17.4.10

Letture primaverili

Buongiorno a tutti.
Visto il successo oceanico della precedente edizione - addirittura due persone due (non a me legate da rapporti di amicizia o di parentela) mi hanno ringraziato e fatto i loro complimenti - replico prima on line poi sulla rivista «on paper» LN-LibriNuovi il mio famoso «Tra il ricordo e l'illusione», ovvero letture fuori tempo massimo.
Premetto che questo numero rischierà di essere poco interessante - o più ineguale e un po' assurdo - per chiunque sia un lettore serio e benintenzionato che si preoccupi di separare con un minimo di criterio la saggistica dalla narrativa e nella narrativa quella di genere dalle narrazioni mainstream.
Io quel criterio l'ho perduto, ammesso di averlo mai posseduto. Salto senza molto criterio dalla plancia di un'astronave a un solido e cupo racconto di formazione a un variegato e curioso saggio sulla guerra medievale a una downtown zeppa di individui poco raccomandabili. Il criterio fondamentale è, mi dispiace ammetterlo, quello di divertirmi (rilassarmi, informarmi, svagarmi).
Inizio con tre Urania, ovvero tre romanzi di fantascienza. Due terrificanti e un così così.
I due «terrificanti» sono in realtà due parti di uno stesso romanzo pubblicati in due frammenti per esigenze di paginazione. Inciso: questa della paginazione è già una scemenza completa e assoluta, ammettiamolo. Si tratta di una scemenza figlia della scelta mondadoriana di non pubblicare sf in un formato da libreria, ovvero di recintare la fantascienza nel girone dei lettori sempliciotti e un po' baluba. Questo Rivelazione di Alastair Reynolds - diviso in Rivelazione /1 e Rivelazione / 2 - prometteva di essere, invece, un romanzo solido e potente, qualcosa in grado di dimostrare che i lettori di sf non sono S(empliciotti) & B(aluba).
Di Alastair Reynolds, detto per inciso, ricordavo un ottimo racconto apparso in una recente raccolta, quanto basta, insomma per richiamare l'attenzione e il desiderio di un lettore avido e curioso.
Bene.
Non sono riuscito a finire il romanzo.
Ero stanco di riprenderlo in mano, leggere «Sajaki si guardò intorno con sospetto» e chiedermi, ormai stancamente, «ecchiccazzo è questo?»
Quando ho attaccato il secondo erano passati più o meno tre mesi dalla fine del primo, questo è vero, ma il problema principale è che non sarei stato in grado di stendere un riassunto del primo volume. Agghiacciante. Personaggi (numerosissimi) sciaguramente incolori, luoghi anonimi e/o incomprensibili, stile anonimo e confuso, manovre e disegni oscuri ai personaggi quanto al lettore, gesti gratuiti o che tali appaiono, ideologie e convinzioni scarsamente intellegibili, agguati e vendette senza apparente motivo, odii secolari da prendere per buoni senza ulteriori spiegazioni. Via così per 300 e passa pagine del primo volume e per altrettante del secondo.
La traduzione?
No. Riccardo Valla è in genere un buon traduttore e, in ogni caso, non poteva aggiungere o togliere qualcosa per rendere il romanzo più leggibile.
Qualche taglio?
Possibile, non lo nego, ma difficile immaginare che cosa si sarebbe dovuto togliere per rendere così altamente illeggibile il libro.
Non rimane che il dubbio che si tratti di un romanzo vasto, corposo e mediocre. Qualcosa che in altri tempi si sarebbe definito «vanvogtiano» subito prima di farlo volare da una finestra.
La cosa curiosa e inspiegabile è che a qualcuno Van Vogt piaceva.
Mah...
Il terzo Urania è Cronomacchina accidentale di Joe Haldeman, autore (nel 1975) di Guerra Eterna. Nulla di trascendente, sia chiaro, ma almeno un libro piacevolmente movimentato, raccontato con un certo gusto umoristico e paradossale, ironico - non più di ironico, non siamo in presenza di Vonnegut - e talvolta comicamente assurdo nei confronti di alcune tendenze ultrareligiose della Stati Uniti attuali. Nulla di sorprendente o di inatteso, ma comunque piacevole a partire dall'invenzione ottimamente condotta di una macchina del tempo accidentale, capace di trasportare in avanti nel futuro secondo intervalli di tempo geometricamente crescenti. Una buon modo per trascorrere un paio d'ore.
Saltando completamente ad altro genere - dalla narrativa di genere alla saggistica storico-letteraria - arrivo a un titolo di Georges Minois, il libro maledetto, sottotitolo: la storia straordinaria del Trattato dei tre profeti impostori. Una brevissima premessa: Georges Minois è l'autore di una ricca e corposa Storia dell'ateismo, uscita in Italia da Editori Riuniti nel 2000 e, più di recente, di una Storia dell'avvenire per Dedalo editore.
