–
È
stata colpa di Rumpus. Non era tornato a casa alla solita ora e sono
uscita a cercarlo. L’ho trovato dopo aver camminato un bel po’,
nel giardino di Villa Magistri. Lo so che non si può ma io sapevo
come entrare, l’ho visto fare dai bucomani. Comunque Rumpus era con
altri trenta o quaranta mici, tutti accucciati in cerchio a guardarsi
senza muoversi. Mi hanno ignorata completamente e io non ho avuto
cuore per disturbarli: sembravano così concentrati, così convinti.
Sono passati anche un paio di tossico che ci hanno guardato e poi
sono scappati borbottando qualcosa sul medioevo e sulle streghe. Dopo
un’oretta di litigi e soffi i mici hanno smesso di colpo e si sono
messi a miagolare tutti insieme. Avresti dovuto sentirli: un vero
coro di trapassati che rimpiangevano la vita perduta. Io li ascoltavo
godutissima. Pensavo a quanto stavano rompendo le palle al vicinato,
a tutte le coppie che avrebbero litigato perché svegliate in piena
notte, ai bambini picchiati, ai nonni brutalizzati perché
maledicevano i tempi in cui vivevano, ai tossico terrorizzati, a
tutti gli imbecilli che soffrono d’insonnia che avrebbero passato
la notte a far solitari e mi sentivo proprio bene. Temevo solo che
qualcuno avesse il cattivo gusto di chiamare la pula, ma per
fortuna…Stavi dicendo qualcosa?
–
No.
E.
ha rinunciato da tempo a cercare di instillare un po’ di amore per
i suoi simili nella cugina. Ma non è che lei si senta migliore, più
furba o più intelligente della media. Probabilmente Mirella è solo
delusa, un’osservatrice troppo acuta e sensibile per non soffrire
delle infinite scemenze e falsità che vede o sente. Come tanti altri
«più conosce gli uomini e più ama gli animali» e fa la faccia
feroce per non farsi un fegato così. Ma è una brava ragazza, un
cuor d’oro. Giuro.
–
…Poi, sul più bello del concerto è arrivata la nave e ne è sceso
un tizio che si è messo a parlare con i gatti. Parlava in italiano,
il che mi è sembrato un po’ strano, e diceva qualcosa sulle
condizioni insalubri di vita dei mici. Rumpus ha fatto un paio di
osservazioni sull’eccesso di automobili e sulla loro pericolosità
e… Ma cosa stavi dicendo?
–
Niente, niente… – La scena non é molto diversa da quella alla
quale ha assistito lui ed è quindi inopportuno che metta in dubbio
le capacità raziocinanti e la conversazione dell’enorme Rumpus, un
gatto che per dimensioni e malevola perfidia ricorda Alfred
Hitchcock. – Ho visto Rumpus entrare nella nave ed ho gridato.
“Rumpus, dove cazzo credi di andare?” L’ultima cosa che ricordo
é il pilota che veniva nella mia direzione. Mi sono svegliata qui
dentro con una punta di mal di testa e con te che russavi. Tutto qui.
E.
la fissa e scrolla la testa.
Mirella
é sicuramente capace di gridare dove cazzo credi di andare anche in
presenza di un alieno. Dal suo racconto comunque desume un fatto
fondamentale: contrariamente alle sue speranze anche la Puffa
Cannibale é sprovvista di nozioni sulla loro destinazione e sulla
loro sorte.
–
Adesso Rumpus dov’é?
–
Cosa te ne frega, vuoi pestargli la coda un’altra volta?
–
SSHHHT, vuoi farti sentire dal pilota?
–
Beh, lì afferma di essere buono.– Mirella indica la scritta sulla
lavagna. – Un po’ rintronato, magari, ma buono.
–
Non intendevo…cioè …– Cerca di proseguire E.
–
Rumpus non si vuole sbottonare, se è per questo che lo cerchi. Dice
che ci sono in ballo cose grosse e che non è ancora il momento di
spiegarci tutto. Comunque puoi chiederlo al pilota, è proprio dietro
di te.
E.
si gira di scatto, sentendosi nei panni del dottor Van Helsing nel
sotterraneo del castello di Dracula. Ma essendo più lungo e
sgraziato di Peter Cushing inciampa nel sacco a pelo gentilmente
prestatogli dall’alieno, cade e si aggrappa ad uno dei banchi della
prima fila che decide di seguirlo nella sua corsa. Raggiungono
felicemente il pavimento insieme producendo un bel frastuono
metallico e vocale. Non pago dell’esibizione balza in piedi,
giudicando troppo assurdo l’essere sorpreso abbracciato ad un banco
da un alieno, e infila un piede nel cestino della carta straccia.
I
suoi tentativi di liberare il piede, simili agli sforzi di una
distinta signora assillata da un barboncino allupato, non provocano
reazioni sul viso rugoso e grigiastro dell’alieno, che si limita a
circumnavigarlo cautamente, reggendo nelle mani a tre dita un ampio
vassoio. Il vassoio viene quindi posato su un banco alle spalle di
Mirella e l’alieno Pelagio dichiara con voce compunta, il viso
rivolto verso la parete di fronte: – Il caffè.
Di
quale strana razza fa parte il pilota alieno? Dove è diretta la sua
astronave? È buono il caffè degli alieni o è una sciacquatura di
piatti bollente come in certe bettole della provincia francese?
