6.12.12

In attesa

Un racconto, scritto nel 1999 e pubblicato nel 2001 su Fata Morgana 4, «Nuvole». Un racconto... beh, diciamo di sf, sottogenere catastrofico, tanto per sgombrare il campo, anche se inevitabilmente un po' ballardiano nell'approccio e nella storia raccontata. Nato da un frammento mal ricordato di una vecchissima canzone (1971) scritta da un gruppo praticamente sconosciuto e tratto da un album dal nome profondamente suggestivo (per me): «Alpha Ralpha Boulevard». Nel brano qualcuno cantava: «... E rido con i miei cani / ebbro di felicità...»



Stamattina, verso le cinque, sono arrivati altri due camion.
Ho sentito gli uomini aprire le porte, scaricare le vecchie coperte color polvere, li ho sentiti parlare troppo forte, scherzare ad alta voce. Hanno messo in posizione la gru montacarichi senza preoccuparsi di quelli che dormivano. Siamo rimasti in ben pochi, in questo quartiere.
Li ho spiati dalle fessure delle serrande che lasciavano entrare una luce lattiginosa. Si muovevano velocemente, ma con una sorprendente cautela, con la sicurezza dei gesti di chi è abituato a utilizzare l'intero corpo, nel lavoro, e insieme con l'attenzione di chi non vuole scuotere la terra, di chi cerca di passare inosservato.
Siamo in molti, ormai, a farlo. Molti a muoverci - in ritardo - con questa nuova cautela. Molti a camminare sulla terra con la gentilezza che si ha nell'appoggiare il passo su un pavimento antico, fragile e incerto.
Qui, molto vicino al nuovo limite della costa noi superstiti abbiamo cessato di usare la macchina. La corrente elettrica arriva solo per due ore al giorno e per comunicare non ci sono rimasti che i telefoni cellulari, almeno finché vi saranno ancora ripetitori.
Dalla finestra, al quarto piano cominciano a scendere i mobili. Mobili scuri, lucidi e rotondi come carapaci di scarabei. Specchi, sportelli chiari di cucina, lavatrice, frigorifero, lavastoviglie, scrivanie, scaffali smontati, tappeti arrotolati. Da una finestra aperta una donna, con il viso coperto da un foulard, assiste alla morbida discesa dei suoi mobili, la gru montacarichi ronza, gli uomini lanciano le coperte, spostano, caricano, danzano attorno ai loro camion. Il cielo si schiarisce a oriente, oltre i tetti delle fabbriche affondate.

Conoscevo quella donna? Non smettevo di osservarla. Alle sue spalle il buio, la luce arriverà più tardi, verso le otto.
Era giovane? Sì era giovane, poteva essere una sorella minore della padrona di casa o una figlia già grande. Indossa una vestaglia da notte, un pigiama, ancora tiepido? Sentirà l'odore del proprio sonno salire dalla fessura chiara tra i seni?
L'odore intimo del proprio sesso, per l'ultima volta nella giornata. È sottile, magra. Si volta per parlare con qualcuno dentro casa. Scompare.
Vieni a vestirti, vieni ad aiutare, ci sono i bicchieri da imballare, ci sono i piatti da salvare.
Scende una televisione, solenne, lucida. Gli uomini la trattano con rispetto, l'avvolgono nelle coperte come un nuotatore valoroso e stanco.
Un uomo anziano, con un cagnolino li osserva, ai bordi del giardino. Nessuno ha più potato i cespugli che lo separano dal marciapiede. Tra le crepe crescono piante verdi e forti. Il vento porta il leggero odore del mare. 

 
Il suono di una radio accesa. Ineguale, proviene dai finestrini aperti di un'auto che gira nelle vie vuote, zigzagando tra i marciapiedi non più protetti da una doppia fila di veicoli. Sono fuggiti verso l'interno, verso la terra che inavvertibilmente sale, che promette di farsi costa e isola.
Sono usciti per ultimi, portando le valigie e gli ultimi oggetti, i più cari. Sono saliti in auto e hanno atteso, con il motore acceso, che gli uomini terminassero le operazioni di carico.
La mia stanza si accende. È arrivata la corrente, sono le otto. Non spengo più le luci, che bisogno ho di farlo? Devo andare a cucinare sul fornello elettrico le poche cose che mangerò oggi e nei prossimi giorni. Un'ora di elettricità adesso e un'altra alle otto di stasera, per mangiare.
La mia casa è semivuota, poco per volta l'ho svuotata gettando via ogni cosa: mobili, abiti, libri, elettrodomestici, come se, una volta resa più leggera, potesse galleggiare.
Abito al pianterreno, quando arriverà, l'Onda, entrerà dalle mie porte e dalle mie finestre. Finché potrò la guarderò, forte e limacciosa, poi salirò di un piano, di un altro, di un altro ancora. Attenderò che il mare tiri il fiato prima dell'ultimo assalto. Ci vorranno mesi.
I camion vengono chiusi, si accendono i motori. Un braccio si sporge dall'abitacolo del camion, fa segno all'auto di precederli. L'auto scivola sotto le pareti lucide, colorate di giallo e azzurro degli autocarri, proietta la sua ombra sulle grandi ruote. Prende la strada che porta fuori dal quartiere. Alzo le serrande e saluto l'ennesimo piccolo convoglio che fugge davanti al mare.
Nessuno mi risponde, cerco di ascoltare il suono dei motori, di separarlo, finché è possibile, dal silenzio.

