2.10.12

La betulla


Un racconto scritto nel 1990, ripescato in un'oscura latebra del pc, sicuramente ripreso e più volte trasportato negli ultimi tre o quattro computer che si sono succeduti sulla mia scrivania. Ripescato dalla (mia) memoria nei giorni trascorsi a ridipingere la balconata, guardando, in giardino, una grossa betulla.
Catalogabile come horror - suppongo -, anche se poverissimo di sangue ed interiora. Il racconto di un semplice incidente, in apparenza, narrato da chi non ha nessuna intenzione di provare a ipotizzare qualcosa di più e di terribilmente diverso. In fondo, un incidente è un incidente, nulla di più. Anche se i lettori possono, forse giustamente, scorgere in esso qualcosa di inatteso e agghiacciante.
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Piccolo avviso, di scarsa importanza, i racconti pubblicati sul mio blog usciranno nei prossimi mesi raccolti in un'antologia liberamente disponibile in formato e-book. Il titolo? Mah, «Racconti dispersi e ritrovati» potrebbe essere adeguato? 
  
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La vecchia casa era parte dell'eredità di uno zio, fratello di mio padre, che non vedevo più da anni.
Era una costruzione imbiancata a calce, con una lunga balconata ed una scala a gradini sulla facciata che conduceva alle due stanze da letto del piano superiore. Al piano inferiore c'erano la cucina e il soggiorno, ai quali si entrava da due porte - finestre. Il cesso era all' esterno, una baracca con il tetto di lamiera ondulata, fornito di una rispettabile popolazione di mosche e ragni.
La prima volta che la vidi, in compagnia di un impiegato del notaio, ne fui tutt'altro che entusiasta, tanto che passai da un'agenzia immobiliare del centro più vicino a chiedere quanto avrei potuto ricavare dalla vendita.
- Mah, se ho ben capito la casa è abbastanza vecchiotta, posta subito prima di un bosco, isolata, e non è in ottime condizioni.
Il titolare dell'agenzia era un signore calmo, precocemente incanutito, armato di un sorriso accattivante, da saggio delle favole.
- È abbastanza ben messa. L'intonaco é in buono stato, la facciata anche. C'è qualche sconnessura del pavimento, ma insomma nulla che non si possa sistemare con un paio di giorni di lavoro.
- Capisco. Secondo me, se ha molta fortuna e trova qualcuno un po'..., diciamo una persona interessata a quel tipo di casa, può sperare di tirare su venti, massimo trenta milioni. Ma mi scusi, a lei non piace la mezza montagna?
Mi schernii. Non so perché ma quell'uomo sembrava prendere quasi per un offesa alla zona la mia fretta di vendere. - Non è per quello, il fatto è... Insomma, devo ancora finire di pagare la prima casa e così...
- Non va in vacanza d'estate? - Mi chiese senza smettere di sorridere.
- Certo.
- È sufficiente che venga a far le ferie qui, c'è aria buona, la roba costa meno che in città ed è più sana, c'è calma, non ci sono né orsi, né lupi, al massimo qualche volpe. Non mi vorrà mica dire che andare al mare le costerà niente?
- Beh, no. - Ammisi perplesso.
- E allora? Vede che fa il suo risparmio?
- Il fatto è che mia moglie... - Mi interruppi bruscamente. Ma perché diavolo avrei dovuto raccontare tutta la mia vita a quell'uomo? Sorrisi a mia volta, un po' freddo, e conclusi.- Credo che ne parleremo. Ne parleremo senz' altro. Lei comunque non è interessato a occuparsi eventualmente... -
- Siamo qui per lavorare. - Replicò filosoficamente e si alzò per darmi la mano.
Durante il viaggio di ritorno ci meditai parecchio e all'uscita dalla provinciale ero giunto alla conclusione che tanto valeva provare, almeno per un anno.


Giulia accolse la descrizione della casa ed il racconto delle mie riflessioni con scarso entusiasmo.
- Sicuramente ci costerà metterla a posto. E poi, sinceramente non mi ci vedo a fare la montanara, sperduta in un bosco. Al mare abbiamo il nostro giro di amici, la bambina ha i suoi. Non è che la cosa non abbia il suo fascino, ma insomma si tratta di fare la vita dei monaci.
- Ma non è che poi il posto sia così sperduto, c'è una discoteca a dieci - quindici chilometri, un parco...
- Una discoteca piena di montanari sbevazzoni e montanare rubiconde, proprio un bel posticino. - Giulia cercava di non arrabbiarsi mai davvero: la sua arma preferita era quella specie di ironia pesante da genitore in vena di paternalismo.
- Ma dai, siamo quasi nel duemila, il mondo è uguale dappertutto. Non ci saranno nemmeno più quel tipo di montanari che pensi tu. Poi l'aria è buona, buoni prezzi, potrai dedicarti alle tue letture, e poi per la bambina può essere istruttivo.
- Fai come vuoi.
Aveva chiuso il canale, me ne accorsi subito. Ora avrei anche potuto sgolarmi per tutta la sera, ma LEI aveva parlato e ora qualunque altra cosa fosse accaduta sarebbe stata interamente responsabilità mia. Mi risparmiai la fatica di dirle come al solito "Ma dai, Giulia, non fare così...". Per esperienza sapevo che sarebbe stato inutile.
Uscì dalla stanza senza più guardare nella mia direzione e un attimo dopo la sentii armeggiare in cucina sbatacchiando pentole e sportelli. Il suo modo di rimproverare la mia scarsa sensibilità.
Mentre andavo nella cameretta di Stefania mi chiesi perché diavolo persistere in quell'idea. In fondo cedere ai desideri di Giulia era diventata per me un'abitudine, un omaggio ad un quieto vivere che mi stava tranquillamente portando oltre i trent'anni e verso il tramonto di quel po' di interessi ed entusiasmi che ancora coltivavo. Undici mesi di lavoro e poi un mese a fingere di essere ancora giovanotti, ad andare in spiaggia, la sera col gelato ed i commenti sulla gente che passava, poi in discoteca, un paio di bicchierini, a cianciare di scambio delle coppie con un paio di amici e a fare il cascamorto un po' forzato con Lella e Annamaria, le loro mogli. In albergo verso l'una, una scopata con lei sdraiata, immobile, un braccio sulla fronte, che si mordeva le labbra, gemeva per qualche secondo e poi leggeva per una mezz'oretta.
Sposati da una dozzina d'anni, eravamo quasi una coppia di quelle che scrivono lettere ai sessuologi delle riviste femminili. Per me non era cambiato nulla dalla prima volta, credo, ma avevo la sensazione che fosse stata lei a ritirarsi un po' ogni anno, soprattutto dopo che era nata Stefania, quasi per incolparmi di non averle impedito di diventare madre.
Era stata una bella ragazza, Giulia, ed era una bella donna: bruna, occhi chiari, lineamenti delicati, un po' infantili, con un mezzo sorriso sul viso che per vezzo non lasciava mai aprire completamente. Sapevo di vivere con lei un momento difficile. Temevo a volte fosse solo una parentesi, la semplice attesa che se ne andasse.
Strinsi le labbra. Quei pensieri mi prendevano tutte le volte che litigavamo e mi creavano dentro un grande vuoto, una confusione che lei non faceva nulla per dissipare, anche le rarissime volte che avevo avuto il coraggio di parlarne. Cercai di guardare le cose con obiettività: non era poi così male il mare. Solo che qualche volta bisogna anche cambiare. Sì, era meglio cambiare.