Da questa breve presentazione si può intuire che il signor Minois non è esattamente un fervente cristiano e questo suo curioso e interessante libro ne è un'ottima prova. Si parte dalla storica accusa di Gregorio IX a Federico II - in piena guerra delle investiture - di essere l'imperatore tedesco «uno scorpione che sputa veleno dal pungiglione della sua coda». E continua affermando che: «Questo flagello di re ha affermato apertamente che il mondo intero è stato ingannato da tre impostori: Gesù Cristo, Mosè e Maometto».
Da questa pontificia affermazione, ovviamente respinta con sdegno dall'imperatore, al mito di un possibile «libro maledetto» il passo è breve e Minois dedica le trecento e passa pagine del libro a cercare prova della sua esistenza.
Ma non è tanto la presenza reale di tale libro - peraltro storicamente stampato nel 1719 in Olanda in lingua francese - a interessare Minois, ma la curiosa e a tratti feroce discussione tra dotti, filosofi e teologi con reciproche accuse e furiose smentite di essere possessori se non direttamente autori di un tale orrore, così evidentemente nemico delle tre grandi religioni monoteistiche. A essere via via accusati dal XIII al XIX secolo di essere gli autori del De tribus impostoribus furono - citando soltanto i maggiori - Pier delle Vigne, consigliere di Federico II, Niccolò Machiavelli, Giordano Bruno, Thomas Hobbes, Pietro Aretino e Baruch Spinoza. Una curiosa galleria di personaggi accomunati da un'evidente intolleranza verso l'ovvio e il banale. Il sospetto di Minois è che in realtà l'essere accusati di aver scritto il Trattato dei tre impostori fosse una sorta di patente di originalità e di anticonformismo in tempi dominati dal plumbeo grigiore ecclesiastico. Un libro istruttivo e sommessamente divertente, tanto più in un momento nel quale la Chiesa sembra ansiosa di rivestire i suoi panni storici di oppressione e intolleranza.
E possiamo rimanere ancora un po' nell'area storica e riflettere sull'ottimo volume di Paolo Grillo, Legnano 1176, una battaglia per la libertà, edito da Laterza.
La battaglia di Legnano, Alberto da Giussano, il lombardo in armi - come il loro storico avversario, Federico Barbarossa - sono ormai parte della retorica un po' bolsa dei leghisti, tanto che il lettore medio tende a rifiutare radicalmente tutto ciò che ha a che fare con la Lega Lombarda e l'Impero tedesco. Ma una lettura spassionata, intelligente ben documentata come quella di Grillo può aiutare a spazzare via un bel po' di miti e scemenze assortite sul tema.
Come il fatto che Alberto da Giussano, come a suo tempo affermò anche Franco Cardini, sia stato un personaggio inesistente. O che i comuni italiani furono tutti uniti contro «lo straniero» (Como, Pavia, Asti, Alba, Torino, Ivrea e un'altra dozzina di città erano in Germania?). O che i tedeschi erano superiori in numero ai lùmbard. O che nel Norditalia dell'epoca si considerasse Federico Barbarossa uno straniero... e così via. La battaglia di Legnano non fu uno scontro minore, su questo Grillo è decisamente netto, ma uno scontro notevole nel XII secolo per il numero di combattenti coinvolti. I tedeschi (sostenuti dai cavalieri comaschi) furono 3-4.000, tutti cavalieri pesantamente corazzati per una scelta di blitzkrieg in netto anticipo sui tempi, mentre i lombardi schierarono 10-12.000 uomini, in gran parte fanti organizzati per quartiere. La cavalleria tedesca non riuscì a sfondare i ranghi dei lombardi, i cavalli, infatti - più saggi degli uomini - si fermavano e scartavano per non andare a infilarsi dentro una parete di lance. Il merito della vittoria fu un gran parte dovuto proprio all'organizzazione dei lombardi. Ultimo aspetto curioso e salace del libro di Grillo è la scelta di ricostruire la vicenda di Guido da Biandrate, console e rettore della Lega Lombarda durante la guerra con il Barbarossa, un tranquillo civile che soltanto per un periodo limitato ricoprì una carica militare - guidando la Lega alla vittoria - e ritornando alla fine del servizio un normale funzionario urbano, tanto che il suo nome, diversamente da quello dell'immaginario - risorgimentale & legaiolo - Alberto da Giussano, non venne ricordato.
Un buon esempio di divulgazione storica che merita tutti i 18 euro del prezzo di listino.