Nel cielo le nuvole sono immobili, fotografate dalla luce del sole come particolari di una scenografia. L'aria è ferma, senza odore. La strada, davanti alla mia finestra è vuota.

Potrebbe arrivare di notte, lo so. Entrare urlando dalla finestra, travolgermi senza che neppure me ne accorga.
Non riesco a trovare preoccupante, questa possibilità. Mi addormento ascoltando il silenzio della terra.
L'acqua che sale dai rubinetti, solo due volte al giorno, già da mesi è meno limpida e ha un sapore che ricorda quello delle docce sulla spiaggia.
Sono rimasti pochi rumori, le finestre sono serrate, come se fosse possibile ritornare, ripercorrere al contrario la strada che ci ha portato a questo punto.
Per due ore al giorno ascolto la radio, le stazioni che poco per volta si sono ridotte a una sola, che trasmette sulle onde medie. Che dà informazioni sul traffico, sui villaggi di accoglienza, sulla legge marziale, sulle fucilazioni, sulle bande armate che attaccano i convogli diretti verso l'interno, sulle dighe in costruzione, sulle terre divenute fondali marini, sui terremoti e le frane.
Poca musica, quasi esclusivamente classica, inserita tra un comunicato e l'altro dell'autorità straordinaria che regge quel che resta della nazione.


Qualcuno è rimasto. Nella via alle mie spalle ci sono dei panni stesi ad asciugare. Il vecchio con il piccolo cane che circola in bicicletta, la bestiola seduta nel cestino. Gli sciacalli vengono di notte, entrano nelle case svuotate, distruggono gli infissi, sporcano, qualche volta accendono fuochi. Ma ormai non c'è più nulla da rubare e nulla da distruggere.
Dormo protetto da una porta corazzata e da una pistola. Ma finora non hanno bussato alla mia porta.

Nell'appartamento abbandonato tre giorni fa una luce è accesa. Strano, una delle ultime abitudini civili è di staccare l'interruttore centrale della corrente, come quando si parte per una lunga vacanza.
Nella luce del crepuscolo cerco di individuare un movimento, il passaggio di un'ombra dietro le serrande non completamente chiuse. Un paio di volte ho la sensazione di vedere qualcosa di chiaro che scorre veloce dietro le finestre.
Prendo la torcia elettrica ed esco. Attraverso la strada per raggiungere il palazzo di fronte. Il portone è aperto, salgo le scale fino al terzo piano. La porta dell'appartamento è spalancata, fili elettrici pendono dalle scatole degli interruttori strappate dai muri. La casa è completamente vuota, non solo: il filo che porta la corrente al contatore è stato tagliato.
Mi affaccio alle finestre. Il mio appartamento è ben visibile, da lì. Riconosco la mia finestra aperta, un angolo del letto non fatto, la poltrona.
Eppure stamattina molto presto la luce era accesa, proprio in questo appartamento.
Prima di uscire scardino le serrande delle finestre affacciate verso di me. Esco, cercando di convincermi di aver sbagliato piano.

La luce è incerta, puntiforme. Passa oscillando davanti alle finestre spalancate seguendo un passo lento e regolare ma non riesco a scorgere chi la tiene in mano. La luce di una candela o forse di una piccola torcia. Potrebbe trattarsi di uno sciacallo, di un visitatore, ma perché in quella casa, al terzo piano, dove non c'è più nulla, anonima e uguale a tutte le altre che la circondano?

