30.10.12

Studia, fai il commercialista...


Entro la fine del mese si scioglierà definitivamente la società, la C.S. Cooperativa Studi, ex-Cooperativa Studentesca, nata nel 1976 e definitivamente defunta nel 2012.
Dovrò produrre ben due bilanci, pagare il nostro generoso - soprattutto con se stesso - commercialista, pagare tasse, balzelli, gravami, gabelle e pedaggi per qualche altra migliaia di euro e poi, dal 30.11.2012 sarò finalmente libero di smettere di pensare al mio passato. Non sarà troppo facile far quadrare i conti di casa con questo ennesimo salasso, ma dovrei farcela senza essere sfrattato né scacciato dalla famiglia, e il natale 2012 - fine del mondo al 21.12.2012, permettendo - dovrebbe trovarmi se non felice, quanto meno sollevato. 
Ovviamente, nonostante la società sia in liquidazione, nei giorni scorsi mi è giunta un'intimazione da parte del ministero del Lavoro che mi invita, entro una ventina di giorni, a presentare libri sociali, bilanci, ricevute di versamente effettuati, verbali, contributi  INPS ecc. ecc.  a un suo incaricato.
Adesso, non vorrei sembrare uno ieroforo del demente arrivato in ritardo alla cerimonia, ma il peso del fisco e degli adempimenti societari e fiscali è stato davvero asfissiante in questi ultimi anni. Il fisco + i contributi + le spese per il commercialista hanno abbondantemente attinto alle casse della libreria fino a schiantarle, senza che sia stato previsto alcun genere di aiuto o di dilazione. Possibile che la colpa sia ancora una volta mia, ma non avevo il tempo materiale per cercare una possibile scappatoia in una qualche semidimenticata leggina. E il mio commercialista era troppo oberato da poveretti come il sottoscritto da collaborare.
Mi ricordo di aver ragionato tra me e me - e più di una volta - che il titolare di una piccola o piccolissima impresa aveva più di qualche motivo per votare per chiunque gli promettesse di ridurre le tasse e rendere più leggeri e meno terrificanti i controlli e gli adempimenti. 
Mi ricordo di aver persino pensato che, in fondo, chi evadeva le tasse qualche motivo ce l'aveva
Terribile, me ne rendo conto. 
E anche, da un altro punto di vista, particolarmente ridicolo, dal momento che personalmente non l'ho mai fatto, se non per qualche errore contabile. Per il quale posso probabilmente aver versato di meno del dovuto, ma forse, magari, persino di più


Il problema delle tasse in questo paese è diventato un vero dramma. Sinceramente non riesco a immaginare come il titolare di un'attività commerciale, di un laboratorio, di un piccolo esercizio riesca anche semplicemente a sopravvivere, se non evadendo per quanto è possibile. D'altro canto le tasse, le imposte, i pedaggi, i contributi che vengono tassativamente richiesti a un'attività sono tali che soltanto se uno è farlocco come il sottoscritto finisce per chiudere dalla disperazione. 
Il fisco italiano è inefficiente. Ma inefficiente in una maniera semplicemente criminale. Non esiste controllo a monte - se non nelle vesti di commercialisti più o meno onesti e più o meno fantasiosi (il mio non lo era, detto per inciso) - e il controllo dello stato è sempre a posteriori, alla ricerca frenetica e malevola di un errore comunque sanzionabile. 
Chiunque abbia una piccola attività ha una stima a livello zero della Guardia di Finanza. Gli episodi di scontata grassazione - io ignoro i tuoi libri manchevoli e tu mi rivesti, mi nutri, mi arredi, mi rallegri tutta la famiglia - sono diventati leggende nere da raccontarsi davanti a un caffé, talvolta esagerate, talvolta, purtroppo, tragicamente vere. Corollario ovvio, i grandi evasori. assistiti da grandi commercialisti (non il mio) evadono come e quando vogliono e non pagano dazio.
Sarebbe necessario rivedere l'intera struttura dell'esazione, credo. Rendere le cose più facili, più scorrevoli, più elastiche. Assistere i contribuenti con sportelli aperti e consulenze on line e rendere più semplici gli adempimenti - siamo un popolo di ignoranti, lo sappiamo tutti, vero? - in modo da poter eliminare gli errori e tra questi il terrificante «errore formale» che è magari anche formale ma che - in rapporto alla bontà del finanziere - si può pagare come sostanziale.
Bene. 
Perché non si fa?
Così a naso direi che una polizia tributaria potente ed efficiente, che renda più consci e preparati i contribuenti sui propri doveri e diritti, fa paura per prima ai quattro gaglioffi che ci hanno governati dal dopoguerra a oggi.  
E per dopoguerra intendo «dopo la guerra d'indipendenza».
Meglio, molto meglio insistere sul solito popolino di operai, pensionati, piccoli commercianti, casalinghe e impiegati fino alla (loro) disperazione che scontentare la corporazione dei commercialisti o rischiare di deludere quel ceto medio-parassitario dal quale provengono gran parte dei politici attuali. 
Forse merita pensarci un pochino. 

