27.8.21

Le letture di un anno… o giù di lì.

È passato un bel po' di tempo da quando ho allineato alcune righe in questo blog e anche in quel caso, ormai remoto, ho parlato delle mie letture. Una cosa che è possibile non interessi a nessuno o quasi, ma che non posso smettere di fare e che probabilmente farò fino al mio ultimo giorno, insieme a leggere come se non ci fosse un domani.

Il piatto di questa edizione del nuovo post è particolarmente ricco, dal momento che sono mesi che non trascrivo nessuna delle mie impressioni di lettura, fatta eccezione per un paio di libri letti ultimamente: La fine di tutte le cose di China Mieville, e La Città condannata di Arkadij e Boris Strugackij, che sono apparsi nel sito di LN-LibriNuovi. 

Comincerò con un saggio di Carocci, uscito nel gennaio 2012, uno degli ultimi che ho ospitato nella mia libreria: L'invenzione della virilità di Sandro Bellassai. A differenza della mia abituale condotta in termini di lettura, si tratta di un volume zeppo di sottolineature, commenti e note scritte a mano ai margini del testo, questo per la paura che qualcuna delle osservazioni dell'autore mi sfuggisse nel corso della lettura. La virilità, come costruzione concettuale, è un dato indiscutibile, eterno, naturale e quindi a-storico o una condizione che varia nel tempo e che non ha nulla di naturale ma è pienamente storica? La tesi di Bellassai è evidentemente la seconda, e ce ne fornisce esempi seguendo tre periodi ben definiti della storia contemporanea: il periodo a cavallo tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX, il periodo del ventennio fascista e il dopoguerra, giungendo fino all'inizio del XXI secolo. 

Nel divenire del tempo l'autore individua una variazione nella concezione e nella visione della virilità che, stimolata dalle variazioni sociali ed economiche nate alla fine del XIX secolo, conobbe una ripresa e una nuova concezione:

Nella società italiana fra Otto e Novecento, in particolare, il connubio tra virilismo, concezioni gerarchiche (razzismo, misoginia, omofobia), autoritarismo rafforzò non poco ognuno di questi elementi culturali e politici […]. Un simile conglomerato simbolico, di impianto sostanzialmente tradizionalista, […] perpetuò se stesso nella piena modernità, fino alla seconda metà del Novecento. [pag. 23]

Si consumò così il connubio tra virilità e virilismo, con la scomparsa della prima, divenuta una ovvia appendice del secondo, unica forma accettabile di ideologia:

«Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno […] Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo –, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore, e il disprezzo della donna.»[pag. 57]

I futuristi, nel loro primo Manifesto del 1909, riunirono magistralmente i diversi elementi di un virilismo trionfante, che mentre esalta la guerra e l'aggressività, non trascura di esibire, come corollario necessario, il disprezzo per la donna.

D'altro canto la donna è quella creatura che:

Chiaramente appare, non per materiale inferiorità mentale e organica, ma per le funzioni inerenti al sesso, non può e non deve tendere a gareggiare col maschio nei lavori mentali e manuali. [L.M.Bossi, pag. 47]

E la segregazione e il disprezzo per la donna raggiunse il suo grado massimo nel ventennio fascista, con osservazioni del tipo:

I veri uomini non hanno bisogno delle donne, anzi, se ne allontanano sdegnosamente. [cit. da Traverso E. in La violenza nazista. Una genealogia]

L'am0re per le donne e quello per la patria sono contrapposti [cit. da Theweleit K. in Fantasie virili]

giungendo alla teorizzazione, per la quale la donna "moderna" non può che essere una contraddizione in termini: 

Essendo la donna la parte per eccellenza "naturale" dell'umanità, ed essendo natura e modernità due termini opposti e inconciliabili, se la donna era moderna non era più donna, non poteva cioè essere considerata appartenente al genere femminile. [pag 83]

E la difesa della "stirpe" dagli agguati delle femmine e dei "negri" trovò la sua definitiva consacrazione nelle leggi relative alle colonie che: 

[consegnarono] a noi italiani il poco invidiabile privilegio di aver prodotto la più organica legislazione razzista della storia del colonialismo, seconda soltanto al razzismo nazista e al regime di apartheid sudafricano per ampiezza, rigore, disprezzo per l'uomo e brutale malvagità.[da Rochat G. in Il colonialismo italiano]