Il vecchio se ne sta da solo sul marciapiede. Tiene la bicicletta inclinata con una mano, chiama a intervalli regolari: «Rigolò? Rigolòooo?»
Il piccolo cane non c'è. Generalmente compariva strisciando sotto un cespuglio, arrivava zigzagando, il ventre sporco di terra e di frammenti di foglie. Il vecchio lo rimproverava, lo ripuliva con il suo fazzoletto e lo caricava nel cestino della bicicletta. Probabilmente lo portava a vedere il nuovo mare, appena oltre la vecchia stazione.
Ci sono andato solo una volta a vederlo: un mare color cenere, limaccioso, gonfio. A emergere dalle acque sono rimasti gli ultimi piani di un palazzo lontano e le torri della vecchia centrale elettrica, simili a scheletri di ombrelli spezzati e conficcati nell'acqua. All'ultimo piano il palazzo, reso più chiaro dalle piogge, ha ancora le antenne paraboliche, puntate verso il cielo come funghi rovesciati. Non ci vive più nessuno.
«Rigolò, Rigolò?»
Come nome cretino per un cane. Può essere una storpiatura di Rigoletto o di Regolo, Attilio Regolo. Il vecchio non si stanca, continua a chiamare.



Stamattina alle otto la corrente non è più arrivata.
Il quartiere è ufficialmente morto. Anche il vecchio è scomparso. Di notte i cani abbaiano e ululano. Abbandonati, attraversano le vie ancora esitanti, giunti sul marciapiede si fermano ad annusare il vento, abbassano la testa e corrono via.
Sono tornato all'appartamento di fronte. Ci sono macchie di fango fresco, orme incerte e confuse. L'aria sa di vecchie alghe, di legna marcia di salsedine asciugata dal vento.

Ieri ho bruciato il mio primo palazzo, a un paio di isolati dal mio. È stato un lavoro faticoso. Ho fatto la spola tra il vecchio distributore di benzina lungo la via principale portando due taniche per volta, sono salito in cima alle scale e ho rovesciato la nafta sui pavimenti e le scale. Ho ripetuto l'operazione più volte. Alla fine, morto di stanchezza, ho atteso che calasse la notte.
All'inizio dalle finestre aperte usciva solo fumo, un fumo grigiastro che sapeva di plastica. Poi il fuoco ha attaccato le porte e gli infissi e le fiamme sono apparse dietro alle finestre. I vetri hanno cominciato a esplodere per il calore. Contemplavo lo spettacolo sentendo la faccia bruciarmi. Alle mie spalle i cani. Guardavano a turno me e il rogo, seduti, intenti e affascinati. Abbiamo fatto qualche passo indietro quando le fiamme hanno cominciato ad alzarsi più robuste.
Il palazzo ha impiegato diverse ore a bruciare completamente. Ogni tanto un pavimento crollava e una corona di scintille si alzava verso il cielo. Urlavamo, allora, e io ridevo, ridevo e bevevo. I cani si allontanavano da me di qualche passo, senza perdermi d'occhio.



Ho trovato delle pile, oggi, e le ho inserite nella radio. Nulla, nessun segnale disturbava il fruscio del quadrante.
Nelle ore più calde della giornata, quando anche i cani dormono, ho sentito delle voci. Voci quiete, tranquille, inafferrabili. Nulla di convulso, eccitato, nervoso. Chiacchiere a tavola, tranquille storie del dopopasto.

Mi sono trasferito nel palazzo di fronte, al terzo piano.
Il trasloco è stato svelto, sotto una pioggia battente. Ho portato qui le mie poche cose e mi sono affacciato alla finestra. I cani per strada mi hanno guardato, come passanti sorpresi. Non scodinzolano mai, questi cani e non hanno paura del fuoco. Non si avvicinano né mi aggrediscono, si limitano a sorvegliarmi, a seguirmi.
Ho atteso il buio seduto, la schiena appoggiata a una parete.
Sono qui, dicevo a intervalli regolari. Non udivo la mia voce da giorni e non riuscivo a trovare il tono giusto per parlare. Ora urlavo, ora bisbigliavo. Le parole mi sembravano senza senso e mi venivano restituite, ancora più insignificanti, dalle pareti spoglie.

La luce mi ha svegliato, un raggio sottile che disegnava le pareti.
La luce di una torcia elettrica.
Nell'oscurità un respiro affrettato, un'ombra indistinta che ha atteso che fossi sveglio per fuggire silenziosamente. Mi sono alzato in piedi, disorientato, cercando di seguire la direzione dei passi.
Mi sono affacciato alla finestra. Credo di aver visto qualcosa, una forma china, aggobbita, nascosta dalle chiome degli alberi.

