissarlo, a
cercare di riconoscere i suoi lineamenti velati. Attendevo immobile,
al centro di una piazza dove sfociavano alcune vie, fiancheggiate da
case abbandonate. Alle mie spalle potevo udire il fischio sonoro del
vento e dinanzi a me, la figura avanzava con grande fatica,
agitandosi convulsa, come se, cieca, cercasse di toccare, di
riconoscere. Capite ora?
-
E quindi?
-
Ha svoltato o chissà cos'altro. D'un tratto era scomparsa e mi
sono svegliato di scatto udendo ancora il fischio del vento, le
finestre spalancate e gli scuri aperti.
-
Siete probabilmente stato suggestionato dalla lettera di vostro zio.
- Earnest fu il primo a stupirsi per la sagacia di
quell'osservazione. - Attendete qualche altro giorno, svagatevi,
dimenticate. Anche i sogni vi abbandoneranno.
Il
colonnello ebbe un bizzarro, improvviso moto del braccio, quasi a
misurare uno schiaffo per il suo giovane interlocutore, ma si fermò
di scatto, come una statua sorpresa dalle prime luci dell'alba. -
Credete? - Dalla sua voce traspariva una tetra ironia che più
di ogni percossa colpì il povero Earnest.
-
Come posso esservi utile?
Mr.James
si scosse. - Volevo chiedervi di alloggiare per qualche tempo presso
il presbiterio di mio zio, naturalmente pagato per l'incomodo. Ma ora
mi chiedo, dopo il sogno... Sareste disposto?
-
Naturalmente. - Rispose Mr. Beagle senza esitare. In quel momento era
pronto a qualunque cosa pur di sottrarsi a quell'intollerabile
colloquio.
Solo
più tardi, mentre preparava una piccola valigia con pochi
effetti personali, Earnest si trovò ad almanaccare sui motivi
di quella bizzarra richiesta. Aveva troppa familiarità di se
stesso per non sapere di essere dotato di assai poca fantasia ed
ancor minore acume. Era proprio la coscienza della limitatezza delle
proprie facoltà ad indurlo ad un atteggiamento misurato e
calmo e talvolta, sciaguratamente, a prendere per oro colato tutto
quanto veniva affermato con sicurezza da quanti stavano sopra di lui
nella scala sociale. Il colonnello era stato quantomeno vago sui
motivi della sua spedizione, ma incresciosi incubi a parte, nel corso
della giornata Earnest aveva finito col convincersi che la cosa si
sarebbe risolta in una tranquilla parentesi di ozio in un luogo che
certo non mancava di suggestione.
E
ancora animato da questa convinzione prese posto sul convoglio
ferroviario diretto verso Manchester, per trasferirsi poi su una
carrozza che lo lasciò ad un bivio ad un'ora imprecisata del
pomeriggio.
-
Deve proseguire per mezzo miglio, la riconoscerà subito. -
Ringraziò
il vetturino dal forte accento gallese e stringendo la piccola borsa
che aveva portato con sè si inoltrò nel viottolo. Ben
presto si rese conto che le recenti, abbondanti piogge avevano reso
il percorso assai meno agevole del previsto, facendo impallidire ed
infine svanire la prospettiva di una salutare passeggiata nella
campagna autunnale.
Le
sue scarpe cittadine non erano fatte per affrontare tali disagi e ben
presto si arresero all'acqua ed al fango, tanto da lasciarlo
virtualmente scalzo. Oltre a questo il paesaggio non sprigionava il
tipo di suggestione che si attendeva: le terre di quei dintorni erano
grigie e sabbiose e vi prosperavano solo sterpaglie grigie e spinose
e canne molto alte, che chiudevano frequentemente la vista.
Il
presbiterio comparve all'improvviso, appena superata un'ampia curva
che circondava un piccolo stagno dalle acque scure e limacciose. La
luce solare, invisibile dietro uno schermo di nubi alte, era prossima
ormai al termine quotidiano del suo corso e la piccola costruzione a
due piani, appoggiata al grande muro cieco della cappella, sembrava
abbandonata da molto tempo.
Cercando
di resistere alla violenta sensazione di disagio che l'aveva
improvvisamente colto, il giovane estrasse dalla borsa la chiave
affidatagli dal colonnello e superò la soglia.
Nell'interno
stagnava un'aria pesante, che sapeva di muffa e polvere, con un
sentore appena percepibile di cibo rancido. Brancolando nella poca
luce proveniente dalla finestra aperta Earnest trovò un lume a
petrolio su un tavolo dal pesante piano di marmo e l'accese. La luce
della fiamma traspariva a fatica dal vetro reso scuro dalla
fuliggine, illuminando un lavatoio di pietra, due sedie impagliate,
una piattiera spoglia e pochi altri mobili, malinconici nel loro
abbandono.