  


28.10.12

La danza di Giove


Lo confesso, ho acquistato la Sinfonia dei Pianeti di Gustav Holst: 
1) perché affascinato dal tema che allora, sbagliando, ritenni vagamente fantascientico. 
2) perché la copertina dell'LP della Deutsche Grammophon era costituita da una foto di Giove - o forse di Saturno, e io non potevo resistere a un disco con una copertina che sarebbe stata perfetta per un libro di sf. 
Scoprii in seguito che Gustav Holst aveva composto la sinfonia dei Pianeti in nome di una confusa passione naturalistico-astrologica e che ognuno dei movimenti - Mercurio, Marte, Giove, Saturno ecc. - aveva un significato ulteriore come rappresentazione mitosofica dei caratteri umani. 
Non ho nessuna simpatia per l'astrologia come «scienza» - anche se debbo ammettere di non disprezzarla come gioco di società - ma perdonai comunque molto volentieri a Holst la sua curiosa passione - forse «ispirata» da una dieta vegetariana che non poteva sostenere, e gustai con piacere i sette movimenti della sua Sinfonia. 
...
Inevitabile è stata l'uso - o l'ispirazione - alla Sinfonia dei pianeti di Holst nella colonna sonora di diversi film. Tra questi è non poco evidente il legame tra il movimento «Mars» di Gustav Holst e la «Imperial march» di Star Wars, in particolare nell'ultima parte del brano ispiratore. O «Jupiter» in «Braveheart», o «Neptune» in «The Abyss»... 

Qui «Mars»:

qui «Jupiter»

e qui «Neptune»

   

26.10.12

M.A.d.u.L.P. n.1


Questa serie di articoli è a suo tempo uscita su LN-LibriNuovi in forma di «Memorie Anticipate di un Librivendolo (libraio) Pre-global», M.A.d.u.L.P.. in breve.
Un incontro con uno dei miei pochi lettori – sia pure un lettore particolare, attualmente direttore di un testata di recensioni on line – mi ha ricordato la sua esistenza e la necessità di ritirare fuori l'insieme degli articoli. «Magari potresti persino farne un e-book», ha suggerito il buon Enzo, «e venderlo, che so, a un euro o due euro e 99».
Sulle prospettive di farne un libro non mi pronuncio. Ne riparleremo, semmai, una volta vista l'accoglienza dei lettori. Quanto all'aggiornamento degli articoli, beh, la situazione è largamente cambiata ma non pochi aspetti sono rimasti gli stessi, quanto basta per non gettare via tutto. Quanto infine al titolo, la situazione è parecchio cambiata e adesso non posso certo parlare di «memorie anticipate», anche se, da un certo punto di vista tali sono. Si tratta di un futuro anteriore, ovvero di un futuro immaginato in un punto indefinito del passato e messo a confronto il presente reale. Qualcosa di sottilmente malinconico, ideale per un daimyo decaduto a rônin. Rimarranno tali, dunque.
Le memorie usciranno con cadenza settimanale, di venerdì o di sabato. La rubrica occupò l'ultima parte della rivista per 14 numeri, dal 27 – settembre 2003 – fino al 40 – dicembre 2006. Diciamo che per 14 settimane posso dare ai miei gentili lettori qualcosa da masticare.
 