Circa un mese dopo, appena sistemati un po' di problemi burocratici ed organizzativi, caricate un po' di cibarie e suppellettili eravamo partiti per la casa di montagna.
Il clima prima alla partenza era un po' pesante: la bambina, che mi era sembrata contenta la prima volta che le avevo parlato della nuova casa, ora mi sembrava immusonita, a momenti addirittura sarcastica.
"Giulia passa con lei molto più tempo" pensai. Potevo solo sperare che il posto facesse cambiare idea a tutte e due.
Il tempo era bruttino e salendo diventò ancora peggiore. Quando arrivammo alla casa pioveva, una pioggia autunnale, uggiosa che scendeva lenta da un cielo grigio senza sfumature.
- È carina, no? Caratteristica.- Dissi scendendo dalla macchina.
- Come no, come una tomba di una volta. - Al commento di Giulia seguì una risata un po' forzata della bambina. Nessuna delle due accennò a scendere.
Mi strinsi nelle spalle ed andai ad aprire la porta. I mobili all'interno erano di legno scuro, severi e nella scarsa luce del giorno sembravano addirittura tetri. Andai ad aprire gli scuri per scacciare l'odore di umidità.
Erano ancora in macchina e probabilmente si stavano scambiando commenti e risate. Per un attimo provai il desiderio di piantare lì tutto e tornarmene in città, ma per pura testardaggine decisi di tenere duro.
Nella cucina c'era un lavello di marmo, decorato da qualche ragnatela che mi affrettai a far sparire, una credenza dagli sportelli a vetri scorrevoli, una vecchia piattiera semivuota, un tavolo anch'esso dal piano di marmo e quattro sedie impagliate, abbastanza in buone condizioni.
- Allora, non venite a vedere? - Chiesi affacciandomi alla finestra.
Entrarono mentre controllavo il contenuto della dispensa: qualche barattolo di latta con la scritta a sbalzo "Sale", "Zucchero" ecc.
- Ci sono i topi? - Fu la prima domanda di Giulia entrando.
- Credo di no. - Risposi.
- E quelle cosa sono? - Replicò lei indicando l'angolo tra il lavello e la credenza.
- Saranno di un po' di tempo fa. La casa non è più abitata da parecchio.
- Ci sono i topini? - Chiese Stefania. La guardai: sembrava entusiasta della prospettiva. Come tutti i bambini cresciuti in città non aveva praticamente mai visto animali vivi.
- Forse sì. Mi hanno detto che ci sono anche le volpi, qui nel bosco, e poi uccellini, tassi, talpe, gatti, picchi, gufi, merli...- il sorriso di Stefania mi convinse di aver trovato finalmente un'alleata.
- ...Certo, poi anche mosche, pipistrelli, ragni, vipere, zanzare. - continuò l'elenco Giulia. - Ortica, vespe, formiche...
- L'ortica non è un animale. - La interruppe Stefania con espressione molto seria.
- È vero, ma la mamma non conosce bene gli animali, sta sempre a guardare la televisione e a chiacchierare. - Risi. Mi rendevo conto di essere aggressivo ed ingiusto, ma quella piccola vittoria dopo tanta tensione mi aveva esaltato.
- È proprio quello che farò, infatti. Guarderò la televisione. In questo posto non vedo cos'altro si possa fare. - L'ironia era sparita per lasciare il posto ad un'emozione diversa, qualcosa di più gelido e definitivo, una specie di calmo disprezzo.
- Mi porti a vedere gli animali? - Mi chiese Stefania spezzando la tensione.
- Ma certo! - Risposi con un entusiasmo fin troppo evidente. - Prima però vieni con me, andiamo a vedere sopra, le altre stanze.
Mi accorsi che dopo l'ultima visita non avevamo ben chiuso la porta di una delle stanze.
- Aspettami, Stefi, vado a vedere. - Dissi alla bambina ed entrai. Nel mezzo del letto d'angolo c'era una massa scura che al mio ingresso ondeggiò in un modo strano, come se fosse stata composta da più parti indipendenti.
Sobbalzai e spalancai la porta con un calcio.
- I micini! - Urlò Stefania mentre io sorridevo del mio ridicolo spavento. Sul letto c'era una gatta bianca e nera, abbastanza magra, con cinque gattini nati da poche settimane che miagolavano cercando di nascondersi sotto il corpo della madre.
- Aspetta, Stefania. Devi avere il permesso della loro mamma per toccarli.
Decidemmo di sacrificare un po' del ragù in scatola e mezzo litro di latte per guadagnarci la fiducia della micia. Mentre la bambina era scesa a prendere quei generi di prima necessità mi affacciai al balcone. Nel prato davanti alla casa c'erano due querce e due castagni, disposti a quadrilatero. "D'autunno ci cresceranno i funghi" pensai, e quella banale constatazione ebbe il dono di rallegrarmi, come se nella mia vita non avessi desiderato, senza saperlo, che possedere una casa come quella.
Nutrimmo la gatta che si rivelò un animale avvezzo agli esseri umani, tanto che ci lasciò accarezzare e coccolare i suoi piccoli senza preoccuparsi.
Stefania ne portò uno, tigrato, fino al piano inferiore, gridando - Mamma, mamma, guarda!
- Che carino. - Commentò lei guardandolo per un attimo. - Ma naturalmente non lo porterai a casa, vero, Stefi? Ho già troppo da fare con te per poter anche guardare un gattino. - Fece uno dei suoi strani sorrisi: - A meno che papà sia disposto a portarlo con sé in ufficio.
La bambina non rispose, accarezzò il gattino con un movimento lento, trasognato, si chinò a sussurrargli qualcosa e mi guardò con una strana intensità. Io allargai le braccia.
- Allora resterò qui.- Concluse Stefania e partì verso il piano superiore stringendosi addosso il suo micetto.