Con la fine del fascismo e la sconfitta, anche gran parte dei miti che accreditavano il virilismo come parte essenziale della Nuova Italia impallidiscono fino a divenire per gran parte della società sostanzialmente ridicoli:

il periodo che ebbe al centro la "grande trasformazione" degli anni '50 e '60 chiuse definitivamente una pluridecennale fase storica in cui i modelli di mascolinità ispirati al virilismo nella sua declinazione più autoritaria, gerarchica e violenta avevano detenuto una notevole egemonia nell'immaginario collettivo maschile. [pag. 99]

Ma in una forma depotenziata questa concezione della virilità rimase ben presente nella società. Il successo e il dinamismo nella loro accezione innanzitutto pubblicitaria divenne il nuovo marchio "maschile", supportate da un consumismo che prometteva a ognuno un "quarto d'ora di virilità" in cambio dell'acquisto di un determinato prodotto. 

Certamente l'uomo degli anni '60 […] sarebbe dunque stato moderatamente liberale e tollerante verso le donne, ma anche incline ai piaceri della vita e ai beni voluttuari; giustamente narcisista e individualista, brillante in società e competitivo, pragmatico, scettico e cinico quanto basta. [pag. 115]

Ma a partire dagli anni '70 l'incontro/scontro con il femminismo e soprattutto con il crescente risalto sociale delle donne, mise duramente alla prova il nuovo virilismo, nato per rassicurare la metà maschile del genere umano, creando una resistenza sorda, un virilismo "informale" basato sostanzialmente su una misoginia frammentaria e disordinata e su una resistenza i cui risultati emergono spesso in modo  clamoroso:

l'impressionante ma quasi universalmente ignorato […] fenomeno della violenza maschile sulle donne [pag. 155]

Il libro si ferma alla prima decade del nuovo millennio, non senza, tuttavia, aver lanciato un segnale allarmante che possiamo verificare quotidianamente. 

Un ottimo libro, basato su una ricerca storica e bibliografica di grande rilievo. Unico limite – che peraltro l'autore stesso dichiara – è la sostanziale mancanza di qualsiasi riferimento all'omosessualità maschile, un elemento che avrebbe sicuramente arricchito il volume ma probabilmente rendendolo troppo complesso e meno immediatamente fruibile. Una lettura che consiglio volentieri ai nuovi galli e ai leoni da tastiera, oltre che ai violenti sotto traccia. 

A questo punto... beh, recensirò ancora qualcosa ma temo che dovrò rimandare il grosso dei libri letti a una "Letture di un anno, parte seconda".

E, dal momento che siamo sul complicato, andiamo su un romanzo del 1922, di Evgenij Zamjatin, Noi letto nelle ultime settimane in una vetusta edizione Feltrinelli del 1963...[*] Come mi sia ritrovato il libro in casa non saprei dirlo, sinceramente, ma ancora più sorprendente il dato che non l'abbia mai letto. 

Noi è un romanzo ampiamente presentato, come 1984 o The brave new world o La notte della svastica o, ancora, Il racconto dell'ancella, come un esempio di letteratura distopica, ovvero dell'affermazione di una forma di convivenza in una società compiutamente autoritaria, dove esiste e prevale un solo punto di vista definitivo sul reale. Da questo punto di vista Noi è un esempio magistrale di tale visione deformata della realtà. Il protagonista, D-503 – il cui nome è divenuto una sigla numerica assecondando le norme vigenti sotto lo Stato Unico –, scrive un diario personale che noi, lettori di un altro tempo e altro luogo, abbiamo l'occasione di leggere. D-503 si presenta come un matematico, il costruttore di un apparecchio, l'Integrale elettrico di vetro, in grado di raggiungere altri mondi e di diffondere il verbo del Benefattore, la forza e la grandezza dello Stato Unico e della sua vita matematicamente perfetta. D-503 ha un rapporto, matematicamente definito, con O-90, una femmina scelta per lui dai Guardiani e con la quale conduce una relazione che settimanalmente e per un'ora gli permette di abbassare le tendine – unico momento di privacy accettabile – e dedicarsi a lei. Che il loro sia amore è ovviamente non detto e da un certo punto di vista, inaccettabile: semplicemente il loro è una delle tante relazioni che Benefattore concede al popolo di numeri che vive nello Stato Unico. Il problema, minuziosamente descritto da D-503 nel suo diario, è l'incontro con I-330, una donna della quale il costruttore inopinatamente si innamora, comportandosi come tutti coloro che sono colpiti da un sentimento incomprensibile, da un istinto che li spinge a cercare una compagnia che i Guardiani non ammettono. 