Come si diventa librai?
Già, come. Il perché non è necessario. Basta riprovare a ogni ingresso in libreria l’antica sensazione che da bambini dava l’attesa della mattina di Natale – la sensazione che qualcosa di bellissimo, non si ancora che cosa né come sta per accadere –, per aver afferrato il perché.
In realtà qualsiasi lettore feticista, esagerato e fanatico è un possibile libraio. Il desiderio di possedere libri – molti libri, vari libri, troppi libri – è la parte libidinale dell’essere librai, o meglio, librivendoli.
Ma su questo torneremo.
La domanda, però, era un’altra: «Come si diventa librai?»
Mah? Non lo so. Ma sospetto che il sistema migliore e più tranquillo non sia quello che ho vissuto (vissuto, non scelto) io.
Ho iniziato per caso, seguendo l’istinto e un’occasione che non ho ancora stabilito se considerare tale. No, non è falsa modestia. Nella vita riconoscere le occasioni è tutto, ho letto da qualche parte. Ma questa è una di quelle frasi che si pensano e si scrivono da ben sistemati per ammaestrare le giovani generazioni, frasi che implicano lo sviluppo lineare di qualcosa, un successo maturato attraverso un accorto mix tra fiuto, intelligenza e quel minimo di spregiudicatezza. E che infatti trovano il giusto risalto in vere memorie. Ma queste sono M.A. (memorie anticipate) e quindi…

Comunque, ho cominciato e dopo qualche anno ho sentito la necessità di iscrivermi anch’io alla Scuola Librai «Umberto ed Elisabetta Mauri». Era giugno, anche se non un giugno assassino come quelli del nuovo millennio. Ma comunque un giugno caldo. Si stava chiusi in un’auletta, sul banco un cartellino con il proprio nome e quello della società. «Company», veniva da pensare. A essere senza giacca e cravatta e senza tailleur eravamo in due. A essere non troppo ben pettinati, non troppo executive, non troppo qualsiasi cosa, sempre in due. C’erano anche alcuni librai cooperatori milanesi (come il sottoscritto, peraltro, cooperatore anche se non milanese), ma il loro essere senza giacca-e-cravatta era troppo programmatico, troppo attentamente cercato per essere genuino.
Per il resto sembrava di essere alla Bocconi. E anche gli argomenti non erano troppo diversi. Si faceva uso di inglese e di matematica mentre gli allievi librai progettavano osservazioni calcolatamente acute e acquiescenti. Le «dimensioni dello stock» e «l’indice di rotazione» erano il Verbo, l’Alfa e l’Omega del lavoro di libraio. Scoprii ciò che avevo già subodorato: l’amore per il libro doveva vestire il cilicio dei costi finanziari. E la sorte del Libro fu detta non una sola volta ma tante, a scolpirlo definitivamente nella testa degli allievi. Fui sorpreso dalla mancanza di reazioni, dall’assoluta identificazione con i Massimi Sistemi dell’economia di gestione. Intuii il senso di tante giacche-e-cravatte. Ero e sono io a essere un povero illuso da fumetto. Ciò che sono tuttora.
Io e un altro quasi-libraio di Milano, della libreria Hoepli, l’altro non cravattopendulo, un po’ facevamo la fronda alla tripla I in anticipo sui tempi. Sorridevamo, sogghignavamo ma quando incontravamo lo sguardo del prof ritornavamo serissimi. Mangiammo leggermente e bevemmo executivamente. Questo genere di comodità non si adattava alla nostra nuova pelle di super-librai. E poi i pasti erano compresi nel costo del corso. Al tavolo ci trovammo curiosamente con il prof, persona squisita e realmente interessante. A riprova che gli epigoni sono sempre peggiori dei precursori.


Mi rileggo. Non vorrei aver dato una sensazione sbagliata. Non ho nulla contro l’economia di gestione, l’indice di rotazione, il calcolo dei costi. Convivo tuttora, in pratica quotidianamente, con questi elegantissimi e affascinanti modelli matematici. Modelli, però. A volerli considerare realtà rivelate, cioè qualcosa di diverso dalle ombre che sfilano sul fondo della caverna platoniana si rischiano disastri. Che genere di disastri? Il costo del personale, per dire. È una voce, una semplice riga. Più di una riga, in realtà, visto che nel personale rientrano anche i contributi, l’accantonamento TFR eccetera. Bene, caricate i dati del vostro bilancio su un foglio elettronico. Calibrate opportunamente le interazioni tra le celle. Poi lanciatevi a simulare. «Via 10.000 (o 100.000 o 1 miliardo) dal personale». Controllate il valore finale del vostro bilancio, a questo punto. Aumento di utili (o diminuzione delle perdite) prodigiosi! Talmente prodigiosi che bisogna essere dei bei pifferi per credere che sia 1) facile, 2) comunque possibile.
Il mondo va così, però. Ovunque c’è gente davanti a un PC – laptop o desktop – che macchina qualche facile idiozia per rappezzare un bilancio. Anche nelle pubblicità. Da qui la necessità di diffidare delle pubblicità vipparole ed executive.

Ma prima della Scuola Librai c’è stata la gavetta. Che non è ancora finita. Che per un settore come questo non è mai finita, probabilmente. Gavetta vuol dire dover prendere una dozzina di decisioni al giorno che si rivelano per il 75% inadeguate, basate su insufficienti informazioni, avventate o semplicemente stupide. Adesso sono arrivato intorno al 50%. Ma solo perché ho imparato ad aspettare, lasciando che certe decisioni si prendano da sole. Immanuel Kant da Königsberg (ora Kaliningrad, tra un po’ forse di nuovo Königsberg) ha affermato che qualsiasi problema ignorato si risolve da solo. E ha lasciato intendere che l’esito finale del processo non è sempre infausto. Io, che ho inserito Kant anche nella mia domanda per il servizio civile, mi fido ciecamente del filosofo prussiano. Primo perché prussiano, secondo perché filosofo.


Il primo problema per chiunque voglia tentare di fare il libraio è la composizione dello stock, ovvero, detto in un italiano accettabile, di quali e quanti titoli volete rifornire la vostra libreria. Un inciso… Anzi, prima piccolo inciso del piccolo inciso: queste memorie anticipate non procederanno linearmente e cronologicamente. Perché sono uno smemorato, innanzitutto. Poi perché ho paura che mi scappino di mente piccole cose interessanti e inerenti. Quindi chi mi legge abbia l’accortezza di abituarsi agli incisi perché ce ne saranno parecchi.
Torniamo all’inciso originale, ora. Recentemente ho conosciuto una simpatica ragazza che intendeva aprire una libreria. Attraverso comuni conoscenze ha chiesto il mio parere e un certo numero di consigli. Sentendomi profondamente inadeguato l’ho incontrata. Le ho dato qualche suggerimento e svelato qualche trucco piuttosto banale. Una volta definite dimensioni e caratteristiche della futura libreria e le dimensioni dello stock, siamo arrivati a cercare di capire come e quali collane scegliere per iniziare. La mia amica, che chiamerò per comodità Francesca (non si chiama Francesca, comunque) aveva in mente una scelta dei titoli da cliente di libreria. Francesca pensava: «Vado nel magazzino dell’editore XY, prendo un grosso carrello e…»
«Ah, vai nel magazzino…»
«Infatti, scelgo… a me piace Coelho, per esempio, ne prendo 4 copie, e poi mi piace Hermann Hesse e…»
«I magazzini sono a Milano. Qui a Torino rimangono solo grossisti».
«Beh, l’Einaudi…»
«Il magazzino di Einaudi è a Verona, insieme a quello di tutto il resto del gruppo Mondadori. Qui a Torino, in via Biancamano potresti giusto tentare di grattare qualcosa dalla biblioteca personale dei redattori superstiti».
«Bollati Boringhieri?»
«Gran parte del magazzino è in un posto desolato nell’hinterland milanese insieme a quello di un’altra cinquantina di editori. Per girarlo tutto più che un carrello ti servirebbe un furgone. Comunque nemmeno i librai di Milano vanno ai magazzini a scegliersi i titoli. Usano i cataloghi».
«Capisco. Vado da un grossista».
«Bene. E per le novità?»
«Le novità, già. Beh, vado a sceglierle dal grossista».
I grossisti hanno criteri assolumente (e giustamente) demagogici nella scelta dei titoli. Sui tavoli per i librai hanno un assortimento fatto di titoli che «tirano». In realtà farsi un’idea della produzione editoriale partendo dai tavoli di un grossista è come cercare di capire qualcosa della produzione cinematografica mondiale sulla base della programmazione in prima serata di Rete 4.


«Dovrai far venire i rappresentanti, se vuoi sapere davvero cosa esce».
«I rappresentanti?» Il sorriso di Francesca è via via diventato meno convinto fino a scomparire completamente alla parola «rappresentanti». Dall’idea della passeggiata tra due scintillanti pareti di libri alla materializzazione di individui con grosse borse che cercano di spacciare libri brutti e inutili estorcendole un assenso per stanchezza e inesperienza, c’è effettivamente un abisso. Eppure senza rappresentanti – senza nessun rappresentante – non è molto facile condurre una libreria che non sia strettamente specializzata. O che non sia una cartolibreria con 700 tipi diversi di cartoncini d’auguri e un assortimento in libri fatto da 25 titoli.
«Ma ci sono i siti internet», gemeva Francesca, «le recensioni su quotidiani e settimanali».
«Vero. Ma le novità, il commercio delle novità, è il lubrificante di tutto il settore».
«Cioè…»
«Gli italiani leggono troppo poco per mantenere un’industria editoriale decente. Purtroppo molti italiani sono ignoranti e come tutti gli ignoranti pensano che la furbizia più dozzinale e un’astuzia bertoldesca possano sostituire cultura e intelligenza. Prova ne sia che hanno votato Berlusconi, i geni. Ma questo è un altro discorso. Fatto sta che il mercato editoriale italiano ha disperatamente bisogno di fare circolare denaro. Molti editori hanno bisogno di anticipi per stampare i libri. Devono produrre novità che le librerie comprino. Le librerie pagano a 60 giorni, le rese dell’invenduto arrivano dopo 180 giorni e così gli editori hanno per un po’ i soldi per poter produrre altre novità. E così via, finché dura. Che tu, cara Francesca, ordini i tuoi libri sulla base di recensioni o segnalazioni non serve. Non solo: esiste la possibilità che tu i libri non riesca proprio a trovarli. Le tirature, infatti, almeno per gli editori di maggiori dimensioni, sono basate sulle prenotazioni fatte ai rappresentanti».
«…»
«Quindi, se vuoi mantenere in piedi una libreria devi rassegnarti alla presenza dei rappresentanti. Diffidare di tutto quello che dicono, diffidare delle schede scritte che l’editore ha affidato loro, diffidare di campagne, condizioni di acquisto mirabolanti, pagamenti a babbo morto, grandi campagne di stampa, presenza su giornali, radio, TV…»
«… Ma, cosa resta?»
«Eh? Nulla, o almeno ben poco. Cioè no, restano i libri. I libri restano. In tutti i sensi possibili».

Francesca ha aperto la sua libreria. Ha incontrato alcuni rappresentanti e, che io sappia, è viva e vegeta. Non so se sia felice o perseguitata, come capita a me, dalla pila di invenduti che troneggia in mezzo alla libreria e che nessun lettore prende in considerazione, nonostante le rassicurazioni del venditore di turno, al quale ho, nonostante tutto, creduto… Se potessi mangiare un’idea / avrei fatto la mia / rivoluzione…

Qui finisce la prima puntata di queste memorie. Proviamo a fare come nei romanzi d’appendice e anticipiamo la prossima puntata:

« Vita quotidiana di un libraio residuale, I best-seller e i chiodi, il blitz e la resa, l’instant-book e la campagna sui tascabili, guerra con lo sconto e guerra allo sconto, riflessioni in margine a un bel libro invenduto davanti a una scatola di cartone»

Resta naturalmente inteso che non mi sento minimamente vincolato a quest’anticipazione.