A cena cucinammo io e la bambina, combinando qualche pasticcio ma in compenso divertendoci parecchio. Mi sentivo esaltato come un ragazzino che stia facendo qualcosa di illecito, nell'attesa che arrivi l'inevitabile castigo. Giulia non mi aveva più parlato direttamente, ma era molto gentile con Stefania, come se cercasse di riguadagnarla alla sua causa.
Dopo cena guardammo un po' di televisione, ma la bambina continuava ad andare a vedere come stavano "i suoi micini", molto più contenta di quel regalo casuale della vecchia casa che di tutti i regali ricevuti da quando era nata.
- Alla bambina qui piace. - Le dissi durante una pubblicità.
- Lo vedo. Comunque sarà bene che tu prenda nota di una cosa: io in questa casa non metterò mai più piede. Se vuoi fare l'eremita non posso impedirtelo, ma io non ho nessuna intenzione di diventare vecchia prima del tempo seppellendomi d'estate in questo buco. Visto che ti piace tanto la tua libertà te la posso restituire quando vuoi. Sei libero di venire a fare il boscaiolo quando vuoi, libero definitivamente, hai capito?
- Capisco.
- Questa casa la devi vendere, già lunedì.
- Ma la bambina... - Provai a dire.
- Stefi se ne dimenticherà, sai come sono i bambini, tanto entusiasmo ma poi si scordano tutto.
- Non penso che dimenticherà tanto presto.
- Pazienza, è una bambina che ha avuto tutto, dovrà rinunciare a qualcosa, le farà bene al carattere. Andiamo a letto? - Concluse lasciando che nel tono della voce trasparisse una promessa.
La vidi alzarsi ed uscire verso la scala per il piano superiore. Scossi la testa, cercando di resistere alla tentazione di raggiungerla subito.
Qualcosa mi impediva di abbandonarmi al puro e semplice desiderio di lei, forse un po' di paura o un residuo della testardaggine che aveva segnato il mio comportamento per tutto il giorno. Stava giocando e lo sapeva, ma se io ero disposto a incarnare la parte dell'innamorato senza più dignità né amor proprio, la bambina certamente non lo era. Fu in quel momento che il pensiero si formò nella mia mente, un pensiero che non avevo mai lasciato emergere completamente, respingendolo senza rendermene conto: Giulia non amava la bambina, probabilmente non l'aveva mai amata. Quella fragile creatura la legava a me e le ricordava che anche lei era destinata ad invecchiare ed a diventare adulta. La raggiunsi dopo qualche minuto. Il suo corpo era assurdamente desiderabile, come sempre. Mi nascosi nelle sue braccia cercando di dimenticare.


Mi svegliai verso le due, affannato e sudato. Nel sogno avevo visto Stefania in cortile, seduta a guardare la luna piena, mentre qualcosa le si avvicinava alle spalle, qualcosa che aveva il profumo di Giulia e non produceva il minimo rumore, nemmeno un respiro, un fruscio.
Era sorta la luna, che illuminava il letto ed il corpo di Giulia, addormentata. Nell'aria c'era un debole sentore del suo profumo ed un silenzio assoluto, un silenzio che non ero abituato a sentire in città.
Sorrisi scuotendo la testa e mi accesi una sigaretta. Poi, per non saturare di fumo il piccolo ambiente decisi di uscire a fumare sul ballatoio. L'aria era fresca e profumata e mi appoggiai al corrimano inspirando forte.
Stefania era nel prato, seduta a guardare la luna, di fianco ad un albero che non mi ricordavo di aver visto quella mattina, una betulla sottile e molto alta. Teneva in braccio qualcosa, pensai ad uno dei suoi micini e seduta di fianco a lei c'era mamma micia, tranquilla come se si fossero sempre conosciute. Di tanto in tanto la accarezzava e le diceva qualcosa che non riuscivo a sentire.
Dopo un primo momento di smarrimento provai una fitta di dolore a pensare al tradimento che stavamo preparando ai danni della bambina e dei suoi micetti.
No, non avrei potuto vendere quella casa, non avrei potuto tradire Stefania ed il suo ingenuo entusiasmo. Non mi avrebbe mai perdonato, ne ero sicuro. Ma Giulia avrebbe accettato di venire ancora lì? Guardai la luna placida che illuminava a giorno le punte degli alberi nel bosco e dovetti riconoscere con me stesso che no, non sarei riuscito a convincere mia moglie.
Per la prima volta considerai la possibilità di separarci ma allontanai da me il pensiero. Stefania sarebbe finita a lei ed io sarei diventato uno dei tanti padri da "una domenica pomeriggio ogni due", soli come cani e lugubri quando incontrano un'altra donna.
Qualcosa attrasse la mia attenzione. Non c'era vento, quella notte, ma quello strano albero, la betulla, oscillava come se fosse scossa dalla tempesta. La osservai ipnotizzato, senza nemmeno riuscire a chiamare la bambina.
Ero sicuro che l'albero non ci fosse, quella mattina: mi ricordai della stupida felicità a pensare ai funghi nel giardino e mi convinsi che c'era qualcosa di strano, innaturale.
Stefania non sembrava nemmeno accorgersi dell' albero che stormiva, come se non fosse stato reale, se solo io l'avessi visto e udito.
- Stefi. - Urlai, improvvisamente spaventato.
La bambina non si voltò, continuando a fissare la luna ed a parlare a bassa voce tra sé.
Scesi le scale di corsa e le arrivai alle spalle. La betulla scricchiolava e sembrava lamentarsi come una creatura viva, oscillando nel mezzo del prato.
- Stefi, non senti l'albero? - Le dissi.
Si voltò lentamente, troppo lentamente, pensai, per una bambina di quell'età: come si voltano i vecchi.
- Vi ho sentito. - Mi rispose. Aveva un lieve sorriso sulle labbra, lo stesso sorriso ironico di sua madre. - Ho sentito LEI.
La guardai spaventato, c'era un odio cristallino, assoluto nei suoi occhi, qualcosa di assurdo, impossibile.
- Vieni a letto. - Le ordinai, rendendomi conto di dire la più stupida delle frasi.
- Aspetta, papà. - Replicò tranquilla, come se già sapesse, come se avesse già visto tutto.
Mi voltai verso la casa. Con un crepitio ed una specie di ululato la betulla, divelta dal vento cominciò ad inclinarsi.
Giulia era uscita, non so da quanto tempo ci stesse guardando, e ora stava camminando sul prato, procedendo verso di noi. Le urlai di non muoversi e le corsi incontro.
L'ultima cosa che ricordo di quella notte è l'albero che scivolava lento verso di lei ed il suo volto terrorizzato, illuminato dalla luna.