Narrativa mainstream, ora, con un eccellente romanzo di Edgar Hilsenrath, Il nazista & il barbiere edito da Marcos y Marcos. Vicenda che si racconta con poche parole: Max Schultz figlio di Minna Schultz, cameriera di costumi un po' allegri e di padre ignoto («Chi fosse mio padre non saprei dirlo con esattezza, ma dev'essere sicuramente uno di questi cinque…») durante la giovinezza diventa ragazzo di bottega del barbiere di Itzing Finkelstein, barbiere ebreo. Con l'avvento del nazismo il giovane Max, pur essendo assai poco avvenente, diventa SS e durante la seconda guerra mondiale viene aggregato al personale di un campo di sterminio. Qui uccide qualche migliaio di ebrei tra i quali Itzig e tutta la sua famiglia.
Finita la guerra il giovane Max ha il grosso problema di evitare di essere acchiappato e processato come criminale e decide così di assumere la personalità dell'ebreo a suo tempo ucciso: Itzig Finkelstein. Tutto bene se non fosse che, gradualmente, Max assume tanto bene la sua falsa personalità giudea da giungere a partecipare all'esodo in Israele e qui diventare un eroe militare israeliano. In tarda età, ormai divenuto un esempio per tutti, confesserà la sua identità a un ex-giudice, esule tedesco. Inutilmente, nessuno vuole più saperne nulla di quella vecchia storia.
Rabbiosamente divertente, un libro «senza morale» che ci obbliga a simpatizzare per una simpatica e autoironica carogna, nazista per convenienza ma ebreo per convinzione, assassino per necessità ed eroe per caso. Un uomo senza principi e senza convinzioni, preoccupato, in primo luogo, di salvare la pelle e farsi i soldi. Un banale Kagemusha che finisce col contribuire all'edificazione di Israele...
L'autore, Edgar Hilsenrath, è un ebreo di Lipsia sfuggito all'olocausto. Combattente in Israele l'ha poi abbandonata per raggiungere prima la Francia e in seguito gli USA dove ha vissuto per diversi anni e poi rientrare a Berlino dove tuttora vive. Il suo libro è stato pubblicato in Germania grazie all'impegno di Heinrich Böll. Ha pubblicato dieci romanzi ma qui in Italia sono rintracciabili - tutti due pubblicati da Marcos y Marcos - soltanto Il Nazista & il barbiere e La fiaba dell'ultimo pensiero, racconto della strage di milioni di armeni, che gli è valso il riconoscimento del presidente e del popolo armeno.
Inutile chiedermi, ovviamente, se vale la pena di leggerlo.
Piccolo particolare: il libro mi è stato inviato in omaggio dall'editore, che ringrazio.
Altri libri ricevuti in omaggio dei quali ringrazio e dei quali prima o poi parlerò (tipica frase che spaventa gli editori, soprattutto per quel «poi»): Peter James, Doppia identità, Kowalsy ed., poliziesco ambientato in GB; Sue Miller, Il tempo di Daisy, Tropea ed., storia familiare della quale ho letto 68 pagine su 282 - finora non male e Laurence Cossé, La libreria del buon romanzo, e/o edizioni, storia in apparenza un po' stucchevole di due librai (gran novità) amanti dei buoni libri (pensa te fosse stato il contrario) ma che leggerò comunque, se non altro per scoprire chi sono i cattivoni che vogliono spaventarli... Un dubbio sull'autore un po' furbetto a voi non viene? No, sei tu che sono perfido e malfidente...
Qui in Italia per raccontare una storia simile si sarebbe dovuto ricorrere a storie gore & splatter con i responsabili delle librerie di catena nei panni di mostri lovecraftiani, ma in Francia evidentemente no. Buon per loro.
Altro libro arrivato in omaggio...
No, un momento.
Probabilmente ci sono librai che ricevono centinaia di libri all'anno, in omaggio alla posizione e all'importanza della loro libreria.
Io ne ricevo forse una ventina, malcontati.
E sono tanto sfigato da dirlo a tutti?
Sì, sono tanto eccetera.
Mi ha insegnato mamma che si deve ringraziare.
Quindi.
Altro libro arrivato in omaggio, dicevo, è Tre secondi di Anders Roslund & Börge Hellström, Einaudi Stile Libero. Un buon thriller, cospicuo e imponente a partire dalle dimensioni: 652 pagine. Piccola nota a margine. Sto per parlare di un thriller, categoria narrativa che frequento pochissimo, con n di numero letture tendente a zero. Quindi non aspettatevi una critica o una recensione competenti (come se lo fossero le altre che scrivo...).
Un buon libro, dicevo, che ho cominciato a leggere per semplice curiosità - e per mancanza di altri libri sottomano - ma che un po' per volta ho finito. A condurre la vicenda un curioso soggetto, ex-tossico diventato un infiltrato della polizia nella mafia polacca. Pagato fuori busta, conosciuto soltanto da pochi graduati della polizia, con una scheda personale che può essere manipolata a piacere per renderlo più pericoloso di quanto non sia in realtà. Paula, il nome in codice di Piet Hoffmann, dovrà diventare capo degli spacciatori in un carcere svedese di massima sicurezza per conto della mafia polacca, ma la cosa non andrà come previsto. Abbandonato da coloro che finora l'hanno aiutato, tradito dai suoi capi a Paula non resterà altra strada che condurre fino in fondo la sua personale vendetta.