Posò
la lampada sulla cornice del caminetto e, dopo aver stabilito che non
meritava aprire gli scuri, posò la sua borsa sul tavolo,
deciso per prima cosa ad accendere il fuoco.
La
legna era umida e l'operazione gli costò non poca fatica. Al
calore del focherello stento e pallido tolse le sue povere scarpe e
constatò tristemente i danni sofferti. Non aveva ancora
esplorato il resto della casa ma l'esigenza di procurarsi calzature
asciutte lo indusse ad affrontare la scala che conduceva al piano
superiore. Era molto probabile che il vecchio zio del colonnello non
calzasse la sua stessa misura, ma d'altro canto la prospettiva di
rimanere senza calzature adeguate era intollerabile. Salì
tenendo in alto la lampada a petrolio, attento a non scivolare sui
vecchi gradini consumati dall'uso. La scala terminava su un minuscolo
pianerottolo non più largo di una yarda e mezzo aperto ai lati
su due porte socchiuse. Ne spinse una: si trattava della camera da
letto del Pastore, ma il particolare che lo colpì fu la debole
luce grigia che proveniva dalla finestra aperta.
Quando
era giunto la prima cosa che aveva notato erano gli scuri sprangati,
che generosamente contribuivano alla sensazione di abbandono che la
costruzione sprigionava. In piedi sulla soglia, perplesso ma non
ancora allarmato, notò con un rassegnato disappunto che era
scesa una nebbia spessa e immobile.
Dopo
un rapido sopralluogo della stanza da letto, che tra l'altro gli
fruttò una lettura per il resto della serata ed paio di
stivaletti molto consumati che si adattavano perfettamente al suo
piede, decise di esplorare anche la stanza a sinistra della scala,
mosso da una curiosità che era il primo a stupirsi di provare.
Si
trattava dello studio del pastore. Un ampio scrittoio ed una
biblioteca che occupava la parete ne formavano l'intero arredamento.
La
luce ormai tenuissima che veniva dagli scuri aperti sembrava
raccogliersi su un'ampia macchia scura che si allungava sul
pavimento, nello spazio tra la scrivania e la biblioteca. Si chinò
a toccarla, stupendosi di trovarla ancora umida. Annusò le
dita macchiate: si trattava di un odore molto debole, simile al
cinnamomo. Ubbidendo ad un impulso improvviso sedette sulla poltrona
appartenuta al pastore, traendone un'ampia serie di scricchiolii.
Trovò curioso che fosse orientata in modo da dare le spalle
alla finestra, come se l'anziano padrone di casa temesse qualcosa che
viveva desolata landa che la circondava.
Era
ancora impegnato in quella riflessione quando ebbe la netta
sensazione che qualcosa o qualcuno stesse dolcemente accarezzandogli
i capelli sulla nuca: un tocco leggerissimo, quasi inavvertibile.
Si
alzò di scatto quasi rovesciando la poltrona.
L'odore
di cinnamomo si era fatto fortissimo, quasi intollerabile nella sua
essenza dolce ed intensa e soprattutto, improvvisamente forte ed
intollerabile, era la sensazione.
Uscì
dalla stanza a capofitto, la chiuse a chiave alle sue spalle con un
gesto che ritenne insieme patetico e goffo e raggiunse a precipizio
la cucina.
Tremando
dalla testa ai piedi si pose in ascolto. L'unico rumore che proveniva
dalla quiete stagnante della vecchia casa era il rintocco regolare
del pendolo posto alla sommità della scala. Earnest Beagle
strinse i pugni, respirò molto profondamente e si sedette
davanti al fuoco.
Dovette
resistere alla tentazione di dare la schiena al caminetto per tener
d'occhio il vano che dava sulle scale. Cenò frettolosamente
con le poche cose che aveva portato con sé, lanciando
frequenti sguardi involontari nel buio steso appena oltre il limite
rossastro della luce del caminetto.
Dopo
cena decise di impiegare utilmente il tempo scorrendo i documenti
relativi ad un paio di processi che l'avvocato Fitzwater stava
seguendo in quel periodo. Lesse per quasi un'ora senza che nessun
rumore venisse a disturbare la sua quiete, ma dovette interrompersi
esasperato. Non riusciva a concentrarsi minimamente sulle due cause:
un angolo della sua mente era interamente impegnato a riflettere su
quanto era avvenuto.
Con
uno scatto del braccio chiuse il brogliaccio, raccolse il viso nelle
mani aperte e decise di seguire quel filo di pensieri che, sebbene
inquietanti, erano certo riconducibili ad un qualche senso compiuto.