Affetto da ciò che ritiene una grave malattia, gradualmente D-503 trova sempre meno credibile la costruzione eretta dal Benefattore, ma se ne duole, cerca di resistere, mentre I-330 lo spinge gradualmente a una resistenza recalcitrante, al dubbio vissuto come un'imperdonabile affezione. 

La fedeltà di D-503 allo Stato Unico conosce lunghi momenti di stasi: il rapporto con l'enigmatica I-330 lo svuota, lo spinge a volere e disvolere e anche i suoi rapporti con i colleghi e i superiori divengono altrettanto tesi e insostenibili. È soltanto quando una serie di eventi si sovrappongono, tra i quali la propaganda per la Grande Operazione, "quella che renderà gli uomini finalmente felici come macchine", creando una crisi temporanea dello Stato Unico, che emergono le reali intenzioni di I-330: impadronirsi dell'Integrale e favorire la rivoluzione.

–  Questo è insensato! È assurdo! Non capisco non capisci che voi tramate è la rivoluzione?

–Sì, la rivoluzione! Ma perché è assurdo? 

– Assurdo perché la rivoluzione non può essere. Perché la nostra rivoluzione [...] è stata l'ultima. E non ci può essere nessun'altra rivoluzione.

[...] E tu quale ultima rivoluzione vuoi? Non c'è un'ultima rivoluzione, le rivoluzioni sono senza fine.

Ovviamente la rivoluzione, l'ultima rivoluzione, non può che fallire e D-503 non potrà che normalizzarsi, accettando il meccanismo che libererà la sua mente da ogni desiderio, sogno, speranza e amore. Un finale amaro e gelido chiude il testo. 

Un romanzo nato dalla disillusione di chi ha "smesso di essere bolscevico", da un musicista matematico che chiese e ottenne l'esilio per poter continuare a scrivere ciò che riteneva importante, rigettando la dottrina del "realismo socialista" e la "prevalenza del quotidiano sul contemporaneo"[**].

Tradotto in inglese e in francese senza mai essere apparso in lingua russa, Noi entrò meritatamente a far parte del gruppo dei romanzi distopici, anche se la sua fama rimase per lungo tempo involontariamente oscurata da 1984 di Orwell, uscito negli anni '30.

Un romanzo che è comunque meritevole di lettura, indipendentemente dalla tesi politica in esso contenuta. Duecento pagine cariche di un'angoscia esistenziale che non è facile dimenticare né rimuovere. Freddamente c0ndotto con precisione matematica e disperata follia fino al suo inevitabile exit. Davvero notevole. 

[*] Attualmente disponibile anche in Oscar Mondadori nella traduzione di Alessandro Niero e edito da Fanucci, con la traduzione di Alessandro Cifariello.

[**] dalla prefazione del curatore e traduttore Ettore Lo Gatto. 

Continuiamo con un altro libro corposo come volume e impegnativo per un normale lettore, anche se in grado di ricompensare l'indiscutibile fatica di averlo terminato. Parlo di Terminus Radioso di Antoine Volodine, 2016, edito da 66thand2nd (editore del quale, a onor del vero, non mi perdo un libro).

Il volume è organizzato in quattro parti: kolchoz, elogio dei campi di lavoro, amok e taiga, e si svolge nella Seconda Unione Sovietica, una sconfinata zona contaminata da una terrificante catastrofe che ha coinvolto tutte le centrali nucleari esistenti.  I tre soldati che giungono a Terminus Radioso sono contaminati e confusi ma la loro speranza di comprendere e ritornare a una vita normale è destinata a non trovare soluzione nel kolchoz. Il tempo a Terminus Radioso non procede nei modi ai quali siamo abituati, la morte non è definitiva come non lo è la vita, i sogni divengono reali e la realtà può trasformarsi in una visione, i dialoghi tra i personaggi possono essere privi di un significato ragionevole e facilmente comprensibile e qualunque sforzo, impegno, fatica è destinato a naufragare senza possibilità di successo, in un tempo che procede a velocità variabile e talvolta a ritroso.

Il kolchoz è guidato da due personaggi ognuno a suo modo centrale nel corso del romanzo: Nonna Udgul, eroina del Partito resa immortale dalle radiazioni, che presidia il sito in cui una pila atomica è sprofondata nel terreno alimentando l’intero villaggio, e Soloviei, padre di una ragazza e di due sorelle, sciamano dotato di strani poteri che vede nel soldato Kronauer, appena arrivato, una minaccia all’equilibrio del villaggio. I rapporti tra Kronauer, Nonna Ugdul e Soloviei divengono il centro di una vicenda che procede senza direzione e senza un finale definitivo.