Condotto con mano sicura - sia pure con alcune lungaggini superflue - un discreto romanzo che indaga sul confine tra legalità e illegalità nello scontro tra lo stato e una criminalità impersonale, così simile per organizzazione e modus operandi a una holding internazionale. Vero protagonista il commissario Ewert Grens della polizia di Stoccolma, uomo ombroso, intollerante, molto poco accomodante con i colleghi ma abbastanza testardo da svelare il sommerso e l'indicibile della lotta al crimine. Resta ancora da dire che Tre secondi non è un noir, né un poliziesco tradizionale con il/i poliziotto/i che coraggiosamente indagano contro pericolosi criminali ma il racconto di una vicenda profondamente e dolorosamente contemporanea, soprattutto nell'evidenziare la solitudine e la disperazione di chi recalcitra e si oppone alla distruzione personale di uomini divenuti semplici nomi da spostare o eliminare. E anche qui è davvero difficile non pensare a certe organizzazioni economiche internazionali...
Un altro giallo, questo scritto negli anni '50, da uno dei maestri del poliziesco tradizionale. Parlo di Rex Stout e del suo intramontabile Nero Wolfe nel giallo I quattro cantoni, Mondadori Oscar. Non è una novità, lo so benissimo, ma ho una vergognosa e inconfessabile passione per lo scontroso, musone e obeso cervell0ne newyorkese di origine montenegrina - figlio illegittimo, si mormora, di Sherlock Holmes - e per il suo «galoppino» nativo dell'Ohio, Archie Goodwin. Non si tratta di uno dei gialli migliori, temo, dalla conclusione affrettata & affannata, ma comunque gradevole per un appassionato come il sottoscritto.
E ritorno allo spazio, ora, in compagnia di un grande autore. Parlo di Jack Vance, grandioso creatore di civiltà, usi, miti, linguaggi, di avventure perfide e sconvenienti, di mistery soprendenti e di mitologie assurdamente verosimili. Ci sono pochi autori altrettanto malevoli, graffianti, infidi, maligni e ambigui come Vance. Le sue avventure hanno non poco di Mark Twain ma soprattutto molto di Ambrose Bierce, autore altrettanto deliziosamente malevolo. Ma non si tratta di quella mediocre cattiveria nella quale l'autore chiama a complice il lettore ma di una perfidia grandiosa nella quale la vittima riesce a riemergere e a prevalere grazie a un uso più attento e paziente di una sottile e intelligente malignità. Un eccellente esempio delle grandi qualità di questo autore nell'antologia edita dalla ormai defunta Nord di Viviani «I mondi di Alastor», composto da Trullion, Alastor 2262; Marune, Alastor 933; Wyst, Alastor 1716.
Note per due libri che mi coccolo in attesa di trovare il tempo per leggerli davvero e non per rubare loro qualche parola passando: Europe Central di William T. Vollmann e Un mattino oltre il tempo di Yang Yi. Il primo è un volumone di 1070 pagine pubblicato negli Stati Uniti nel 2005, il «racconto di storie personali […] dove l'autore cambia continuamente voce, punto di vista, protagonista muovendosi sempre all'interno degli stessi ambienti: i gulag, la guerra civile spagnola, i processi farsa di Stalin, il bagno di sangue di Stalingrado, i campi di sterminio nazisti […] L'umanità di di ciascuno dei protagonisti è la celebrazione di un'epoca e di un mondo nel quale essere uomini e comportarsi umanamente rappresentavano la più eroica delle imprese». Conoscendo Vollmann e il suo talento assoluto, un gran libro.
Il secondo è stato scritto in lingua giapponese - il romanzo ha vinto il Premio Akutagawa 2008 - ma l'autrice è una cinese, stabilitasi in Giappone all'età di 23 anni. L'unica autrice non di madrelingua nipponica ad aver vinto il premio vinto a suo tempo da Oe Kenzaburo, Murakami Ryu, Abe Kobo e Nakagami Kenji. Il semplice racconto di due adolescenti che avevano creduto possibile una nuova Cina e che saranno testimoni del massacro di piazza Tien An Men.
Ultima nota per un libro che non recensirò per alcuni buoni motivi. L'autore è un mio amico personale, per cominciare. E lo sanno tutti o quasi, dal momento che ha scritto la prefazione alla mia antologia. Perché qualcun altro ha già dichiarato la sua intenzione di recensirlo. Perchè comunque la mia recensione non potrebbe essere sufficientemente fredda e distaccata.
Il libro è Manca sempre una piccola cosa, di Alessandro Defilippi. Ne ho letto 196 pagine su 254, quanto basta per trarne una sensazione, un sapore, un'idea.
Lento, sornione, dolcemente amichevole, malinconico, disperatamente umano.
Di più da me non caverete...