25.10.12

Vent'anni dopo


Se n'è andato. 
Il demente ha tolto il disturbo. 
Sono passati all'incirca vent'anni dai tempi di tangentopoli, il brodo di coltura dal quale è nato - in odio e in contrapposizione - Forza Italia e l'Italia del Cavaliere. 
Se ne va controvoglia, sotto la pressione dei dirigenti di Mediaset preoccupati della sua attuale scarsa popolarità e per la salute della fabbrichetta. Un vecchio rabbioso e spaventato, con i suoi processi ancora aperti, primo fra tutti quello di Ruby e delle tante olgettine che hanno riscaldato il suo letto - omaggio di Vladimir Putin - in questi ultimi anni. Un vecchio odioso & noioso, pieno di pallini, che cade facendo jogging ma non permette a nessuno di vederlo acciacciato, che ha in odio la barba, i maglioni indossati sotto la giacca e i capelli lunghi. Che non ignora l'esistenza e la potenza di Mafia, N'drangheta e Camorra e da perfetto realista ammaestra i suoi piccoli uomini a non disturbarle e cerca accordi e intese anche con loro.  
Il suo governare è stato malinconicamente orrendo. Si è lasciata l'Italia in mano a un pugno di ribaldi, grassatori, puttanieri e malviventi, mentre i suoi strumenti di propaganda creavano un meta-mondo al quale non credevano soltanto molti italiani ma anche non pochi stranieri. Albanesi, africani, arabi, rumeni, proprio coloro dei quali questo popolo di vecchi rimbambiti si lagna inutilmente, senza rendersi conto che i contributi INPS versati dagli immigrati sono quel poco di futuro e di pensione che rimane ai loro figli. Ci ha reso più piccoli, più meschini, più stupidi. Ci ha impedito di comprendere che cosa avveniva davvero nel resto del mondo, obbligandoci a seguire con una speranza avvelenata il destino dei suoi processi da malfattore e da vecchio sporcaccione. Ci ha diviso tra italiani e comunisti, ovvero tra sciocchi furbacchioni e amaramente delusi. Una gioventù senza speranza e senza lavoro è ciò che lascia come eredità, frazionata e spezzettata tra shampiste, ultras, veline disperate e laureati/diplomati che non riescono ad andarsene dalla casa dei genitori. 
Non mancherà a nessuno, se non a complici, malversatori, evasori fiscali e uomini troppo disinvolti. Dovranno inventarne un altro, cosa che al momento non sembra troppo facile. Ma ci sono voluti vent'anni della mia e della vostra vita per capire con chi avevamo a che fare. Non sono pochi, vent'anni, vero? Who want to live forever?
L'Italia che lascia è infinitamente peggio di quella di vent'anni fa. Un'Italia dove molti di noi poveri non si rendono neppure conto di essere stati rapinati.
Addio vecchio demente. Dio solo sa che non ci mancherai.



P.S.: non è mia abitudine intervenire su fatti di attualità. Non sono preparato in proposito e non intendo minimamente «fare concorrenza» a quotidiani o a blogger più preparati e intelligenti del sottoscritto. D'altro canto ho sopportato per poco meno di vent'anni un criminale perbenista come il nostro benamato cavaliere. Lasciatemi almeno esultare. 
P.P.S.: «È possibile ritorni». Certo, come no. Ma una fuga dall'isola d'Elba non significa riavere un empereur. I suoi giorni sono passati e non c'è un futuro per lui. Diverso il discorso per i suoi lustrascarpe, sicofanti e leccapiedi. Ma per un po' possiamo respirare.    


23.10.12

Narrativa on line?