Fu l'alba a risvegliarmi, sdraiato sul prato madido di umidità. Non c'era nessuna betulla, solo il cadavere di Giulia, coperto di rugiada.
Stefania era nel suo lettino, con i suoi gatti. Quando la svegliai mi sorrise. - Ho fatto un sogno papà. - Si strofinò gli occhi. - Uno strano sogno.
Il medico legale scrisse che si era trattato di un'emorragia cerebrale. A nessuno feci il minimo accenno a quello che avevo visto quella notte.
Vendetti la casa in città e venni a vivere lì, adattandomi ad un lavoro di consulenza per alcune ditte della valle.
Stefania cresceva felice e stava diventando qualcosa di molto simile a quello che sua madre, così cittadina ed evoluta, aveva sempre detestato: una vera selvaggia, ben poco femminile, forte e colorita.
Non parlammo più di Giulia.
Era diventata una ragazza, ormai, la mia Stefania, anzi una donna.
Avevamo tanto in comune, amavamo quella casa ed il bosco, passavamo tante ore insieme a girare per le valli, scoprendo tante cose. Avevo smesso di sentirmi solo, un po' tetro, incompreso, debole.
Adesso quando vado in giro per lavoro ho smesso di presentarla come mia figlia. In fondo la gente che diritto ha di impicciarsi dei nostri affari?

2 commenti:

S_3ves ha detto...

Questo racconto mi aveva sorpreso, inquietato, la prima volta che l'ho letto, tanto tempo fa. Mi toccava da vicino, come figlia, non come moglie. Adesso, da madre, mi rendo conto nella narrazione che c'è qualcosa di fatale, che francamente ha meno a che fare di quanto credessi con la complicità padre-figlia e con la competizione madre-figlia. Mi pare che in gioco ci sia il ruolo genitoriale di tramite tra i figli e il mondo, un ruolo pubblico, non soltanto affettivo. Questa madre non lo vuole quel ruolo, e per non accollarserlo è pronta a stabilire una falsa complicità con la figlia ai danni del marito. Gioca sporco, in poche parole, forse perché si sente più debole. Sinceramente non riesco a comprenderla; non perché pare un po' stupida, rintanata com'è nella sua routine cittadina, ma perché non si mette in gioco, e lascia la figlia interamente a lui.

Massimo Citi ha detto...

@S_3ves: sono discorsi privati affrontati tra noi molte volte. Ma non ho scritto il racconto per attaccare qualche categoria di donne ma semplicemente per prepararmi psicologicamente alla paternità. Nel 1990 mancavano soltanto due anni, in fondo :)
Il desiderio e la paura di una figlia - curioso, vero, che non ho mai creduto seriamente che potesse nascere da noi un maschio - si reincontrano in diversi dei miei racconti, La dama nera innanzitutto. Dopo di ché l'immagine di madre che emerge da questo racconto è l'immagine in negativo della donna che temo di trovarmi accanto. Una donna con la quale non posso davvero condividere nulla di serio e importante. «Eliminarla» come avviene nel racconto è probabilmente l'unica soluzione. Ma è una soluzione che può, nuovamente, condurre unicamente la figlia. Il padre è e resta un vigliacco, comunque.