16.4.10

Le belle donne albanesi

Fresco dall'aver letto l'ultima dichiarazione del demente sulla mafia («La mafia è più famosa - grazie a film e libri come Gomorra - che pericolosa») ricevo un'e-mail inviatami da un amico sulle donne albanesi, ovvero sulla famosa battuta del nostro sugli immigrati: «Faremo eccezioni solo per chi porta belle ragazze».
Mi rendo conto che se ne è parlato davvero troppo poco.
Forse stiamo abituandoci alle stomachevoli battute del demente.
L'abitudine alle idiozie narcotizza.
In altri tempi si cominciava dicendo che in fondo avercela con i giudei è soltanto una stupida abitudine per poi cominciare a pensare che in fondo qualcosa quelli là dovevano averlo fatto e si terminava voltandosi quando passava il treno per i forni.
Ancora ai nostri giorni si può ricordare monsignor Babini che ha recentemente accusato gli ebrei di essere gli assassini del salvatore.
Vera propaganda nazista DOC.
Non esiste idiozia che non possa essere creduta - e ripetuta - se dichiarata un numero sufficiente di volte.
Shirer insegna.
Quindi penso che non possa fare male sentire che cosa ne pensa della battuta sulle «belle ragazze albanesi» la scrittrice Elvira Dones.

Egregio Signor Presidente del Consiglio, le scrivo su un giornale che lei non legge, eppure qualche parola gliela devo, perché venerdì il suo disinvolto senso dello humor ha toccato persone a me molto care: "le belle ragazze albanesi". Mentre il premier del mio paese d'origine, Sali Berisha, confermava l'impegno del suo esecutivo nella lotta agli scafisti, lei ha puntualizzato che "per chi porta belle ragazze possiamo fare un'eccezione."
Io quelle "belle ragazze" le ho incontrate, ne ho incontrate a decine, di notte e di giorno, di nascosto dai loro magnaccia, le ho seguite da Garbagnate Milanese fino in Sicilia. Mi hanno raccontato sprazzi delle loro vite violate, strozzate, devastate. A "Stella" i suoi padroni avevano inciso sullo stomaco una parola: puttana. Era una bella ragazza con un difetto: rapita in
Albania e trasportata in Italia, si rifiutava di andare sul marciapiede. Dopo un mese di stupri collettivi ad opera di magnaccia albanesi e soci italiani, le toccò piegarsi. Conobbe i marciapiedi del Piemonte, del Lazio, della Liguria, e chissà quanti altri. E' solo allora - tre anni più tardi - che le incisero la sua professione sulla pancia: così, per gioco o per sfizio. Ai tempi era una bella ragazza, sì. Oggi è solo un rifiuto della società, non si innamorerà mai più, non diventerà mai madre e nonna. Quel puttana sulla pancia le ha cancellato ogni barlume di speranza e di fiducia nell'uomo, il massacro dei clienti e dei protettori le ha distrutto l'utero. Sulle "belle ragazze" scrissi un romanzo, pubblicato in Italia con il titolo Sole bruciato. Anni più tardi girai un documentario per la tivù svizzera: andai in cerca di un'altra bella ragazza, si chiamava Brunilda, suo padre mi aveva pregato in lacrime di indagare su di lei. Era un padre come tanti altri padri albanesi ai quali erano scomparse le figlie, rapite, mutilate, appese a testa in giù in macellerie dismesse se osavano ribellarsi. Era un padre come lei, Presidente, solo meno fortunato. E ancora oggi il padre di Brunilda non accetta che sua figlia sia morta per sempre, affogata in mare o giustiziata in qualche angolo di periferia. Lui continua a sperare, sogna il miracolo. E' una storia lunga, Presidente... Ma se sapessi di poter contare sulla sua attenzione, le invierei una copia del mio libro, o le spedirei il documentario, o farei volentieri due chiacchiere con lei. Ma l'avviso, signor Presidente: alle battute rispondo, non le ingoio. In nome di ogni Stella, Bianca, Brunilda e delle loro famiglie queste poche righe gliele dovevo. In questi vent'anni di difficile transizione l'Albania s'è inflitta molte sofferenze e molte ferite con le sue stesse mani, ma nel popolo albanese cresce anche la voglia di poter finalmente camminare a spalle dritte e testa alta. L'Albania non ha più pazienza né comprensione per le umiliazioni gratuite. Credo che se lei la smettesse di considerare i drammi umani come materiale per battutacce da bar a tarda ora, non avrebbe che da guadagnarci. Questa "battuta" mi sembra sia passata sottotono in questi giorni in cui infuria la polemica Bertolaso , ma si lega profondamente al pensiero e alle azioni di uomini come Berlusconi e company, pensieri e azioni in cui il rispetto per le donne é messo sotto i piedi ogni giorno, azioni che non sono meno criminali di quelli che sfruttano le ragazze albanesi, sono solo camuffate sotto gesti galanti o regali costosi mi vergogno profondamente e chiedo scusa anch'io a tutte le donne albanesi
Merid Elvira Dones

Null'altro da aggiungere.

6.4.10

Pesce d'Aprile!!!


Riporto il testo preso dal sito di un altro editore.
Non aggiungo nulla.
Credo non ci sia nulla come colpire i libri e la lettura a dare la misura e il senso di un governo.

Con un decreto legge è stata sospesa la Tariffa Editoriale Ridotta delle Poste Italiane. Comprare libri online probabilmente costerà di più

“Il Decreto interministeriale del 30 Marzo 2010 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale Anno 151 N° 75 del 31 Marzo 2010 ha modificato il contesto normativo di riferimento delle spedizioni postali relative al settore editoriale: dal 1 aprile 2010 alle spedizioni editoriali saranno applicate le tariffe non agevolate previste per ciascuna tipologia di spedizione”. Recita esattamente così il comunicato col quale le Poste Italiane rendono noto sul loro sito i nuovi provvedimenti del nostro caro governoi in mteria di spedizioni postali.