Perchè
Mirella ed E. sono stati rapiti? Quale segreto nasconde Rumpus, il
gatto senziente di Mirella? Perché Mirella si diverte a spiare
l’effetto della sua biancheria intima sul povero cugino?
Tutte
tranne l’ultima sono domande di grande rilevanza, e le risposte
avrebbero il sicuro effetto di cambiare la vostra concezione del
mondo e di accorciare di un buon centinaio di pagine il romanzo.
Ecco
perché risponderò solo all’ultima, in quanto decisamente la meno
significativa.
Mirella,
nata nel 1988, nove anni nel novantantasette come da foto che non
allego, con in mano una lucertola e una serie completa di ditate
fangose sulla guancia, è sempre stata una creatura tenacemente
sovversiva, ironica e disincantata, una specie di versione padana di
Marlowe.
Di
femminile in senso classico Mirella ha sempre avuto poco: dopo
un’infanzia passata a capeggiare gruppi di ragazzini
nell’esplorazione di cunicoli e fabbriche abbandonate – abitudine
che la madre, donna perbene, attribuiva all’influenza del padre
speleologo – dopo un gran numero di scontri all’arma bianca con
altri gruppi di ragazzini nemici che avevano reso la sua concezione
del mondo molto simile a quella di un sergente cinquantenne
dell’Armeé napoleonica, dopo infinite cadute dalla bicicletta e
dagli alberi, zuffe nel fango ed eroici assalti a fortini dagli
spalti di siepe, un brutto giorno aveva scoperto che il suo petto
invece di rimanere piatto e duro come quello di un maschio, cresceva
e si rammolliva.
La
minuziosa e pedante educazione sessuale ricevuta dal padre le aveva
permesso di capire ciò che le stava accadendo ma non l’aveva
affatto consolata. Il regalo del primo reggiseno (di cotone bianco a
farfalline rosa e gialle) era stato il sigillo della metamorfosi,
alla quale Mirella undicenne assisteva con orrore, come il
protagonista di un film di fantascienza contaminato da qualche
disgustosa malattia.
Inutile
era stato anche il rogo del reggiseno, avvenuta in una notte di
novilunio in presenza dei ritratti sottratti allo studio del padre di
Von Wegener e di Lyell, testimoni rispettabili e concentrati
dell’incantamento.
Ma
entro pochi giorni Mirella dovette registrare l’inutilità del
sortilegio oltre alla scarsa serietà dei geologi passati presenti e
futuri. Nelle zuffe, negli assalti, infatti, i suoi stupidi compagni
di giochi non sembravano più tanto interessati a vincere, quanto a
far durare il più a lungo possibile il contatto, facendo scivolare
le mani sul petto incriminato o su altre parti altrettanto
metamorfiche.
Infine
si era arresa alla verità: i ragazzi non la vedevano più come una
di loro. Alcuni, i più misogini, come tanti Padri della Chiesa erano
già corsi ai ripari, rimproverando i compagni che svilivano l’impeto
guerresco nelle mollezze della sessualità e combinando appuntamenti
senza avvisarla.
Si
può immaginare lo stupore addolorato di Mirella, sergente
malauguratamente divenuto transessuale, e l’amarezza consumata in
sella all’eroica bicicletta dalle ruote semiovali, sola nel parco a
pensare alle malefiche neotette, infiorellate dal secondo reggiseno.
Si
era chiusa in casa uscendo solo per frequentare la scuola. La precoce
delusione l’aveva resa amara, accentuando il suo già
sviluppatissimo senso critico, tanto da farne uno spauracchio per
insegnanti e compagni che temevano il suo umorismo perfido e
surreale.
La
trasformazione non aveva comunque migliorato il suo giudizio sul
sesso femminile, che continuava a ritenere formato per metà da
stupide galline e per l’altra metà da noiosissime piagnone,
accomunate da un romanticismo da fumetto al quale dedicava i suoi
peggiori sarcasmi. Ma quell’atteggiamento così reciso l’aveva
privata della confidenza e dello scambio di esperienze, lasciandola,
per quanto riguarda il mondo del sesso, nella stessa situazione di un
antropologo di fine ottocento laureato a Tubinga appena sbarcato in
un isola dei mari del Sud.
La
seduzione era rimasta per lei una mera bizzarria, un fenomeno simile
alle migrazioni dei Lemmings o all’infanticidio negli orsi. Spiando
le compagne di scuola aveva sí scoperto alcuni trucchi base –
accavallare le gambe o sgranare gli occhi – ma non aveva mai
trovato un ragazzo che reggesse per più di dieci minuti filati al
suo humour.
E
così, tra tentativi e frustrazioni Mirella aveva girato la boa dell’
adolescenza, trascorrendo lunghi pomeriggi in compagnia una
fornitissima biblioteca di orrore e letteratura gotica. Approdata
alla convinzione che l’altra metà del cielo non fosse poi tanto
più furba, Mirella riusciva a sopportare quasi solo la compagnia del
cugino, creatura dal cervello embrionale, ma dotata della serenità
stuporosa necessaria a tollerare la sua ironia e di gusti ed
interessi talmente rudimentali da non intralciare in alcun modo i
suoi.
Nessun commento:
Posta un commento