La
mano, o Dio sa cos'altro, che l'aveva sfiorato o accarezzato sembrava
dotata di una grazia estenuata, il tocco era stato languido,
esitante, come quello di una donna innamorata che teme l'abbandono.
Averla
così ben definita gli diede una sensazione momentanea di
trionfo: se spettro era doveva trattarsi di creatura ben debole e
disgraziata, avvezza all'uso di un'essenza tanto puerile come quello
al cinnamomo.
Si
sentì tanto forte e ardito da alzarsi ed andare ad illuminare
con la lampada a petrolio la scala. Era più erta e
probabilmente più alta di quanto la ricordava, notò. Ad
onta di tanto ardimento non riuscì a decidersi a dormire nel
letto del pastore e si confezionò un giaciglio purchessia
davanti al caminetto. Non appena posò il capo si addormentò
immediatamente.
La
figura avanzava nella luce chiara e nitidamente dolorosa che talvolta
si affaccia dalle nubi di tempesta. Il vento la scuoteva
dolorosamente ed il suo passo era esitante, tanto lento e incerto da
apparire assurdo. Earnest la osservava in piedi al centro della
strada, sentendo insieme orrore e compassione: un misto fortissimo e
nauseante delle due emozioni che lo prostrava impedendogli ogni
movimento.
La
figura procedeva tra due ali di costruzioni scure e fatiscenti, dalle
finestre prive di vetri o sbarrate con i materiali più
eterogenei. Portava un ampio mantello con cappuccio che ne nascondeva
completamente il volto e senza capire il perché un terrore
cieco salì dentro di lui al pensiero che una raffica più
forte di vento potesse mostrarne i lineamenti. Eppure non riusciva a
staccare il suo sguardo da lei, e la fissava mentre sollevava un
braccio interamente coperto dal mantello per ritrovare l'equilibrio
dopo una raffica particolarmente violenta e brancicare nel vuoto
davanti a lei, come a cercare qualcuno o qualcosa.
Impietrito
la vide avvicinarsi sempre di più, senza smettere di agitare
le braccia a cercare di toccarlo, mentre l'orlo del cappuccio
oscillava, mostrandone di tanto in tanto un frammento più
chiaro del volto chino. Fu un rumore tanto prosaico quanto
provvidenziale a salvarlo. Il canto di un gallo penetrò
improvvisamente nel sogno permettendogli di staccare lo sguardo da
quell'immagine.
La
luce grigia dell'alba lo accolse e mai tale vista gli fu più
benvenuta. Si alzò, infreddolito e dolorante, e si affrettò
a riaccendere il fuoco. La nebbia si stava alzando e già si
poteva intuire la presenza della scura barriera delle canne al limite
della strada. Il ricordo di aver controllato la sera precedente che
gli scuri fossero ben chiusi non gli impedì di salutare con
gioia il nuovo giorno e il tè ben caldo che si preparò.
La
giornata trascorse lentamente, sorniona. Tornò nello studio e
nella stanza da letto del pastore, passò alcune ore in
compagnia dei suoi libri, raggiunse il villaggio per fare qualche
acquisto e tornò nel tardo pomeriggio, immergendosi con
maggior profitto negli atti processuali.
La
luce del giorno e l'impegno con il quale si dedicò ad ognuna
delle attività gli permise di occultare in un angolo segreto
della sua mente qualunque riflessione su ciò che gli era
accaduto e sul sogno.
Dopo
cena decise di dedicarsi alla lettura del testo trovato nella stanza
da letto del pastore. Con curiosità scoprì che si
trattava di un saggio non poco ostico sulle malattie mentali. Il
segnalibro era alle pagine dedicate all'oligofrenia e numerosi passi
del capitolo erano pesantemente sottolineati. Lesse alcune pagine
senza riuscire a comprendere i motivi di un interesse che sfiorava
evidentemente la passione.
Insonnolito,
ma tuttora restio ad utilizzare il letto del Pastore, come se avesse
tra sé concluso che il piano superiore era il luogo preferito
degli strani eventi della casa, si sdraiò accanto al
caminetto.
Ma
il sonno, per quanto pesante sulle palpebre, stentava a venire.
Ricordò con un tuffo al cuore che al mattino aveva trovato gli
scuri aperti anche al piano inferiore e poi, con una sorta di
ebbrezza che lo faceva abbondantemente sudare, si diede a rievocare
il delicato tocco che l'aveva sfiorato alla nuca.
Giunse
a decidere che di qualunque creatura o entità si trattasse
(Earnest era tanto realista e pragmatico da non escludere a priori
alcunché) ella doveva essere di genere femminile. Aveva
sentito del trasporto, una infinita malinconia in quel semplice
gesto. La via presa dai suoi pensieri lo divertì fino a quando
non ricordò l'immagine del sogno, come Essa proiettava le
braccia davanti a sé per cercarlo, per stringerlo forte.