Inutile sottolineare con quale anomala velocità funziona la burocrazia italiana per certe cose: il 30 marzo il ministro Scajola di concerto con il ministero dell’Economia e delle Finanze ha emesso un decreto con il quale si sospende la Tariffa Editoriale Ridotta delle Poste Italiane. Il decreto è stato pubblicato ieri, 31 marzo, sulla Gazzetta Ufficiale e da oggi è operativo.

Cosa significa tutto questo? In termini pratici significa che un piego di libri raddoppia il suo prezzo e un pacco editoriale che fino a ieri costava 0,97 centesimi (fino a 3 kg) da oggi costerà 7 euro. Più di sei euro di differenza! E chi ne farà le spese? Ovviamente i consumatori, i lettori, tutti coloro che vivono di cultura; chi è abituato ad acquistare libri dalla casa editrice o da librerie online vedrà inevitabilmente lievitare i costi per via dell’ aumento delle spese di spedizione.

Ancora una volta, a farne le spese veramente è la cultura. Ma non spargete troppo la voce, certe cose è meglio non farle sapere…

Ristrutturazioni


Avevo promesso di ritornare ai libri e questo farò. Come promesso.
Parlare di libri... non è così facile, di questi tempi.
Mondadori, per dire, ha ristrutturato la propria rete di promozione. Avete presente che cosa significa "ristrutturare" ultimamente?
Ecco, proprio così.
Mondadori aveva 4 rappresentanti in Piemonte diventati, dal 1 gennaio 2010 soltanto due.
Gli altri due sono scomparsi, presumibilmente mandati a cercarsi un altro lavoro. Questo significa, ovviamente, un taglio netto al numero di librerie visitate. Noi, per cominciare, abbiamo avuto un paio di conversazioni con i due superstiti, fondamentalmente per sentirci dire: «Noi non ce la facciamo a visitare tutte le librerie fornite da Mondadori. Quindi farete bene a rivolgervi ai grossisti.»
Valeva proprio la pena, abbiamo pensato sul momento, di pagare sempre - sia pure con qualche ritardo, ammettiamolo - la Mondadori.
Ma il problema vero, in sostanza, è quello di una crisi che morde e taglia.
La percentuale delle rese sugli acquisti delle librerie indipendenti è troppo alto per la produzione Mondadori, una produzione che tra Oscar, collane economiche e collane maggiori viaggia intorno alle 1500 -2000 titoli / anno. Tenendo conto che noi, libreria medio-piccola, abbiamo acquistato nel 2009 318 titoli mondadoriani rendendone nel 2010 circa un 40% ci si fa un'idea di cosa va inteso come «grande cliente» nella visione mondadoriana e di cosa sia, viceversa, un piccolo cliente.
Ma liberarsi dei piccoli clienti - piccoli e diseconomici - può non essere una grande idea. Perlomeno pensando a un futuro che vada oltre i 2-3 anni.
In discussione c'è la capillarità della presenza Mondadoriana, ovvero la presenza diffusa dei titoli sul territorio. Ci sono i grossisti, naturalmente, e una presenza comunque ragionevolmente diffusa ma il problema della diffusione non è la presenza di Luciano De Crescenzo o di Forattini sia nelle cartolibrerie di paese che nei supermercati o nelle librerie di catena. Il problema reale è quello della presenza di autori come William Vollmann, o Audrey Niffenegger, Dave Eggers, Will Self, Junot Diaz, David Sedaris e tanti altri, italiani e stranieri, che godono di una discreta posizione presso le librerie indipendenti mentre rischiano di scomparire nell'offerta esorbitante delle librerie di catena e a non arrivare - semplicemente - nei piccoli punti vendita.
Questo significa, a media distanza, autocondannarsi a pubblicare Dan Brown, Bruno Vespa, Sophie Kinsella, Giampiero Mughini o simili rinunciando a coprire la frazione più alta - per gusto e per scelta - del pubblico.
Il famoso 3% di cittadini italiani che legge più di dodici libri all'anno.
In pratica Mondadori procede come molti imprenditori in tempi di crisi: taglia la propria presenza in termini qualitativi per conservare quella quantitativa.
Già, ma non c'è bisogno di essere Lenin per supporre che il legame tra qualità e quantità non sia così inafferrabile e indefinibile e soprattutto che il rapporto tra qualità e quantità non sia così inesistente.
Ma facciamo un passo indietro.
Schematicamente si può affermare che gradualmente la selezione dei titoli di maggior successo (e di buona qualità) sia passata dal gusto di pochi «sacerdoti» del gusto letterario - autori, critici, curatori, redattori - ripresi e pubbicati da riviste specializzate e dai quotidiani, a una selezione non più qualitativa ma semplicemente di tipo promozionale sganciata dalle riviste specializzate (condannate in massa alla chiusura) e condotta da quotidiani e rotocalchi a grande diffusione. Un tam-tam un po' volgarotto ma sicuramente efficace che spinge un titolo in rapporto al suo successo potenziale, basandosi sul semplice assunto pubblico ampio = cultura elementare. Risultato è che ci siamo «liberati» di vecchi, ingombranti e tossici maitre-a-penser rotolando però nella brace dei titoli a scadenza prestampata e in una comunicazione culturale di bassissimo livello.
Lo so, sono stato eccessivamente schematico e me ne scuso (esistono anche fenomeni come "il tempo che fa" o "Fahrenheit", lo so) ma sottolineo l'aspetto interessante del fenomeno ovvero che, tendenzialmente, il mass-market finirà con l'ingoiare la produzione di punta, ovvero a renderla marginale.
D'altro canto l'ansia di inseguire il «vasto pubblico» permea ogni comunicazione mediatica contemporanea. Il «vasto pubblico» è l'apparente garanzia di un successo sia commerciale che industriale che politico.
Un intento che è estremamente pericoloso.
I forti lettori - tra i quali mi metto anch'io - cominciano a dare qualche segnale di stanchezza.
Sono inquieti, insofferenti. Indipendentemente dalla crisi in corso, si lamentano della produzione, del suo prezzo, della minore durata in commercio dei titoli.
Si sentono un po' marginalizzati.
In effetti loro rischiano di essere la qualità sacrificata alla quantità.
«Possono andare in una libreria di catena», si dirà.
Certo.
Ma ci sono andato anch'io e c'è un'aria che non mi piace, lì.
Confusione, disinteresse per il lettore, caos.
Difetti minimi, temporanei, transitori, certo.
Una direzione migliorabile, come no.
Ma FNAC e Feltrinelli non mi piacciono proprio e li eviterei anche se nella vita facessi tutt'altro. Batterei le bancarelle, piuttosto, certo di trovarvi buoni e persino ottimi libri.
La qualità nel mio caso resterebbe serenamente e definitivamente separata dalla quantità.
E temo di non essere il solo.
No, c'è qualcosa che non funziona in questo modo di vedere il mondo.
Qualcosa che non funziona nel modo mondadoriano di giudicare e operare nella realtà.
«Qualcuno ai piani alti batte i coperchi» ho sentito dire - giusto in ambito mondadoriano.
Qualcosa da aggiungere?