È un po' che medito su questo post. Poi, spinto da una mossa del buon Nick Nocturnia e la pubblicazione di un suo ottimo racconto, ho rotto gli indugi.
La prima domanda - in un certo senso la principale: «Ha senso pubblicare racconti o altra narrativa sul proprio blog?»
La domanda secondaria: «Perché nessuno o comunque pochi commentano il brano pubblicato? È un giudizio di valore o semplicemente un sintomo di disinteresse?»
La terza domanda: «I lettori di blog che cosa cercano? Intrattenimento rrrrrapido e qualche battuta veloce o qualcosa di più serio o serioso
Possono seguire altre domande, me ne rendo conto, ma diciamo che queste sono le principali. 
Cerchiamo di avanzare qualche genere di risposta, contando o sperando che altri lettori abbiano la voglia o il desiderio di intervenire. 
Partirò dalla domanda «secondaria». 
Sinceramente ho qualche dubbio sul fatto che il mancato intervento o pochi interventi significhino un giudizio di valore. Prescindendo dai miei racconti, ho letto racconti brevi di un certo pregio non solo di Nick ma anche scritti e pubblicati da Orlando, da Argonauta Xeno, da Consolata Lanza nonché da altri autori. Nulla che si potesse catalogare come semplicemente come «munnezza» o  che si potesse catalogare come «tentativi falliti di presunti autori».  Anzi. Tra i pochi interventi che li hanno seguiti, comunque, sottolineo la presenza dei miei. Sono un editor fallito e un oscuro recensore ma non riesco a resistere alla tentazione di commentare. In qualche caso persino di avanzare qualche proposta. 
Non so se gli autori ne siano stati particolarmente contenti, ma non posso farne a meno. Se scrivi, ti leggo, è matematico. 
In questo senso credo che la risposta alla prima domanda, la «domanda principale», non possa che essere «Sì, ha senso pubblicare i propri brani sul blog». Anche se...
Personalmente ho pubblicato (finora) sul blog 13 racconti. Per raggiungerli è sufficiente cliccare sotto la scritta in alto a sn del mio blog «racconti perduti e ritrovati». Ho iniziato il 18.1.2012 e l'ultimo l'ho pubblicato il 18.10.2012. In totale sono 13 racconti in dieci mesi, poco più di un racconto al mese. Interessante notare come i commenti siano stati decrescenti, in maniera praticamente inversa alla lunghezza dei racconti. Ovvero, più il racconto era lungo - e non dò alcun giudizio estetico su di essi - meno interventi apparivano.
La conclusione evidente - a meno che i racconti più lunghi siano anche i miei peggiori, cosa che onestamente fatico a credere - è che i racconti più brevi siano letti integralmente nel corso di un passaggio sul mio blog, mentre i racconti più lunghi vengono rimandati, leggiucchiati per sommi capi o decisamente ignorati, magari facendosi un appunto mentale tipo «sì, sì, poi lo leggo».