Prese
sonno infine, ma un sonno agitato nel quale il sottile limite tra
sonno e veglia era divenuto impossibile da discernere.
Tre
rintocchi del pendolo lo informarono dell'ora quando si alzò
di scatto a sedere, gelidamente sicuro che accanto a lui qualcuno
respirasse e gemesse. Alla scarsa luce della brace ebbe la sensazione
di un movimento languido, onde lente in un fluido assurdamente denso.
-
Chi sei? - Chiese ad alta voce.
Percepì
nettamente un alito tiepido che gli correva prima sulle tempie poi
sul collo, accompagnato da un debole contatto freddissimo, così
simile a quello di tenere labbra femminili. - Cosa vuoi da me? - Urlò
facendo appello a quanto rimaneva del suo controllo di sé.
Se
risposta vi fu Earnest non si trovava più lì ad
ascoltarla. Un attimo dopo si trovava scalzo sulla straducola che
conduceva al bivio, correndo come un uomo che fugga per salvare la
vita.
Ma
come poteva il povero giovane resistere quando Ella chinò il
suo volto su di lui?
-
Era appena oltre lo steccato, nella nuda terra.
L'avvocato
Fitwater annuì gravemente. Il colonnello James stava in piedi
senza accennare a sedersi né, come era sua abitudine,
accendersi la pipa.
-
Ho chiesto di rientrare in servizio. Entro la prossima settimana mi
imbarco per il Transvaal. Spero che questa decisione chiuda
definitivamente il capitolo.
Earnest
lo fissò per un attimo, giusto il tempo per stabilire che
anche il colonnello non aveva cessato di sognarla.
-
Nel frattempo ho provveduto alla sepoltura in terra consacrata di
quella disgraziata creatura. - Esitò a lungo. - Le sono
obbligatissimo, Mr. Beagle, per la sua preziosa testimonianza.
Earnest
scosse la testa senza parlare. L'esperienza gli aveva tolto molto del
suo aspetto ingenuo e giovanile e quella patina di insicurezza che lo
rendeva a volte petulante. L'uomo che stava ora di fronte al
colonnello aveva conosciuto, o ancor peggio, intuito i gradi più
profondi dell'abiezione umana e la sua candida ed infantile fiducia
nell'umanità l'aveva abbandonato per sempre.
-
Era stata soffocata, o colpita con un oggetto molto pesante? -
Chiese.
Il
colonnello annuì. - Soffocata probabilmente. Il medico legale
non ha trovato tracce di fratture. Non ho modo, comunque, di dubitare
dell'identità del colpevole.- La sua voce non tremò né
mostrò alcun tipo di emozione. - In quanto alla vittima ho
fatto qualche piccola ricerca nel villaggio, trovando non poche
difficoltà...
-
Si trattava di una donna perduta, non è vero?
-
Non esattamente. Collie, questo era il suo nome, era una povera
creatura dotata di un discernimento in materia solo pari alla sua
scarsa intelligenza. Non c'era peccato nel suo offrirsi, il peccato
era soltanto nell'occhio di chi la possedeva.
-
E non c'è peggior giudice di se stessi in questi casi. - Si
sentì in dovere di aggiungere l'avvocato Fitzwater.
-
Hanno trovato qualche oggetto nella sua tomba? - Chiese Earnest.
-
Ben poco. - Il colonnello si schiarì la voce con un colpo di
tosse. - Era vestita con una sorta di ampio sudario e teneva nella
mano alcuni pezzetti di corteccia d'albero...
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Era corteccia di cinnamomo. Amava molto quel profumo. - Spiegò
Earnest e in quella frase c'era la sofferenza di chi in una sola notte ha conosciuto
e perduto l'amore.
2 commenti:
Ogni tanto, in effetti, emerge il "Max" che c'è in te, per esempio in: "Fu un rumore tanto prosaico quanto provvidenziale a salvarlo." Però per la maggior parte del racconto mi hai ingannato e mi è sembrato di leggere davvero un racconto gotico. Se non fosse che manca un preambolo, un po' prolisso, come spesso si trova nella narrativa d'epoca.
@SX: grazie della lettura, innanzitutto, e di aver avuto la voglia di commentare. Il racconto è nato come «calco» di un gotico, per una sorta di scommessa con mia moglie che riteneva che non sarei mai riuscito a scrivere come i maestri del gotico. Non dico di esserci riuscito, per carità, ma mi accontento di averli decentemente imitati, con un secolo e passa di ritardo. Di «mio» c'è qualche tocco, me ne rendo conto, ma soprattutto l'assenza di un fantasma «visto» e in realtà soltanto sognato e percepito, del quale il buon Earnest è comunque riuscito a innamorarsi.
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