P.S.: so che diversi tra i nostri clienti disprezzano profondamente Mondadori in quanto di proprietà del demente. Qualcuno estende il suo disprezzo anche all'Einaudi, di proprietà mondadoriana. Tutti questi simpatici e benintenzionati clienti si chiederanno perché mai mi preoccupi della presenza o meno di AME dal momento che loro fanno a meno di Mondadori ormai da tempo. Che dire? Beh, io non sono tanto automatico nel far discendere la linea editoriale dal l'identità del proprietario. Mondadori, come tutti gli editori di questo mondo, si preoccupa prima di tutto di produrre libri che vendono. Se, putacaso, il libro che vende fossero le poesie di Vendola, Mondadori si affretterebbe ad aggiudicarsele. Boicottare AME rischia di essere un po' masochistico, tanto più che tutti acquistiamo prodotti che, viceversa, rendono al demente infinitamente di più in termini di pubblicità sulle sue reti. Dalla carta-casa alla pasta, ai cracker, agli assorbenti, ai surgelati, ai sughi pronti ecc. ecc.
Mi preoccupa un po' di più vedere Mondadori prostituirsi stampando e distribuendo l'ultimo libretto illustrato con le avventure del demente... ma qui mi fermo per evitare di riprendere le tirate politicanti dalle quali ho promesso di astenermi...