E così dalla narrativa siamo arrivati a toccare la struttura stessa della comunicazione a mezzo internet. Una comunicazione breve, rapida, talvolta ritagliata nei tempi risicati della giornata. Un genere di comunicazione che parrebbe eliminare in partenza la possibilità di pubblicare racconti che superino le 2-3 cartelle. Discorso diverso, ovviamente, per i romanzi pubblicati in forma di e-book o di .pdf. L'atteggiamento del possibile lettore è diverso nel momento in cui decide di scaricare un testo più lungo e di leggerselo con calma sul netbook, sul tablet o sull'e-reader. 
Il risultato finale di tutta questa zuppa è in apparenza soltanto uno: «Sì. Si può pubblicare narrativa sul proprio blog, purché sia breve». Un atteggiamento che inevitabilmente penalizza i racconti che vanno dalle 5 cartelle fino alle 50.
«E io lo pubblico a puntate!»
Questa è stata la conclusione dell'ottimo Nick, che pubblica un suo racconto di 25-30 cartelle in diverse puntate. 
È una scelta condivisibile? 
Ha di buono la possibilità di essere letto ugualmente grazie alla brevità dei "capitoli" presentati, ma anche il difetto di rischiare - come per i romanzi d'appendice - di scontare una caduta di interesse se nel breve brano proposto non accade qualcosa di drammatico, raccapricciante o comunque memorabile. E questo finisce, ovviamente, per influire sulla struttura del testo, che rischia una drammaticità artificialmente introdotta per mantenere un buon ritmo di lettura, mentre, in parallelo, si può finire col rendere bidimensionale un personaggio o un ambientazione, dal momento che non si può perdere un mezzo capitolo per presentarli decentemente. 
Ma magari si può pubblicare un inizio di racconto invitando i lettori a scaricare il resto in .pdf.
O si può... 
Mah...
Beh, per quanto mi riguarda continuerò la pubblicazione dei miei racconti «perduti e ritrovati», se non altro perché la pubblicazione sul blog è un ottimo sistema per non perderli un'altra volta. E per poterli in seguito riunire in un'antologia. 
Ho appunto appena ritrovato un mio vecchio racconto...
No, vabbè. Uscirà a novembre. 
...
Non credo possa esserci una conclusione degna a questo post, se non una lunga serie di interrogativi. Ai miei quattro gatti e sedici lettori commentare, riflettere e criticare.
In ogni caso ripeto la promessa già fatta in un mio post: creerò un blog dove ospiterò testi miei e di che vorrà partecipare, aperti a commentiti, critiche, osservazioni, idee, suggerimenti, reprimende, cattiverie e critiche gratuite.
Concludo con alcuni racconti brevissimi - max 20 parole -, - max 20 parole -che pubblicai qualche tempo fa sul blog (5.5.08) e che, debitamente corretti, mi sembrano ritornati di piena attualità. Si tratta di racconti di tema fantascientifico e che sono praticamente certo che verranno letti. 



 
 Ucronia:
«E questo Giuseppe Garibaldi, chi era?» Chiese il Re delle due Sicilie.
«Un generale nizzardo morto in Sud America, maestà»

Space Opera:
«L'attacco è avvenuto durante la breve eclissi del primario del pianeta. Non c'è nessun segnale dalle astronavi nemiche.»

Viaggi nel tempo:
«Cazzo, nonno, lo sai che mi assomigli da matti?»
«Lo so, papà»

Distopia:
«Per visitare i ruderi della civiltà principale del terzo pianeta della stella Sol si invita a scendere al prossimo scalo»

Cyberpunk:
«Quei fottuti bastardi mi hanno bannato e non posso più accedere allo scambio di personalità peer-to-peer»

   

21.10.12

Valse triste


Ho conosciuto Jean - o Janne, nella grafia finnica - Sibelius per motivi strettamente legati alla mia quasi-professione di sassofonista jazz. Avevo appena scoperto il mondo dei «modi» - ionico, eolio, frigio, lidio ecc. - e mi dedicavo con impegno al loro studio, quando mi capitò di leggere da qualche parte che il compositore finlandese, attivo a cavallo tra il XIX e il XX secolo, abbandonò il mondo della tonalità per ritornare ai modi, tipici della musica medievale e dei canti gregoriani. Il risultato è una musica decisamente curiosa e inattesa, apparentemente "facile", ariosa, sorprendente negli interventi dei fiati e nelle "frasi" musicali ripetute. Comperai un paio di LP - all'epoca esistevano soltanto quelli - che contenevano tra l'altro «Finlandia», «Tapiola», «Karelia» e il suo «Valse Triste».
...
Il «Valse triste» lo riascoltai in quegli anni nel film a cartoni animati di Bruno Bozzetto «Allegro non troppo», in una rappresentazione grafica che ha davvero molto poco a che fare con il canone disneyano. Nota a margine, credo che il film di Bozzetto sia stato l'ultimo film a lungo metraggio a essere girato e montato da uno studio italiano. 
In famiglia esistono mattinate «classiche», generalmente la domenica mattina, dove si ascolta Sibelius, Holst, Alban Berg - che è diventato persino un cameo in un romanzo scritto a quattro mani con mia moglie - Stravinskij e Arvo Pärt. A ognuno di loro  dedicherò un piccolo intervento nei miei «capricci» domenicali. 
Di seguito due versioni del «Valse Triste», il primo sotto la direzione di Vladimir Ashkenazy il secondo come ritaglio dal film di Bozzetto. Attenzione, il secondo è davvero triste.