Nuvole gonfie, malate passano sulla terra, il mare non le riflette. Il mare dorme con un occhio aperto, assaggia i suoi nuovi confini. L'acqua è gelida, vischiosa. Oggetti irriconoscibili danzano sul pelo delle onde lente. Cerco di ricordare la stagione, il tempo, ma non ho più calendari né orologi. Tre cani mi hanno seguito fino alla massicciata della ferrovia, la nuova, temporanea costa. Mi guardano da lontano. Ho tirato loro le pietre macchiate che ci sono tra i binari e li ho inseguiti gridando. Sono fuggiti ma poi sono ritornati. Stanno seduti sulle zampe posteriori, tra loro c'è anche Rigolò, o forse Regolo.

Piove: seduto sul letto, la schiena appoggiata al muro freddo cerco da qualche minuto di distinguere le gocce, di distinguere il loro percorso, ma le perdo di vista, le riafferro e le perdo nuovamente.
Scendo nel giardino e urlo con tutto il fiato che ho in gola.
- Vieni fuori! Vieni! Vieni!


Lo attendo acquattato all'ultima rampa di scale, che conduce al terrazzo, alle antenne televisive, ai fili grigi dove secoli fa qualcuno stendeva i panni ad asciugare.
La mareggiata di ieri ha portato l'acqua nelle strade: rigagnoli, rivoli che scorrono a fianco alle strade. L'acqua sale dai tombini scoperchiati. Appoggiando l'orecchio a terra si distingue il suono delle onde, come ascoltando in un'enorme conchiglia.
Attendo, immobile, immagino passi, voci. La nostalgia mi prende di sorpresa, mi schiaccia contro il pavimento. Il nostro tempo è passato per sempre, era fatto di nulla, di risate, occhiate, sogni confusi con i ricordi, tentativi di fuga, di mascheramento, vanterie e vergogne, ansie, rimorsi e sollievo, piccole e grandi abitudini. Scandito dal tempo, dal nome dei giorni, dei mesi, degli anni. Il mare ha cancellato tutto, ha bagnato i nostri segni e noi non avevamo altro, io, come tutti, non avevo altro: solo il tempo.
Questo tempo senza limiti ci è nemico, ci soffoca, ci annulla anche prima che lo faccia il mare. Immane, infinito si estende da ora fino al termine dei soli.

Credo di essermi addormentato, la mente arroventata dalla sensazione di perdita, dal suono vuoto delle scale deserte.
Il passo è esitante, trascinato. Gli fa corona il ticchettìo delle zampe dei cani. Decine di cani, che salgono le scale, che scivolano in silenzio sul marmo lucidato a piombo solo pochi mesi fa.
Mi affaccio alla tromba delle scale: una sottile lama di luce si arrampica sui muri, svolta ai pianerottoli, sale ancora, marcia verso il mio nascondiglio. I cani riempiono completamente il passaggio, affondano nel buio delle scale, procedono a muso basso annusando i passi di chi li precede.
Non mi alzo, li attendo accucciato a terra. Il minuscolo raggio di luce termina l'ultima curva e mi lambisce. Loro respirano, a decine, a centinaia. Mi guardano già con nostalgia. L'uomo-cane lascia cadere la piccola torcia elettrica nella tromba delle scale. La sento rimbalzare sulle ringhiere, vedo la sua luce impazzita illuminare per l'ultima volta i soffitti, le scale rovesciate, le finestre sporche di pioggia.
Adesso è definitivamente caduto il buio e la caccia è terminata.

4 commenti:

Nick Parisi. ha detto...

Bello per alcuni passaggi mi ha ricordato Stazione delle Maree di Swanwick.:)

Marcella Andreini ha detto...

Credo che raccontare le attese sia uno dei tuoi punti di forza, "costringi" a seguirti nell'attesa fino in fondo:) Complimenti!

Massimo Citi ha detto...

@Nick: WOW,questo sì che è un complimento. Mi è sempre piaciuto Swanwick per il suo dono di saper saltare da un lato all'altro dello spettro fantascientifico e fantastico. Compreso un incredibile e inarrivabile romanzo di fantasy con i peggiori elfi che si possono immaginare: Cuore d'acciaio, a suo tempo pubblicato da Fanucci.

Massimo Citi ha detto...

@Marcella: "obbligare" i lettori a seguirti fino alla fine della storia è una di quelle caratteristiche fondamentali che chiunque scriva deve porsi come obiettivo. Non penso di riuscirci sempre, sia chiaro, né che le mie storie siano sempre meritevoli di essere lette fino alla fine. Ma qui si transita nell'estetica del racconto ed è tutto un altro paio di maniche...