Leggendo altre recensioni scritte sul libro ne ho incontrata una che coglieva singolarmente il problema – e insieme il pregio – di Terminus Radioso: «Questo libro poteva essere di trecento o di milleecinquecento pagine». Verissimo: se è vero che il talento a tratti notevolissimo di Volodine riesce a rendere perfettamente godibili anche i passi meno afferrabili del testo, resta vero che il libro spesso sfugge agli abituali ritmi di lettura, provocando una curiosa reazione nel lettore. Questo lettore ha abbandonato la lettura – esaperato – intorno a metà libro per poi riprenderla, trascorso qualche mese, e condurla alla fine con grande piacere. Non solo, con l'insistente sensazione che il libro avrebbe potuto procedere oltre senza crearmi problemi. 

Il motivo? Non facile da afferrare ma che posso riassumere così: Terminus Radioso racconta il Caos, narrandolo in migliaia di attimi, tutti in apparenza significativi ma che insieme non sono in grado di costruire una storia verosimile, pur creando nel lettore la suggestione di ciò che avrebbe potuto accadere e di ciò che è probabilmente accaduto ma del quale non vi sono testimonianze o dove i testimoni presenti non sono credibili.

Se ve la sentite di affrontare un libro tanto particolare i miei migliori auguri ma se, come me, siete abituati a un certo modo di procedere più piano e regolare preparatevi a odiare Terminus Radioso, a rifiutarlo e a riprenderlo in mano, a nasconderlo in fondo alla pila dei libri che state leggendo e ripescarlo per rileggerlo ancora. In ogni caso un libro che non è facile abbandonare e che è in grado a penetrare profondamente nel vostro modo di vivere la lettura.

Concludo questa serie di libri con un piccolo capolavoro della sf anni '70: Maske: Thaery di Jack Vance, ripescato nel corso di una sessione di riordino di una delle librerie di casa, per la verità mai terminata e tuttora in sospeso.

Maske: Thaery è un romazo del 1976, pubblicato in Italia nel 1978 dall'editrice Nord per la traduzione di Alessandro Monti. La vicenda riguarda un Glint – una delle etnie del pianeta – il giovane Jubal Droad, figlio cadetto di una delle principali casate. Dal momento che la vita presso la casa di famiglia non lo attira affatto, il nostro Jubal decide di emigrare e di recarsi presso la capitale, Wysrod, alla ricerca di una buona occasione.

Trattato con sufficienza, quando non con aperto disprezzo, per la sua etnia di origine, poco amata dai Tharioti, la principale etnia del pianeta. Ma grazie alla sua iniziativa, alla sua considerevole faccia di bronzo e a una curiosità inesauribile, in tutto degna di un vero investigatore, Jubal giunge a smascherare Ramus Ymph, membro di rilievo di una delle grandi famiglie, pronto a asservire il pianeta a una società multiplanetaria, decisa a fare del pianeta un luogo di svago e di un turismo affannoso e rapace.

Davvero notevole il finale e la curiosa sorte alla quale è destinato il traditore, ma in generale è l'intero volume a essere un vero locus vanceiano, per la presenza di alcuni topoi tipici dell'autore californiano, dalla donna fredda, calcolatrice e incurante dei propri interlocutori, alla sua giovane "amica", mentamente instabile, al villain, un individuo rozzo e volgare nonostante la sua posizione sociale, alla insopportabile alterigia, venata di un evidente razzismo, con la quale Jubal viene spesso accolto. 

Un romanzo davvero divertente e narrato con la consueta raffinata e attenta precisione da uno dei migliori autori di space opera e di sf sociologica – o che, forse, sarebbe più corretto definire xenoantropologica.

La lettura di Maske: Thaery è avvenuta insieme a quella de Le case di Iszm dello stesso autore, un testo uscito nel 1964 e tradotto per la prima volta in italiano nel corso dell'anno successivo. Non ne parlerò qui dal momento che il libro è stato letto anche da Silvia Treves e sarà lei ad avere l'onore di presentarlo...

E con quest'ultimo libro ho finito per questa volta. Grazie a tutti per essere arrivati fin qui e arrivederci a presto!


Nessun commento: